Ci sono persone che si dedicano alla coltivazione dei fiori solo per poterne strappare i petali.
Yukio Mishima
Addio amiche mie/dai fiori nei capelli/Addio verdi colline/ormai scende la notte
Pino Caruso
We look at the world once, in childhood./ The rest is memory
Louise Gluck
Una notte di metà novembre.
Oggi il sole ha regnato nel cielo, impavido: l’estate di San Martino.
Da una parte consolatorio. Da un’altra parte, lontano. Non consono. Quasi incongruo. Stamane vedere, dalla voliera di acciaio dove siamo prigionieri come cardellini, la fila delle ambulanze afferire al PS e la fila dei carri funebri uscire dalla Morgue, metteva in uno stato d’animo che sarebbe stato più facile dissolvere nella nebbia piovigginosa. Invece il sole secca, coagula, getta un’ insopportabile luce su tutto questo immenso squallore.
Adesso, finalmente, è notte.
Mi assilla una domanda, che in questo momento sembrerebbe la più incongrua, proprio come il sole di oggi: è ancora possibile, in questi frangenti, mantenere la dignità di un incontro?
Un incontro con il paziente, certo. Ma non solo. Forse anche di un incontro con se stessi. E’ ancora possibile incontrare autenticamente qualcuno, oppure incontrare se stessi?
E’ possibile, adesso, salvare la mia dignità di psichiatra?
Sentire di stare accogliendo veramente un paziente, occupandosi di lui?
Sono appena salito su dal PS dove la situazione mi è apparsa tragica. Ridotti ad un paio di stanze, a mano a mano che aumentano i pazienti COVID, tutto lo spazio si consuma, le porte vengono arretrate, la zona rossa chiusa al di là di un fragile e mobile sipario. Tutto il PS di una volta si è trasformato in un accampamento COVID. Sembra l’invasione degli ultracorpi. Entro da una porticina laterale, ormai sempre aperta, tra bombole di ossigeno e sangue, operatori bardati con visiere abbassate, i “guerrieri della luce” e lettighe dovunque. Tutti che corrono da qualche parte, senza approdare da nessuna parte.
Un paziente, accompagnato dai colleghi di un CSM che dista quaranta chilometri da qui (perché l’altro nostro SPDC è già COVID) e dai carabinieri, dopo la vana attesa di ore dell’ambulanza, in TSO, giaceva solo, sedato, con la testa reclinata, su una sedia a rotelle al centro di quella che una volta era la sala d’attesa, al di là del vetro del triage. Era l’immagine di Cristo di fronte a Pilato, era un ecce homo.
Un altro paziente, accompagnato dalle forze dell’ordine, giaceva sedato e barellato davanti a ciò che resta dell’OBI. Il conto dei pochi posti disponibili che abbiamo, nella nuova “riallocazione” dell’SPDC, dopo che il nostro glorioso reparto è stato sacrificato al COVID, ci ossessiona.
Come si può, con le dita di una mano sola, contenere il fabbisogno “psicopatologico” di un milione di abitanti?
La paura di saturarli e di non avere come accogliere l’acuzie ci induce a dimissioni lampo.
Ci hanno intimato l’ “appropriatezza” dei ricoveri. “Appropriatezza”, che elegante parola manageriale, come “ottimizzazione”, “riallocazione”. “implementazione”. Tutte parole che ormai mi scivolano sulla pelle come gocce d’acqua. Ci arriva una circolare al giorno zeppa di questi termini fantastici.
Peccato che siamo costretti a rimandare di notte a casa pazienti che una volta avremmo accolto, e tutto sulla loro pelle, sulla nostra pelle. E tra la rabbia dei familiari. Ho cercato i familiari del paziente in TSO che aspettano in piedi fuori, nel freddo della notte. E’ un uomo di mezza età, che non ha mai avuto contatti con la Salute Mentale, né ha mai manifestato un disagio psichico e/o comportamentale. Improvvisamente ha dichiarato di volersi uccidere e, condotto al CSM, ha avuto una crisi pantoclastica. Diversi sono stati i suicidi negli ultimi giorni. Di non pazienti. Di persone “normali”. E anche gli omicidi, di giovani, e di donne. Il clima che stiamo vivendo è apocalittico.
Le ambulanze, ormai, non rispondono più alle chiamate, non vanno più a casa di nessuno. Sono costrette a girare con malati COVID a bordo alla ricerca di un PS che non sia chiuso con le catene o a stazionare per ore davanti ad un PO in attesa di poter sbarellare. I familiari dei nostri pazienti, e di tutti i pazienti non COVID, sono disperati. Disperati di poter effettuare un ricovero o di ricevere assistenza a casa.
Noi stessi stiamo diventando positivi uno dopo l’altro, senza che nessuno prenda il nostro posto, ci stiamo fulminando come lampadine. E più se ne fulminano più il carico di tensione su quelle che sono rimaste accese ne fa fulminare. Ora si tratta, per me, stanotte, di riuscire a fare qualcosa che in altri tempi sarebbe stato normale fare, ed ora, invece, appare un’impresa titanica: espletare esami strumentali e di laboratorio prima di accettare questi due pazienti in reparto.
Oltre, naturalmente, ad attendere l’esito del sierologico e del tampone rapido. Ricordo lo sguardo del collega che nel tardo pomeriggio era con me, quando ci siamo trovati giù. Ad un certo punto abbiamo avuto chiaro che tutto il movimento impazzito attorno a noi aveva “ben” altro a cui pensare. Abbiamo avuto chiaro che fare gli esami ai nostri due pazienti sarebbe stato assai complicato.
Rimpiango il tempo, breve, ma che mi sembra assai lontano, di quando avevamo il nostro reparto grande, la nostra “isola felice”. Avevamo la nostra zona filtro, velocizzavamo gli ingressi e liberavamo il PS dopo il sierologico. Poi i pazienti aspettavano con calma il tampone in zona filtro. Anche se non era affatto semplice tenere il paziente in zona filtro. E’ qui che un paziente ha accecato un altro durante la notte. E’ qui che le angosce deliranti di morte di una paziente si sono acuite dopo che ha visto che veniva portata in una zona dell’ospedale isolata dagli altri pazienti. Si è domandata, giustamente, dove fossero gli altri. E se noi non fossimo proprio gli assassini che volevano ucciderla. Gli esecutori materiali del mandato dei suoi persecutori.
Dopo che il mio collega nel pomeriggio smonta, mi installo nel PS. Il destino di questi due pazienti lo sento, ora, appeso a me. E io sono in bilico con tutti gli altri su una zattera che imbarca acqua. La sensazione di nausea che provo è pervasiva. La percezione diffusa è che un’ intera nazione sta collassando su di un’unica malattia. Sospesi i diritti civili, sospesa l’economia, tutto piegato sul COVID.
Esquirol, allievo di Pinel, direbbe che siamo tutti pericolosamente affetti da una Monomania.
La COVID-mania.
Mi sono domandato, in effetti, che cos’è che stiamo vivendo. La follia di una pandemia… o la pandemia di una follia. Non so più se i danni maggiori del COVID saranno quelli dovuti all’infezione, o quelli collaterali.
Con tutto un sistema sanitario piegato sul COVID, neanche ci si riesce a far adeguatamente fronte.
Nel frattempo l’economia muore, gli altri pazienti muoiono, la scuola muore, l’amicizia muore, l’amore muore, le famiglie muoiono. Muoiono dentro. Gli anziani muoiono. Mio padre, chiuso in casa senza vedere più figli e nipoti, muore ogni giorno. Mi avvicino al paziente barellato e sedato. Gli scopro la pancia. Dal consumo degli abiti e dalla trascuratezza della persona sembra uno senza fissa dimora. Sicuramente una persona marginale, un derelitto. Ha i pantaloni bagnati di urina. Un ago cannula nel braccio. Noto una cicatrice chirurgica che dal pube arriva allo sterno. Impossibile sapere cosa ha avuto. Non posso, ad ogni modo, portarmelo in reparto così. Bisogna che faccia almeno una TAC cranica, un eco addome, una rx toracica, senza parlare del tracciato. Anche l’altro, che non vedo più sulla sedia a rotelle, deve fare almeno una TAC cranica. Tra l’altro è affetto da una rettocolite ulcerosa ed è un iperteso, come apprendo dalle carte lasciate nelle mani dei familiari. Per procedere a questi esami si deve avere prima l’esito del tampone. Esco dal triage per andare alla ricerca del paziente in TSO, che non vedo più.
Mentre attraverso lo spazio della ex sala di attesa trasformato in una astanteria di fortuna, mi colpisce un uomo che si tiene una mano che sanguina vistosamente, si avvicina ad un’infermiera tutta bardata.
L’infermiera gli urla :”Non si avvicini, sono contaminata, ora le passo qualcosa per tamponarsi il sangue!” intanto mi faccio largo tra bombole di ossigeno accatastate, che sono grandi quanto erano grandi le bombe delle Fortezze Volanti, e cerco di capire, guardando dietro i tanti separè sistemati alla meglio, che fine abbia fatto il mio paziente in TSO.
Lo intravedo finalmente riverso su una barella, faccio per andare verso di lui, ed un altro “guerriero della luce” mi blocca dicendomi. “Dottore non può accedere qui con una FFP2!”. Si faccia dare almeno una FFP3!”. Lo ringrazio, il mio paziente è ancora sedato. Chi me la dà in questo inferno una FFP3?
I colleghi, che a stento distinguo dagli infermieri, hanno le radio ricetrasmittenti in una mano e il telefono o il maus del computer nell’altra, e chiedono disperatamente posti COVID alla centrale operativa, o chiamano direttamente anche alle clinche private, per evacuare i pazienti già valutati e consentire alle ambulanze di sbarellare. Ma io, che ci faccio io stanotte qui?
Si è fatta intanto mezzanotte.
Trovo finalmente una collega sensibile. Mi accorda gli esami richiesti. I tamponi rapidi sono negativi.
Faccio scendere due infermieri dal reparto, e con gli OS del PS, finalmente i pazienti partono per le indagini radiologiche. Intanto è da ripetere tracciato ed enzimi dell’ homeless. In tutto questo sto ricoverando due uomini, con i quali non ho per niente parlato, di cui non so nulla, di cui uno in TS0.
Dov’è finito il mio essere psichiatra? Come si può ricoverare qualcuno che non conosci e con cui non hai potuto parlare, solo sulla base di una descrizione generica di “agitazione psicomotoria”?
Senza un parente, senza nessuno a cui poterlo eventualmente riaffidare. Trovo legato con il nastro isolante bianco al tubolare della barella la tessera sanitaria del paziente homeless. Me la metto in tasca.
Raccolgo una scarpa che è caduta a terra, l’altra la troverà una giovane infermiera da qualche altra parte. Prendo intanto dai parenti fuori le buste di plastica dei ricambi del paziente in TSO, le assicuro alla sua barella, cosicchè lo possano seguire sopra. Cerco di rassicurarli. Io per loro sono, stanotte, la faccia dell’istituzione sanitaria. E non sono sicuro di quello che, stanotte, trasmettono i miei occhi e la mia voce. E’ solo dopo verso le due del mattino, dalle 5 del pomeriggio, che l’iter diagnostico per entrambi i pazienti si completa. Posso tornare sopra con i miei due pazienti. Gli infermieri e gli ooss entrano con le barelle in ascensore. Io mi avvio a piedi.
La notte è profonda e confina quasi con l’aurora, mi aspetta nella mia “cella” una tazza di latte bianco e freddo. Intanto una cortina di nebbia si stende sulle luci dell’ospedale. Salgo a piedi per la scala antiincendio esterna. Ho bisogno di aria. Accendo un sigaro, anche se non si potrebbe, mi fermo. Non so per quanto mi fermo. Ho bisogno del sapore forte del tabacco, forse per convincermi che sento ancora gli odori, in realtà per scacciare la nausea che è pervasiva. Poi salgo lentamente.
Ho nella mente gli occhi degli infermieri e delle infermiere giovani che ho incontrato giù, assunti da poco, che volano come angeli nella notte senza toccare terra, che non si negano a niente. Sono in servizio da più ore di me, e chissà quando smonteranno. Ho in mente gli occhi, solo gli occhi, di tutti quelli che mi hanno aiutato ad espletare queste indagini, per questi due uomini sconosciuti, nonostante l’inferno. Le sirene delle ambulanze ora sembrano, per un attimo, tacere. I nostri capi dormono a quest’ora, lontani.
Mai visti in questi giorni così critici.
Mai nessuno che è venuto a dirci, quando ci hanno sbaraccato, “Ragazzi vi stiamo chiedendo un sacrificio, ma ritornerete”. La politica è occupata solo da se stessa. Le recriminazioni sono inutili. Forse non ne usciremo. Comincio a pensare che non ne usciremo. Ma questo pensiero non mi uccide. Se ho ancora rabbia, dentro, non è più per il “sistema” di cui il COVID ha meravigliosamente evidenziato tutta l’incapacità, la fallacia, il pressapochismo, la vanagloria, l’ottusità. Ho solo rabbia per me stesso, perché mi sono venuto a trovare, come sempre, vittima del mio idealismo, sulla linea del fuoco, perché non sono neanche questa volta riuscito ad imboscarmi. Tutti mi dicono che sono depresso. Come se in questa situazione si potesse essere felici. Certo, è vero che in questo momento non ho proprio nessuno accanto a me. Nessuno che mi aspetta a casa.
Nessuno con cui condividere un’ora della mia vita fuori da qui.
In fondo prendermi o non prendermi il COVID non farebbe differenza. A parte che per me stesso, dunque, non ho rabbia.
Sono freddo. Ho freddo. La rabbia è finita. Questa è una malinconia è senza rabbia. E forse anche senza amore. Mi rimane questo assurdo attaccamento alla “divisa” che porto. Al giuramento di Ippocrate.
All’idea di psichiatra che vorrei essere, e che non riesco ad essere più. Il dolore per i pazienti è forte, il dolore per il loro destino. Li percepisco così fragili, così indifesi, così deboli, così ultimi, così dimenticati da tutti in questo momento. E’ la nostalgia dell’idea perduta di andare incontro a qualcuno, di tendergli una mano, mentre quello che a stento riesco a fare è il medico: prendermi cura del loro corpo abbandonato su di una barella o su di una sedia a rotelle. E la loro mente, la loro anima dove è svanita? Mi occupo di persone sedate che non possono chiedermi nulla, a cui non posso dire nulla. E’ questo ancora amore?
Non lo so.
E’ questa la psichiatria che ho amato?
Non lo so.
Insieme ai miei colleghi mi sento abbandonato da quello stesso Stato per cui lavoro, senza più sosta, senza più ferie e in una condizione surreale. Mi sento abbandonato dai suoi rappresentanti, per cui io stesso ho votato, bravi a fare proclami e a promulgare editti e decreti.
Mi sento come l’anonimo legionario di Lucera che moriva nel Congo nell’indifferenza dell’ONU.
Verso il quarto piano, su, in alto, avverto l’odore dello zolfo. Una zaffata sulfurea portata dalla dolce breccia del mare mi riscuote dal mio torpore malinconico. Si annuncia un’aurora rosata, magari le emanazioni dei campi ardenti “sanificano” l’atmosfera. Ma trasmettono anche al mio sangue un fremito di vita, da parte di questa terra abitata già settantamila anni fa.
Sono contento che allo smonto andrò dalle detenute in carcere, e di fare il gruppo con loro. Solo tra quelle donne che tutto hanno vissuto mi posso consentire di piangere in silenzio, senza singhiozzare, contenuto dall’abbraccio di una umanità del tutto straziata eppure terribilmente intatta nella sua vitalità. Entro nel reparto. I corpi dei due uomini riposano, ora, al letto, al caldo, composti dagli infermieri. Saluto i ragazzi, dando loro la buonanotte o il buongiorno, non so. Li ringrazio, entro nella mia camera. La tazza di latte è rimasta sul tavolo. Ma, penso, tra poco mi farò il caffè con la moka. Mi stendo sulla branda accanto alla grata.
L’alba, in fondo, è vicina.
Devo trovare la forza di ricominciare a sperare.
Devo attaccarmi alla nostalgia di una vita possibile.
L’idea che qualcuno, qualcuno che non posso vedere, che non posso abbracciare, con cui non posso parlare possa leggere queste parole e sentire quello che ho sentito io, anche per chi non può sentirlo, mi consente di chiudere gli occhi e di lasciare andare l ami coscienza alla stanchezza del mio corpo.
Un’altra notte è passata.
E un'altra alba verrà. Viviamo ancora…
Gilberto, continuo a leggerti
Gilberto, continuo a leggerti nonostante la stanchezza non mi lasci tregua. …Covid, Covid, Covid ormai non c’è altro e noi stiamo diventando i nuovi alienati nella follia pandemica.
Sto iniziando ad accusare il colpo e mi rincuora saperti alla ricerca dell’ultimo spicchio di speranza. Vorrei anch’io darmi dell’idealista, ma in fondo mi sento, come si dice dalle nostre parti, “STRUNZ” a non riuscirmi ad imboscare; credimi, adesso ne avrei proprio bisogno.
P.S. Ti sto accanto…
Grazie Giuseppe, con cui
Grazie Giuseppe, con cui divido la poetica e la miseria di questa sterminata periferia nord di Napoli. continuiamo ad esserci.
Il COVID sembra l’unico luogo
Il COVID sembra l’unico luogo in cui combattiamo per ritrovare e riconoscere la nostra umanità, fuori o dentro di noi. Parlando con amici, pazienti, genitori, figli, colleghi, tutta la nostra umanità è declinata al tempo COVID. Sarà per questo che, nonostante la mia stanchezza per il COVID, questo racconto sembra avere il ritmo di un respiro completo. Di questo campo di battaglia ho sentito la nausea, il vociare distante del PS, quella leggera apprensione, che tradisce la meno leggera consapevolezza di dover essere pronti a tutto, per il paziente in TSO che non era più lì; ho sentito il fermarsi del tempo sull’odore del tabacco lungo i gradini della scala antincendio, ho visto la luce del sole e l’aurora rosata. Ho visto uno psichiatra che flutta dalla surrealtà del PS alle lande desolate delle nostre case, per raggiungere anche la nostra quotidianità più semplice e ricordarci che dove c’è umanità c’è sempre possibilità di incontrarsi. E su questo racconto ci si incontra.
Grazie.
Grazie Raffaella, il ritorno
Grazie Raffaella, il ritorno di un grido di dolore lo trasforma in un grido di vita. non è solo un’eco a se stessi. E’ la voce di qualcuno che, dall’altra parte, abita la stessa landa, patisce la stessa notte, soffre la stessa battaglia, si gioca la stessa umanità. laddove riusciamo ad incontrarci iniziamo già a rifondare il mondo. Ti abbraccio.
Carissimo Gilberto,
rimango
Carissimo Gilberto,
rimango ammirato, una volta di più, su come riesci a ridare corpo, anima e cuore al nostro operare quotidiano così come a trasmetterci senza riserbo o titubanze le tue emozioni e le tue fatiche in una “banale” giornata di turno in SPDC: la realtà e le esperienze che descrivi offrono un paesaggio di crudezza che soltanto la poesia delle tue parole riesce, in parte, ad attenuare.
Adesso, restando tenacemente e irrimediabilmente sulla zattera dove ci troviamo in balia delle onde, abbiamo il compito di resistere per salvare il salvabile, ancor prima di salvare noi stessi. Allo stesso tempo, però, potremmo prendere esempio dalle fatiche di Sisifo a cui sono, da sempre, sottoposti i nostri pazienti così avvezzi (giusto o sbagliato che sia) a tollerare le frustrazioni: allora, forse, potremmo accettare di vivere anche noi (come spesso accade a tanti di loro) sospesi in un limbo di tempo in cui tutto si ferma e si congela. In effetti, tutto ci dice che, ora, è il momento di fermarsi, di offrire fiducia ai nostri pazienti e ai loro familiari anche a dispetto delle evidenze, fosse anche di arrangiarci, di riscoprire la luce anche quando l’ombra sembra prevalere su ogni dove (da esperti della psiche in questo siamo molto abili!).
Io, Gilberto, recupero fiducia quando riesci a trovare “una collega sensibile” oppure quando afferri con lo sguardo “gli occhi degli infermieri e delle infermiere giovani che ho incontrato giù, assunti da poco, che volano come angeli nella notte senza toccare terra” (in questa immagine nasce spontaneo il ricordo di Callieri che amava citare il “se tenir par les yeux” di due esseri umani che comunicano e si tengono per mano, grazie agli occhi, anche senza dover fare ricorso alle parole).
Ma non possiamo, come psichiatri e psicologi, essere fieri del nostro servizio di sanità pubblica?
In questa palude pandemica, non abbiamo nulla da salvare?
In una stagione in cui i modelli sanitari organizzati in modo ospedale-centrico hanno mostrato incrinature, crepe e voragini, non possiamo sentirci, una volta ancora, degli innovatori in ambito sanitario grazie ad una riforma ormai più che quarantennale che ha privilegiato interventi di e nella comunità?
Non siamo stati precursori e “speciali” anche noi, con le visite a domicilio e con la “psichiatria a km zero” di cui ci parlava Francesco Cernuto, delle USCA (Unità Speciali Continuità Assistenziale)?
Non ci sentiamo più spronati dai nostri predecessori (oltre a Basaglia, sempre giustamente citato, andrebbero anche ricordati Barison, Gozzetti, Ballerini, Petrella, Callieri, Calvi) che, ispirati dalla cultura fenomenologica e psicodinamica, sono riusciti a smantellare l’ospedale psichiatrico creando una molteplicità di interventi terapeutici sul territorio? Riprendendo una tua immagine metaforica, non possiamo più essere quei funamboli che riescono nonostante e, talora, anche contro tutto e tutti a modulare i nostri interventi anche in situazioni drammaticamente destabilizzanti e di crisi?
Il tuo diario di bordo è a tinte forti e drammatiche, perché questa è la realtà che tutti noi possiamo vedere e constatare nei servizi pubblici: le tue parole invece che demoralizzarmi mi danno forza e fiducia, perché ci dimostri come anche di fronte ad un destino di morte così diffuso, comunque per ora siamo sempre qui per i nostri figli, per i nostri cari, per i nostri pazienti, per la nostra amicizia, per gli esclusi ed i rifiutati (i migranti, i senza fissa dimora di cui ci ricordi, mirabilmente, l’esistenza).
Grazie di cuore, Gilberto, una volta ancora, per questa folata di vita che ci hai offerto
Caro Giampaolo, ti ringrazio
Caro Giampaolo, ti ringrazio perchè sei riuscito a dare voce al silenzio che sta tra le mie parole. A restituirmi la speranza e il coraggio che da me stesso promana, e che però non sento più a tratti. Sono convinto che ciò che tu dici andrà a rappresentare il calco di ciò che dobbiamo riuscire a ricostruire dopo questa catastrofe. Il pensiero manageriale, semplicista e amante delle scorciatoie, piegato dalla politica dei cacciatori di consenso, rischia di abbracciare ciò che l’emergenza ha fatto “emergere” e trasformarlo in paradigma. Temo la liquidazione definitiva di tutto un pensiero sulla cura. Mi piacerebbe tanto sentire altri colleghi preoccupati di questo. Ma a volte sembriamo topi su una nave che affonda, ognuno aggrappato al proprio pezzo di legno, preoccupato per la propria salvezza, e non per la salvezza di tutti. Come se ci fossimo rassegnati al fatto che non possiamo salvarci tutti. Il diasagio di una civiltà di freudiano memoria in questi casi rischia di trasformarsi nella crudeltà e nell’insipienza di una civiltà.
L’intervento di Gilberto è,
L’intervento di Gilberto è, come sempre affascinante e coraggioso, ha la forma della legittima denuncia politica e politico-sanitaria, del grido per una sofferenza spersonalizzante, ma soprattutto del diario di un medico dii guerra: non a caso l’inconscio dei nostri governanti ha per un attimo, solo per un attimo, evocato il nome di Gino Strada come salvatore di una catastrofe sanitaria regionale, prima di rendersi conto che si trattava di una fantasia. I PS in effetti hanno sempre più l’aspetto degli ospedali da campo e noi psichiatri ci sentiamo e siamo trattati un po’ come pesci fuor d’acqua. Certamente non c’è spazio nè tempo neanche per le valutazioni mediche, figuriamoci per “incontrare” i pazienti e instaurare con loro una relazione di presa in carico rassicurante. Non si capisce in cosa consista quell’appropriatezza che ci viene raccomandata dai portaparola degli assessori regionali. Tuttavia io non condivido la sofferenza lirica e iperpatica di Gilberto, penso invece che lo straniamento che ci prende soprattutto nei PS e di notte, ma, più in generale, in questi ospedali ridotti in gran parte a lazzaretti (e strutturalmente inadatti a farlo), luoghi tristissimi e fortemente disumanizzanti volti ad erogare procedure sanitarie, nei quali l’umanità e il comfort di pazienti e operatori non sono presi neanche in considerazione, ci debba far riflettere se, ad esempio, sia proprio necessario il ricorso del PS e dell’ospedale per i nostri utenti. Sento già le obiezioni di carattere medico e sociopolitico, tuttavia più gli anni avanzano più credo che la psichiatria, con i mezzi che abbiamo oggi, cioè una ricca dotazione farmacologica e la possibiltà straordinaria che solo la conoscenza della psicopatologia ci conferisce, di capire e gestire le relazioni con i pazienti anche in condizioni estreme, potrebbero, soprattutto ora, consentire di realizzare la completa o quasi transizione territoriale asupicata dalla riforma basagliana. Non vi è nel mio pensiero alcuna nostalgia di quando la psichiatria era in locali prossimi ma distinti dagli altri padiglioni o dagli altri reparti ospedalieri; vi è piuttosto una visione volta a ottimizzarei l’efficienza dei percorsii e dei processi assistenziali terriroriali basati non solo sulle evidenze sceintifiche ma soprattutto sulle capacità dei singoli operatori di gestire in maniera ottimale un gran numero di pazienti, anche utilizzando gli strumenti degli interventi in remoto, dei contatti telefonici, delle videochiamate. Ciò di cui i nostri pazienti hanno veramente bisogno è avere un riferimento ed una presenza continua di un terapeuta che li conosca perfettamente e di servizi accoglienti che facilitino la compliance alla cura; a volte sono sufficienti microinterventi telefonici, un msg wa o messenger, per garantire la continuità della presa in carico e rassicurare il paziente che noi ci siamo per lui, che in qualsiasi momento lui può riferirsi a noi.
la psichiatria è già da anni profondamente mutata: i TSO sono diventati eventi eccezionali e praticamente non si fanno più sui pazienti presi in carico; molte emergenze e riacutizzazioni psicotiche e molte situazioni critiche post-psicotiche vengono gestite negli ambulatori territoriali; molte ricadute sono prevenute grazie alla conoscenza dei sintomi prodromici. Il modello intero della assistenza psichiatrica è pronto per una revisione ed un restyling che riduca al minimo gli intervento di PS e ospedalieri. Adesso, grazie alla digitalizzazione, perfino lo spazio-tempo della cura non ha più neppure bisogno di un luogo, perchè in gran parte si dispiega sugli smartphone. Come mi disse ironicamente qualche tempo fa un collega, il suo telefono “era diventato un centro di salute mentale”: anche il mio lo è, già da tempo, un luogo virtuale per interazioni semplici ma anche raffinate, che può garantire comunicazioni verbali e non verbali, trasferire immagini, suoni, voci, e, all’occorrenza, ricette, prescrizioni. Questa è la strada del futuro, e la psichiatria, lo sappiamo bene, è, senza che gli amministratori e i politici se ne siano mai accorti, sempre all’avanguardia delle pratiche terapeutiche e assitenziali territoriali.
Solo in qeusto modo, uscendo dagli ospedali, soprattutto oggi che sono diventati gironi infernali, centrando la cura sul rapporto, ovunque esso avvenga, anche nel non spazio-non luogo della rete, caro Gilberto, è possibile riappropriarsi del proprio lavoro e di quell’amore per il proprio sapere e il proprio fare di cui avverti il venir meno.
Caro Riccardo, ti ringrazio
Caro Riccardo, ti ringrazio molto del tuo intervento. Ne approfitto per riflettere insieme a te e ai lettori su alcune questioni che tu sollevi:
1) E’ un dato che una buona parte della nostra popolazione di pazienti psicotici e/o affetti da disturbi gravi della personalità o dipendenza da sostanze è, allo sta, nel nostro Paese, “diversamente” residenzializzata, ovvero occupante un posto-letto, sia nella filiera delle comunità e delle strutture intermedie, che nella filiera delle cliniche psichiatriche convenzionate. Escludendo gli SPDC. Questo dato sconfessa abbastanza l’idea che i nostri pazienti sono trattabili prescindendo da un “ricovero” da qualche parte, temporaneo o, spesso, prolungato;
2) E’ un dato che ciò che comunemente viene chiamato “esordio”, in una consistente percentuale dei casi, afferisce ancora agli SPDC, per vari motivi, non ultimo la necessita di una clearance medica che a domicilio, a meno che non si sia dotati di programmi home-care, non sembra essere possibile;
3) La rete dei CSM italiani ha subito, negli ultimi venti anni, accorpamenti e riduzione di orari di apertura notevoli. I CSM a 24 ore sono rarissimi, idem quelli dotati di centro crisi. Non sempre per non dire quasi mai questo psichiatra riferimento che tu giustamente auspichi è di facile accesso. Spesso non è di facile accesso, in alcune realtà, neanche una prima visita. I PO dotati di SPDC offrono la possibilità di un ascolto psichiatrico immediato e gratuito 24/24 h, compresi i festivi, e i superfestivi. Non so se il telefonino su cui il collega ha virtualizzato il CSM è attivo a Natale, a Pasqua e a Ferragosto. Per non parlare dei weekend. In Ospedale ci sta sempre qualcuno. A qualunque ora della notte. Anche se in nessun PS è stato strutturato uno spazio per l’accoglienza psichiatrica;
4) Siamo coinvolti in processi giudiziari per morti improvvise dei nostri pazienti, in alcuni casi attribuite alla somministrazione di psicofarmaci. I nostri pazienti, soprattutto quelli di lungo corso, hanno una aspettativa di vita ridotta, soffrono di sindromi dismetaboliche, cardiopatie, interstiziopatie polmonari, obesità, ipertensione ed altro. Il monitoraggio clinico di queste condizioni è un loro diritto, prima di essere una nostra precauzione difensiva. Non credo sia possibile fare questo monitoraggio in remoto, o fuori da una sede ospedaliera. A volte il ricovero è l’occasione per scoprire un diabete, per fare un ecg, per regolare un antiipertensivo o un antiepilettico.
Personalmente non credo che la “follia” sia “gestibile” con la ricchezza di farmaci che abbiamo, con la relazione o con gli audiovisivi o i social media. Ovviamente tutto è possibile o auspicabile, ed è chiaro che implementare un modello meno medicalizzato possibile rappresenterebbe l’optimum. Tuttavia dobbiamo fare i conti con la realtà. E la realtà, anche quella tragica che stiamo vivendo che vede il collasso del sistema sanitario di fronte ad un’epidemia, ci dice che per affrontare situazioni complesse ci vogliono risorse, competenza, metodo, disciplina, verifica degli esiti, creatività, motivazione. Buoni soldati e ufficiali ancora migliori. Al di qua di tutto questo si apre una Wasteland di pressapochismo e abbandono. Ma sono certo che non era questo che tu volevi dire. Come sono certo, per sfiducia totale nei nostri politici e manager, che, se qualcuno di loro leggesse quello che hai scritto, penserebbe ciò che tu non pensi: che basta un telefonino per interloquire con che vive la disperazione della schizofrenia, il sospetto intriso di vendetta della paranoia, la infuocata espansione maniacale, la tomba malinconica, i fuochi fatui borderline, per non parlare di quando si fa acuta la “normale” angoscia di essere nel mondo. Ti abbraccio.