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Pandemia, welfare e territorio

26 Nov 20

A cura di Leonardo Dino Angelini

È indubbio che la pandemia rappresenti una immane catastrofe in tutto il mondo. Ciononostante, ed anzi proprio per gli estremi sconvolgimenti ch’essa va producendo sull’uomo, sulla società, e sull’ambiente, coloro che non si sono votati alla causa neoliberista, o – più semplicemente – che non si ritrovano con una fetta di prosciutto sugli occhi vanno ponendo in evidenza come il Covid aiuti a disvelare di che lagrime grondi e di che sangue il modello di società in cui viviamo. Con queste note mi propongo di porre in evidenza solo ciò che ormai da decenni va flagellando il welfare italiano, e in particolar modo il vero e proprio processo di trasfigurazione cui è andata incontro la soggettività collettiva che era stata protagonista della costruzione del welfare nel passaggio dalla I alla II repubblica.

È noto che la mappa del welfare italiano fin dalle sue origini fra la fine degli anni ’60 all’inizio dei ’70 fosse a macchia di leopardo, per cui nella maggior parte delle zone amministrate dalla DC si presentava come welfare dei sussidi, ed in quelle ‘rosse’, così come in quelle in cui era presente una tradizione di buon governo locale, come welfare dei servizi. Il primo distribuiva a pioggia denaro e sovvenzioni mirando a tessere e solidificare quel tessuto clientelare, che era alla base del consenso intorno alle dirigenze locali. Il secondo invece mirò alla costruzione dei nuovi servizi pubblici e alla ridefinizione delle logiche secondo le quali funzionavano i vecchi servizi.

Lo sviluppo del welfare dei sussidi durante la I repubblica non portò ad alcun cambiamento sostanziale della natura dei servizi, che sostanzialmente rimasero indietro e s’ingrandirono, fra mille frodi, attraverso un uso strumentale delle sovvenzioni provenienti dallo stato centrale.

Nello stesso periodo in quelle zone in cui prevalse il welfare dei servizi da una parte ben presto fu possibile ad ampi strati delle popolazione, e soprattutto per le donne, godere dei vantaggi derivanti dalla fruizione di questi servizi, che presto diventarono uno dei volani della crescita e della stabilità di queste zone. Dall’altra il varo di questi servizi vide l’emergere di una soggettività nuova nata dal dialogo ininterrotto fra giovani operatori e soprattutto operatrici figlie del ’68,  che non rinunciarono mai a sperimentare e a porsi in maniera critica nei confronti ‘della cosa’, ed amministratori ‘accorti’ che a loro volta venivano dalla resistenza e dalle lotte difensive degli anni ’50. E fu quest’alleanza che permise la prosecuzione dell’esperienza anche quando vennero meno i poderosi movimenti di massa che l’avevano fatta nascere.

Fu questo il crogiolo all’interno del quale nacquero la scuole per l’infanzia, gli asili nido, i servizi psichiatrici territoriali, i consultori, la medicina del lavoro, i servizi sociali pubblici, etc.- Si creò in questo modo un campo, il territorio, che non era un’entità geografica, ma un insieme di pratiche condivise (spesso anche con i fruitori dei servizi), metodologicamente incentrate su nuove modalità di lavoro meno burocratiche, più orizzontali e più disposte a operare in rete, sia in termini inter-professionali al proprio interno (le equipe, i collettivi di lavoro, gli organi collegiali, etc.), sia intessendo una rete di reti inter-istituzionale. Con una poderosa forza d’attrazione e di rinnovamento rivolta nei confronti dei vecchi servizi: manicomi, ospedali, vecchia scuola, servizi sociali privati, etc.) –

E fu qui che nacquero gli ‘operatori territoriali’, cioè l’insieme di coloro che cominciarono ad operare in base ad una identificazione operativa con i vari soggetti di cui ci si prendeva cura; e con una particolare attenzione alla prevenzione. Creando in questo modo qualcosa che, al contrario dei sussidi, rimaneva e creava nel tempo una vera e propria cultura dei servizi.

 

Negli anni ‘80 ragioni d’ordine politico economico e sociale portano alla crisi della prima repubblica: infatti con l’affermarsi del neoliberismo alla strategia stragista si affianca, con metodi più subdoli e con risultati più ‘deflagranti’, una nuova strategia  che si muove sullo scacchiere italiano in base a logiche predatorie che vanno dal divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, che fa schizzare il debito, alla svendita prodiana dei beni di famiglia, fino ai primi richiami di Bruxelles che comincia a fare pressioni sul passaggio del welfare italiano “dall’area dei costi a quella delle entrate”, come ebbe a dire il ministro Vizzini a Samarcanda. Mentre una politica fiscale iniqua spingeva buona parte nel ceto medio non solo ad evadere, ma anche a investire il maltolto nei BOT e nei CCT, contribuendo all’impennata del debito. Da ciò la crisi che portò alla seconda repubblica che fin dall’inizio comportò fra l’altro, da parte sia del centrosinistra che del centrodestra, l’attacco al welfare e la precarizzazione crescente del lavoro che pesò fin da subito in maniera estremamente negativa anche sul nuovo welfare, costringendo alla subordinazione acritica i nuovi soggetti che opereranno in questo welfare aziendalizzato e privatizzato.

Le linee d’attacco al welfare furono appunto: l’aziendalizzazione dei servizi; la tikettazione delle prestazioni; la loro crescente privatizzazione in direzione del privato no profit, o profit nel caso in cui le spese per la componente organica del capitale fossero alte (ad es. un ospedale); la loro dismissione (ad es. una parte delle strutture per la cura degli anziani, che da allora sono sulle spalle delle famiglie, delle donne e delle immigrate). Ma anche la deterritorializzazione, cioè lo smantellamento di tutta la rete di reti intorno alla quale si innervavano i vari servizi sanitari, psichiatrici, educativi (prescolari e scolari), assistenziali.

Quando questo attacco partì la sinistra proprio alla Bolognina (!) aveva già buttato al macero l’esperienza che pure aveva contraddistinto il proprio ormai storico modello di buon governo locale, e aveva già fatto proprio il modello neoliberista prodiano del welfare mix, buttando a mare, con l’acqua sporca della dipendenza dall’Urss, anche quel vivace ‘bambino’ che pure aveva tenuto vent’anni prima a battesimo. Anzi, nel tentativo di ribadire la propria primazia sul piano amministrativo, a livello locale fu tra i primi a distruggere il welfare dei servizi, così come lo era stata nel costruirlo. E a nulla valse la scissione di Rifondazione Comunista, che a corto di idee subito si acconciò nei fatti alle logiche neo-liberiste per qualche strapuntino nel governo centrale e in quelli locali, dove è rimasta sempre più afona fino a circa 10 anni fa. Per non parlare del sindacato, che rinunciò a qualsiasi critica pratica nei confronti di questa vera e propria demolizione dei servizi, e che da ultimo è arrivato a proporre il welfare aziendale che intanto mira a coprire solo la sempre più esigua platea dei tutelati, ma che di fatto rappresenta qualcosa che si somma alle tikettazioni, invece di eliminarle.

Penso sia chiaro che questo nuovo modello di welfare non sia assolutamente apparentabile al vecchio e democristiano welfare dei sussidi, per cui le zone in cui questo modello era vincente (tutto il sud, ad esempio) confluiscono in esso solo più povere delle altre poiché in precedenza si erano mangiate le risorse. La sua nascita implica l’emergere sia al nord che al sud, sia nelle ex zone rosse che in quelle bianche di nuovi soggetti sia fra i tecnici che fra gli amministratori, di nuovi metodi di lavoro, di una nuova concezione delle cura. Il perno intorno al quale ruota tutto è l’alleanza fra i nuovi amministratori regionali e locali e la nuova dirigenza che dapprima affianca quella vecchia esautorandola dalla gestione dei passaggi più nucleari in base ai quali porzioni crescenti di welfare sono convogliate sui binari del privato, poi la sostituisce, finendo col cedere porzioni crescenti di welfare ai privati, amici degli amministratori di riferimento del momento.

La deterritorializzazione, coperta spesso dalla sua trasformazione in una caricatura di se stessa (i tavoli di discussione), è una delle chiavi di volta di questo nuovo modello, e può avvenire in vari modi: la chiusura dei vecchi servizi, la loro trasformazione in servizi monoprofessionali, l’emergere di sistemi di valutazione dei risultati in base a logiche aziendalistiche centrate sull’analisi dei risultati dei singoli, e soprattutto la precarizzazione del lavoro che impedisce anche al più volenteroso e capace dei nuovi assunti di esprimersi sul senso delle cose da fare, e la perdita conseguente della longitudinalità della cura, etc.- Inutile dire che tutto ciò si riflette ed anzi si accentua all’interno dei servizi del privato.

 

Nel frattempo in tutta Italia va crescendo una rete fatta di associazioni e di soggetti portatori di progetti di cura non ascrivibili a questa logica, che tende ad inserire il welfare all’interno di un concetto ben più ampio di cura. È su di essi che a mio avviso è possibile contare per la costituzione di un nuovo soggetto che si opponga  a questo andazzo. Per ora mancano le condizioni che sono state alla base del vecchio welfare. Una cosa è certa: esso non può nascere sulle basi del vecchio welfare delle origini, la cui elencazione qui serve solo a far comprendere l’entità del danno subìto. Manca oltretutto l’altro perno sul quale quell’esperienza era stata costruita: quello rappresentato allora dagli ‘amministratori accorti’. Ma intanto – come dicevamo all’inizio – la pandemia, nonostante la spazzatura mediatica da cui siamo invasi, sta facendo riaprire gli occhi a molti.

 

 

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