Sarantis Thanopulos è il nuovo Presidente della SPI (Società Psicoanalitica Italiana), eletto con 369 voti contro i 326 della sua concorrente Irene Ruggiero. Mi piace salutare la sua elezione e augurargli buon lavoro riproponendo l'intervista pubblicata all'interno del mio ultimo libro, edito da Moretti&Vitali, "Il filosofo e l'analista. Critica e diagnosi dell'umano. Da Severino a Galimberti". Il 30 dicembre, alle ore 19, converserò con lui, insieme a Francesco Bollorino, in "Le riunioni del mercoledì. Dialoghi tra filosofia e psicoanalisi".
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
L’analisi è un modo di prendere cura della sofferenza psichica del tutto particolare, rivoluzionario per il pensiero del novecento, ma avente radici molto antiche (nella tragedia greca). Non è la somministrazione di una cura, una tecnica che guarisce il dolore. Non agisce in senso antidolorifico, non si accorda con la diffusa domanda, uno dei segni della crisi della nostra civiltà, di vivere per non soffrire. Lavora nel senso dell’elaborazione delle cause principali del nostro dolore: il danno, potenziale o concreto, di qualcosa che è parte di noi, delle persone che amiamo e del nostro ambiente di vita, e la perdita, parziale o totale, di un oggetto di relazione significativo. Fa uso del dolore, piuttosto che subirlo o silenziarlo. In parte la sofferenza fa parte del piacere del vivere, della sua complessità che lo allontana dalla ripetitività e dall’assuefazione. È il “patire”, esperire, sperimentare la vita in profondità, ci consente di esplorare, conoscere la realtà nella sua imprevedibilità che la rende attraente e bella. L’eccesso di sofferenza ci informa, invece, che qualcosa di noi è rimasto inespresso, represso, intrappolato. Ascoltate il dolore in questo caso significa metterlo in relazione con ciò che è vivo dentro di noi, capace, nonostante tutto, di amare, gustare la vita. L’analista usa la significazione/elaborazione della sofferenza per comprendere cosa nell’analizzando è sano sul piano psicocorporeo, per re-spanderlo a spese di ciò che si sta ammalando. Sapendo che una componente di sofferenza (incertezza, paura, inquietudine, lutto) è necessaria per poter davvero sentirsi vivi. Per capire meglio a cosa serve l’analisi bisogna, inoltre, tener presente che ci sono due forme di dolore psichico “patologico”, cioè di sofferenza che deforma o inibisce pesantemente l’esperienza soggettiva. C’è un dolore vivo che nasce da esperienze traumatiche che mettono in pericolo l’integrità psichica del soggetto e un doloro sordo, grigio, spersonalizzante che nasce dall’inerzia con cui la psiche reagisce difendendosi dalla propria destabilizzazione. L’inerzia comprime la parte viva della materia psicocorporea e crea un vissuto insondabile di morte. Una parte della domanda di cura psichica nel mondo di oggi mira a far sparire questo senso di morte, senza interrogarsi sulle sue cause e senza cercare il loro superamento. Questo tipo di domanda è la principale fonte di alimentazione dell’ “industria” di produzione di mezzi e di pratiche eccitanti/calmanti. Il lavoro dell’analisi è quello di far uscire il soggetto dalla trappola dell’inerzia, ripristinando la dialettica tra dolore e desiderio di vivere che consente alla soggettività di emanciparsi dal condizionamento (diventato teoria falsa sulla realtà) del trauma subito.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Per motivi di inquietudine esistenziale, del mio interrogarmi sul senso della vita e della difficoltà di gestire le mie passioni (che creava in me un senso di insoddisfazione). Il mio esilio (ho lasciato la Grecia a diciannove anni, all’epoca dei colonnelli) aveva reso questa inquietudine più complicata. Al terzo anno di medicina a Napoli (dove tuttora vivo) mi colpì profondamente il film Family Life di Ken Loach. Già il mio interesse per la medicina era mescolato con la mia passione per l’architettura (rendere abitabile e vivibile la “Città” e il legame con la natura) e per la tragedia greca e la filosofia (la vita come opera dell’uomo degna di essere vissuta). La psichiatria, interpretata come emancipazione della sofferenza psichica dal registro dell’anormalità e dalle cure assistenziali, correttive e coercitive, mi sembrava combinare i miei interessi e la psicoanalisi con il suo dispositivo tragico/onirico di interpretazione del malessere e di trasformazione dell’esperienza, mi conquistò rapidamente. Decisi quindi, quando ne ebbi la possibilità, di fare l’analisi per avviarmi al mio percorso di formazione come analista, alla ricerca di una maggiore prossimità con i miei conflitti interiori, con le mie paure e con i miei lutti. L’inizio della mia analisi coincise con il fallimento del mio primo matrimonio, imprudentemente, frettolosamente realizzato per far fronte al sentimento di perdita derivato dalla mia scelta di lasciare per sempre la Grecia. Con il senno di poi, i motivi più profondi che mi hanno portato a intraprendere un’analisi e diventare analista, mi sono apparsi più chiari. Quando ero un bambino piccolo mia madre, a cui ero molto legato, si ammalò e per un periodo ho avuto la sensazione che potesse morire. Le cose si risolsero in modo positivo, ma ne fui segnato. Il prendere cura del dolore suo (era molto preoccupata e a tratti assente) e di quello mio, sta alla base del mio interesse per la cura psichica, mia e degli altri. La sua dolce possessività (somigliavo molto al suo amato padre, di cui porto il rarissimo nome), a cui non era facile opporsi, e il desiderio di prendere cura di lei, senza diventare il suo oggetto “terapeutico” di consolazione, mi hanno portato all’esilio: amare la mia madre patria senza assolutismi, che fanno dell’amore una trappola, con una apertura dello spirito che fa della migrazione il movimento più vitale della vita. In fondo l’analisi è un’esperienza di esilio, di migrazione.
Come scelse i suoi analisti?
Il primo mio analista è stato Ignacio Matte Blanco. Avevo fatto i colloqui di selezione alla Società Psicoanalitica Italiana con lui e mi aveva colpito per la sua semplicità e immediatezza. Era peraltro un uomo di profonda intelligenza. Aveva esattamente l’età di mio padre con cui avevo avuto in adolescenza un rapporto conflittuale. Eravamo entrambi migranti (lui era cileno): ci accomunava il senso di abitare il mondo con libertà, senza tradire le nostre origini, ma senza farne un marchio. La mia analisi con lui finì prematuramente (alla fine del quarto anno) per un suo serio problema di salute. La fine dell’analisi coincise con la morte di mia madre. Un doppio lutto difficile affrontato con una certa fatica. Scelsi un’altra figura paterna: Paolo Perrotti. Un analista di valore, ma come Matte Blanco, relativamente appartato dalla gestione degli “affari” della SPI. Era esigente e, al tempo stesso, generoso e accogliente. Come Matte Blanco aveva il senso dell’ironia. A pensarci bene ho scelto due analisti di indubbio rilievo, ma poco “istituzionali”. Volevo separare le vicissitudini della mia analisi personale dal contesto della mia formazione. In effetti durante gli anni della mia prima analisi raramente mi è capitato di pensare al mio futuro di analista e ho prolungato la seconda due anni oltre la mia associazione ufficiale alla S.P.I. Il lavoro con Paolo Perrotti mi ha riconciliato con mio padre morto proprio in quel periodo. Un’altra dolorosa coincidenza: moriva insieme a lui Antonio D’Errico, il mio amato professore di Psichiatria, amico e maestro, anch’egli analista. Questa volta ero più pronto per il lutto. I miei analisti li ho scelti all’inizio e durante le mie due analisi e continuo a sceglierli tuttora.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Un analista può essere ottimo per preparazione, intelligenza, creatività e dotato di talento per il suo lavoro, ma sarà comunque usato (esattamente come fa il bambino piccolo con la madre, secondo Winnicott), come analista “sufficientemente buono”. Analista e analizzando costruiscono un lavoro comune, ma è la creatività del secondo che alla fine conterà, la creatività del primo conta solo come strumento. Un buon analista è un essere umano capace di amare e di essere amato, di odiare e di essere odiato. In grado cioè di avere relazioni autentiche e responsabili a partire dalle proprie passioni. Disposto a essere usato dall’analizzando nel modo che meglio gli aggrada, senza sentirsi ferito nell’amore proprio, senza essere accondiscendente e senza diventare vendicativo. L’analizzando deve essere messo nella condizione di potere usare tutto quello che l’analista produce affettivamente e mentalmente in seduta destrutturandolo, senza preoccuparsi di distruggerlo o di farne un cattivo uso. Solo così può accedere alla possibilità di usarlo in modo costruttivo, secondo il suo modo di essere, la cosa più importante di tutte. Tutto sommato la professionalità e il sapere teorico e clinico non sono di grande aiuto per l’analista se egli non è sufficientemente vivo: capace di farsi coinvolgere sul piano affettivo e mentale, in grado di distinguere tra un’esperienza superficiale e una profonda, pronto a vivere le proprie emozioni, anche quando lo destabilizzano, e di gioirne.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Sono un fenomeno dispersivo. La formazione analitica deve essere seria e rigorosa.
Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?
Intanto è stato il primo. Il pianeta della psicoanalisi, oggi abitato dalle sue diverse declinazioni, l’ha scoperto lui. Non ha scoperto l’inconscio (filosofi e poeti ne avevano già intuito l’esistenza), ma, cosa ben più importante, ha individuato i luoghi in cui esso si manifesta, seppur in modo indiretto, nel preconscio (il pensiero suscettibile a diventare cosciente) deformandolo: i lapsus, gli atti mancati, i motti di spirito, le fantasie a occhi aperti e, soprattutto, i sogni. Ha stabilito in questo modo i nodi conflittuali (sede dell’attrito tra ritorno del rimosso e istanza rimovente) nelle vie di percorrenza tra inconscio e coscienza. Concependo il primo come modalità di rappresentazione della realtà che non rispetta il principio logico della non contraddizione (processo primario) e la seconda come modalità che lo rispetta (processo secondario). Ha introdotto il concetto epistemologico di “pulsione”, una spinta corporea che afferra, innerva lo psichico, istituendo la psicoanalisi come terzo dominio di conoscenza tra quello dello studio del corpo biologico e quello dei processi mentali. Ha scoperto il linguaggio simbolico naturale dei sogni. Ha rivoluzionato la nostra conoscenza della memoria, comprendendo l’importanza della componente ricostruttiva nei ricordi. Ha riconosciuto la sessualità infantile e ne ha fatto il centro dello sviluppo successivo dell’individuo. Siamo ancora nel solco aperto da Freud: delle sue scoperte, delle sue aporie, delle sue contraddizioni e delle sue incomprensioni.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Penso che l’anima sia indissociabile dal corpo. Quando l’anima è dissociata dal corpo è sedotta dalla mente. Lo schema mentale si sostituisce all’esperienza viva. Credo che la cosa davvero importante sia la capacità di sviluppare un gusto profondo del vivere, di sentire e di godere della complessità, imprevedibilità di ogni esperienza. È necessario distinguere tra due logiche dell’esistenza. La prima è la logica del desiderio: la ricerca di un piacere fondato su tensioni sensuali persistenti, mutevoli, insieme destabilizzanti e trasformative, che anche quando si sublimano, e si espandono nel vasto mondo delle relazioni sociali e culturali, restano sempre ancorate al corpo e ai sensi. La seconda obbedisce al principio omeostatico della liberazione dalle tensioni e trova il piacere nella scarica, si oppone alle trasformazioni. Le due logiche non sono inconciliabili, ma più si è nel campo della prima più ci si sente vivi, nel corpo e nell’anima, più si è nel campo della seconda, più la vita diventa dato biologico, ci si trova prigionieri della nuda, cruda vita (vivi sul piano corporeo, ma psichicamente morti).
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
In un certo senso l’analisi non termina mai. Mette in movimento la materia psicocorporea della soggettività, facendola uscire dall’inerzia e dalla stagnazione. Più è stato fecondo il processo analitico più questo movimento si mantiene vivo e duraturo. A un certo momento il suo dispiegarsi può fare a meno dell’analista. La decisione è congiunta.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Se per nevrosi intendiamo tutto ciò che nel campo della sofferenza psichica esclude una grave destrutturazione della personalità (schizofrenia, depressione), evitando di cadere nella logica puramente tassonomica della categoria “borderline” o stati “limite” (né psicosi, né nevrosi), direi che la forma più grave è la perversione del desiderio in bisogno, l’orizzonte melanconico dell’isteria. Il desiderio di non desiderare, l’anoressia del desiderio, peraltro la malattia per eccellenza della società odierna.
Curano di più le parole o i silenzi?
Le parole curano non solo perché le interpretazioni effettivamente dette mettono un punto fermo nella relazione tra l’analista e l’analizzando, ma anche perché permettono al secondo di capire la differenza e i limiti della comprensione del primo. Inoltre, le parole mettono in movimento ciò che dell’esperienza non è dicibile, il suo “non so che” fondato sulla sensazione e sul gesto. Il silenzio cura quando l’analizzando entra in relazione con la trasformazione che il suo modo di essere ha impresso nell’assetto mentale e affettivo dell’analista. L’eccesso di silenzio, tuttavia, può far percepire l’analista come oggetto onnipotente e/o minaccioso.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
I figli devono uccidere i genitori come figure normative e i genitori devono sopravvivere come figure autorevoli garanti del senso di responsabilità e della parità, sul piano del desiderio degli scambi. “Uccidere” i genitori non significa rottamarli. Disfarsi di loro ci porta ad abdicare alla funzione genitoriale. Ciò che vale per i genitori, vale anche per l’analista non solo sul piano transferale, ma anche sul piano della relazione reale.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Far crollare le resistenze non è auspicabile. Anche se Freud ha usato una metafora militare, egli, tuttavia, era consapevole che le resistenze (la cui complessità gli era assai chiara) andavano trattate con rispetto. Personalmente non amo il termine “resistenza”. Gli preferisco il termine “riserva”. In ognuno di noi ci sono riserve di varia natura, estensione e intensità, nei confronti delle relazioni con gli altri e della vita in generale. Un certo grado di “xenofobia”, che è un rifiuto del vivere, è inevitabile quando le vie degli scambi (erotici, affettivi, mentali, materiali) appaiono inaccessibili (a causa di conflitti interiori) o stagnano effettivamente. Credo che il modo migliore di trattare con rispetto le riserve sia il “tatto”, un termine usato da Ferenczi: sviluppare una sensibilità che consente di capire dove l’altro si può incontrare e dove, invece, egli potrebbe ritirarsi dalla relazione, ritenuta insostenibile; trovare la distanza giusta e il modo giusto di avvicinarlo. Il tatto non è empatia, nel senso generico con cui usano il termine molti analisti, perché è una qualità co-costruita con l’altro che presume un certo grado necessario di iniziale incomprensione. Il suo significato non si chiude nella tenerezza o nel garbo. Esso può convivere con il conflitto, a volte importante per “toccarsi”, conoscersi veramente. È fondamentale per l’analista poter riconoscere e rispettare l’idioma dell’altro che è indissociabile dalle sue resistenze, da suoi “pre-giudizi”. Se essi non sono tenuti in conto, diventano “pregiudizi” strenui, trasformano la tenuta delle difese in questione di vita o di morte.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
È difficile e anche inopportuno separarli. Tuttavia sono d’accordo con Bion che il controtransfert recepisce una comunicazione importante dell’analizzando, ma il “segnale” può essere “sporco”.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Un’analisi accurata del materiale onirico è necessaria, è un requisito irrinunciabile di una buona analisi, ma, al tempo stesso, deve restare insatura. Una buona interpretazione non è la decodificazione dei geroglifici egiziani. L’interpretazione deve rispettare l’equilibrio tra il sogno e il suo “ombelico”: la parte del sogno che non è interpretabile e dalla quale, nondimeno, viene la spinta alla sua realizzazione e significazione. L’interpretazione, inoltre, si raggiunge nel tempo, attraverso il collegamento tra sogni diversi anche a distanza di mesi o perfino di anni. È co-costruita dall’analista e dall’analizzando, anche se richiede una buona conoscenza del linguaggio onirico da parte del primo e un suo amore per il connettersi delle cose tra di loro. Si può più propriamente parlare dell’interpretazione dei sogni come strumento di espansione dello spazio del pensiero onirico di giorno, molto vicino all’esperienza dei sensi, in cui l’inconscio, pur restando inconoscibile e indicibile è, nondimeno, “presente”, in movimento. La migliore conferma del lavoro interpretativo è la produzione di sogni che “rispondono” alle significazioni precedentemente date, dialogano con loro e aprono prospettive nuove.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
L’aver faticato durante la mia analisi per costruire una certa intimità, prossimità con i miei desideri rimossi, mi ha reso più accessibile il rapporto con il rimosso degli altri. Ma lavorare con l’inconscio altrui significa mantenere sempre aperto il canale della comunicazione con il mio. Non è un lavoro facile, nulla di veramente significativo e di piacevole si raggiunge senza un certo grado di fatica e di dolore, ma è importante proteggersi dalla produzione di “acido lattico”, dalla fatica non creativa, stressante.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
Il costo di un lavoro analitico è elevato, ma non è così insostenibile se chi lo intraprende se la sente di affrontarlo. Perché la stragrande maggioranza degli analisti non ha onorari così esosi. Si può lavorare con una, due sedute settimanali, quando le condizioni economiche lo impongono. Sarà un lavoro più difficile, ma raramente le cose della nostra vita seguono vie ottimali. Non esistono analisi brevi. Come si potrebbe chiudere in termini brevi e predefiniti, non dico l’inconscio, ma più semplicemente, un percorso di auto-educazione “sentimentale”? Esiste, tuttavia, l’uso relativamente breve dell’analista da parte di alcune persone, che, credo, funzioni meglio delle “psicoterapie brevi”. Penso alle persone della “terza età” o a coloro che non vogliono ridiscutere il senso della loro esistenza, ma vorrebbero rendere più abitabile lo spazio della loro vita.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
Lo direi così: l’analisi è l’esperienza di libertà che nasce nello scambio paritario tra le differenze.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
I suoi fantasmi non risolti, l’interpretazione del suo lavoro come accudimento, l’eccesso di affidamento alla sua reverie (l’elaborazione onirica della sua relazione con l’analizzando), la difficoltà di sostare nell’incertezza e la conseguente tendenza ad aggrapparsi a precetti tecnici.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Si può pensare solo a partire dalla presenza/assenza di almeno un’altra persona. Del resto l’altro è co-costitutivo della nostra soggettività. Fortunatamente la relazione analitica è abitata da una moltitudine di persone, altrimenti ci sarebbe la noia o, peggio, una “follie a deux”. In analisi incontriamo i genitori e molto di più (l’insegnante amato dalla nonna adolescente, il primo amore del nonno), ma anche la prefigurazione delle persone del futuro. A parte ciò, l’altro (in origine la madre) non esiste veramente nella sua funzione differenziata e differenziante se non in presenza di un terzo (in origine il padre). E, a dire il vero, il terzo non esiste in assenza di un quarto (in origine l’amante potenziale del padre o della madre). La relazione analitica soggiace all’esogamia, quindi alla moltitudine articolata delle relazioni.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
La sfera della sessualità è al centro del mondo.
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
L’analisi è un modo di prendere cura della sofferenza psichica del tutto particolare, rivoluzionario per il pensiero del novecento, ma avente radici molto antiche (nella tragedia greca). Non è la somministrazione di una cura, una tecnica che guarisce il dolore. Non agisce in senso antidolorifico, non si accorda con la diffusa domanda, uno dei segni della crisi della nostra civiltà, di vivere per non soffrire. Lavora nel senso dell’elaborazione delle cause principali del nostro dolore: il danno, potenziale o concreto, di qualcosa che è parte di noi, delle persone che amiamo e del nostro ambiente di vita, e la perdita, parziale o totale, di un oggetto di relazione significativo. Fa uso del dolore, piuttosto che subirlo o silenziarlo. In parte la sofferenza fa parte del piacere del vivere, della sua complessità che lo allontana dalla ripetitività e dall’assuefazione. È il “patire”, esperire, sperimentare la vita in profondità, ci consente di esplorare, conoscere la realtà nella sua imprevedibilità che la rende attraente e bella. L’eccesso di sofferenza ci informa, invece, che qualcosa di noi è rimasto inespresso, represso, intrappolato. Ascoltate il dolore in questo caso significa metterlo in relazione con ciò che è vivo dentro di noi, capace, nonostante tutto, di amare, gustare la vita. L’analista usa la significazione/elaborazione della sofferenza per comprendere cosa nell’analizzando è sano sul piano psicocorporeo, per re-spanderlo a spese di ciò che si sta ammalando. Sapendo che una componente di sofferenza (incertezza, paura, inquietudine, lutto) è necessaria per poter davvero sentirsi vivi. Per capire meglio a cosa serve l’analisi bisogna, inoltre, tener presente che ci sono due forme di dolore psichico “patologico”, cioè di sofferenza che deforma o inibisce pesantemente l’esperienza soggettiva. C’è un dolore vivo che nasce da esperienze traumatiche che mettono in pericolo l’integrità psichica del soggetto e un doloro sordo, grigio, spersonalizzante che nasce dall’inerzia con cui la psiche reagisce difendendosi dalla propria destabilizzazione. L’inerzia comprime la parte viva della materia psicocorporea e crea un vissuto insondabile di morte. Una parte della domanda di cura psichica nel mondo di oggi mira a far sparire questo senso di morte, senza interrogarsi sulle sue cause e senza cercare il loro superamento. Questo tipo di domanda è la principale fonte di alimentazione dell’ “industria” di produzione di mezzi e di pratiche eccitanti/calmanti. Il lavoro dell’analisi è quello di far uscire il soggetto dalla trappola dell’inerzia, ripristinando la dialettica tra dolore e desiderio di vivere che consente alla soggettività di emanciparsi dal condizionamento (diventato teoria falsa sulla realtà) del trauma subito.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Per motivi di inquietudine esistenziale, del mio interrogarmi sul senso della vita e della difficoltà di gestire le mie passioni (che creava in me un senso di insoddisfazione). Il mio esilio (ho lasciato la Grecia a diciannove anni, all’epoca dei colonnelli) aveva reso questa inquietudine più complicata. Al terzo anno di medicina a Napoli (dove tuttora vivo) mi colpì profondamente il film Family Life di Ken Loach. Già il mio interesse per la medicina era mescolato con la mia passione per l’architettura (rendere abitabile e vivibile la “Città” e il legame con la natura) e per la tragedia greca e la filosofia (la vita come opera dell’uomo degna di essere vissuta). La psichiatria, interpretata come emancipazione della sofferenza psichica dal registro dell’anormalità e dalle cure assistenziali, correttive e coercitive, mi sembrava combinare i miei interessi e la psicoanalisi con il suo dispositivo tragico/onirico di interpretazione del malessere e di trasformazione dell’esperienza, mi conquistò rapidamente. Decisi quindi, quando ne ebbi la possibilità, di fare l’analisi per avviarmi al mio percorso di formazione come analista, alla ricerca di una maggiore prossimità con i miei conflitti interiori, con le mie paure e con i miei lutti. L’inizio della mia analisi coincise con il fallimento del mio primo matrimonio, imprudentemente, frettolosamente realizzato per far fronte al sentimento di perdita derivato dalla mia scelta di lasciare per sempre la Grecia. Con il senno di poi, i motivi più profondi che mi hanno portato a intraprendere un’analisi e diventare analista, mi sono apparsi più chiari. Quando ero un bambino piccolo mia madre, a cui ero molto legato, si ammalò e per un periodo ho avuto la sensazione che potesse morire. Le cose si risolsero in modo positivo, ma ne fui segnato. Il prendere cura del dolore suo (era molto preoccupata e a tratti assente) e di quello mio, sta alla base del mio interesse per la cura psichica, mia e degli altri. La sua dolce possessività (somigliavo molto al suo amato padre, di cui porto il rarissimo nome), a cui non era facile opporsi, e il desiderio di prendere cura di lei, senza diventare il suo oggetto “terapeutico” di consolazione, mi hanno portato all’esilio: amare la mia madre patria senza assolutismi, che fanno dell’amore una trappola, con una apertura dello spirito che fa della migrazione il movimento più vitale della vita. In fondo l’analisi è un’esperienza di esilio, di migrazione.
Come scelse i suoi analisti?
Il primo mio analista è stato Ignacio Matte Blanco. Avevo fatto i colloqui di selezione alla Società Psicoanalitica Italiana con lui e mi aveva colpito per la sua semplicità e immediatezza. Era peraltro un uomo di profonda intelligenza. Aveva esattamente l’età di mio padre con cui avevo avuto in adolescenza un rapporto conflittuale. Eravamo entrambi migranti (lui era cileno): ci accomunava il senso di abitare il mondo con libertà, senza tradire le nostre origini, ma senza farne un marchio. La mia analisi con lui finì prematuramente (alla fine del quarto anno) per un suo serio problema di salute. La fine dell’analisi coincise con la morte di mia madre. Un doppio lutto difficile affrontato con una certa fatica. Scelsi un’altra figura paterna: Paolo Perrotti. Un analista di valore, ma come Matte Blanco, relativamente appartato dalla gestione degli “affari” della SPI. Era esigente e, al tempo stesso, generoso e accogliente. Come Matte Blanco aveva il senso dell’ironia. A pensarci bene ho scelto due analisti di indubbio rilievo, ma poco “istituzionali”. Volevo separare le vicissitudini della mia analisi personale dal contesto della mia formazione. In effetti durante gli anni della mia prima analisi raramente mi è capitato di pensare al mio futuro di analista e ho prolungato la seconda due anni oltre la mia associazione ufficiale alla S.P.I. Il lavoro con Paolo Perrotti mi ha riconciliato con mio padre morto proprio in quel periodo. Un’altra dolorosa coincidenza: moriva insieme a lui Antonio D’Errico, il mio amato professore di Psichiatria, amico e maestro, anch’egli analista. Questa volta ero più pronto per il lutto. I miei analisti li ho scelti all’inizio e durante le mie due analisi e continuo a sceglierli tuttora.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Un analista può essere ottimo per preparazione, intelligenza, creatività e dotato di talento per il suo lavoro, ma sarà comunque usato (esattamente come fa il bambino piccolo con la madre, secondo Winnicott), come analista “sufficientemente buono”. Analista e analizzando costruiscono un lavoro comune, ma è la creatività del secondo che alla fine conterà, la creatività del primo conta solo come strumento. Un buon analista è un essere umano capace di amare e di essere amato, di odiare e di essere odiato. In grado cioè di avere relazioni autentiche e responsabili a partire dalle proprie passioni. Disposto a essere usato dall’analizzando nel modo che meglio gli aggrada, senza sentirsi ferito nell’amore proprio, senza essere accondiscendente e senza diventare vendicativo. L’analizzando deve essere messo nella condizione di potere usare tutto quello che l’analista produce affettivamente e mentalmente in seduta destrutturandolo, senza preoccuparsi di distruggerlo o di farne un cattivo uso. Solo così può accedere alla possibilità di usarlo in modo costruttivo, secondo il suo modo di essere, la cosa più importante di tutte. Tutto sommato la professionalità e il sapere teorico e clinico non sono di grande aiuto per l’analista se egli non è sufficientemente vivo: capace di farsi coinvolgere sul piano affettivo e mentale, in grado di distinguere tra un’esperienza superficiale e una profonda, pronto a vivere le proprie emozioni, anche quando lo destabilizzano, e di gioirne.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Sono un fenomeno dispersivo. La formazione analitica deve essere seria e rigorosa.
Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?
Intanto è stato il primo. Il pianeta della psicoanalisi, oggi abitato dalle sue diverse declinazioni, l’ha scoperto lui. Non ha scoperto l’inconscio (filosofi e poeti ne avevano già intuito l’esistenza), ma, cosa ben più importante, ha individuato i luoghi in cui esso si manifesta, seppur in modo indiretto, nel preconscio (il pensiero suscettibile a diventare cosciente) deformandolo: i lapsus, gli atti mancati, i motti di spirito, le fantasie a occhi aperti e, soprattutto, i sogni. Ha stabilito in questo modo i nodi conflittuali (sede dell’attrito tra ritorno del rimosso e istanza rimovente) nelle vie di percorrenza tra inconscio e coscienza. Concependo il primo come modalità di rappresentazione della realtà che non rispetta il principio logico della non contraddizione (processo primario) e la seconda come modalità che lo rispetta (processo secondario). Ha introdotto il concetto epistemologico di “pulsione”, una spinta corporea che afferra, innerva lo psichico, istituendo la psicoanalisi come terzo dominio di conoscenza tra quello dello studio del corpo biologico e quello dei processi mentali. Ha scoperto il linguaggio simbolico naturale dei sogni. Ha rivoluzionato la nostra conoscenza della memoria, comprendendo l’importanza della componente ricostruttiva nei ricordi. Ha riconosciuto la sessualità infantile e ne ha fatto il centro dello sviluppo successivo dell’individuo. Siamo ancora nel solco aperto da Freud: delle sue scoperte, delle sue aporie, delle sue contraddizioni e delle sue incomprensioni.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Penso che l’anima sia indissociabile dal corpo. Quando l’anima è dissociata dal corpo è sedotta dalla mente. Lo schema mentale si sostituisce all’esperienza viva. Credo che la cosa davvero importante sia la capacità di sviluppare un gusto profondo del vivere, di sentire e di godere della complessità, imprevedibilità di ogni esperienza. È necessario distinguere tra due logiche dell’esistenza. La prima è la logica del desiderio: la ricerca di un piacere fondato su tensioni sensuali persistenti, mutevoli, insieme destabilizzanti e trasformative, che anche quando si sublimano, e si espandono nel vasto mondo delle relazioni sociali e culturali, restano sempre ancorate al corpo e ai sensi. La seconda obbedisce al principio omeostatico della liberazione dalle tensioni e trova il piacere nella scarica, si oppone alle trasformazioni. Le due logiche non sono inconciliabili, ma più si è nel campo della prima più ci si sente vivi, nel corpo e nell’anima, più si è nel campo della seconda, più la vita diventa dato biologico, ci si trova prigionieri della nuda, cruda vita (vivi sul piano corporeo, ma psichicamente morti).
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
In un certo senso l’analisi non termina mai. Mette in movimento la materia psicocorporea della soggettività, facendola uscire dall’inerzia e dalla stagnazione. Più è stato fecondo il processo analitico più questo movimento si mantiene vivo e duraturo. A un certo momento il suo dispiegarsi può fare a meno dell’analista. La decisione è congiunta.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Se per nevrosi intendiamo tutto ciò che nel campo della sofferenza psichica esclude una grave destrutturazione della personalità (schizofrenia, depressione), evitando di cadere nella logica puramente tassonomica della categoria “borderline” o stati “limite” (né psicosi, né nevrosi), direi che la forma più grave è la perversione del desiderio in bisogno, l’orizzonte melanconico dell’isteria. Il desiderio di non desiderare, l’anoressia del desiderio, peraltro la malattia per eccellenza della società odierna.
Curano di più le parole o i silenzi?
Le parole curano non solo perché le interpretazioni effettivamente dette mettono un punto fermo nella relazione tra l’analista e l’analizzando, ma anche perché permettono al secondo di capire la differenza e i limiti della comprensione del primo. Inoltre, le parole mettono in movimento ciò che dell’esperienza non è dicibile, il suo “non so che” fondato sulla sensazione e sul gesto. Il silenzio cura quando l’analizzando entra in relazione con la trasformazione che il suo modo di essere ha impresso nell’assetto mentale e affettivo dell’analista. L’eccesso di silenzio, tuttavia, può far percepire l’analista come oggetto onnipotente e/o minaccioso.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
I figli devono uccidere i genitori come figure normative e i genitori devono sopravvivere come figure autorevoli garanti del senso di responsabilità e della parità, sul piano del desiderio degli scambi. “Uccidere” i genitori non significa rottamarli. Disfarsi di loro ci porta ad abdicare alla funzione genitoriale. Ciò che vale per i genitori, vale anche per l’analista non solo sul piano transferale, ma anche sul piano della relazione reale.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Far crollare le resistenze non è auspicabile. Anche se Freud ha usato una metafora militare, egli, tuttavia, era consapevole che le resistenze (la cui complessità gli era assai chiara) andavano trattate con rispetto. Personalmente non amo il termine “resistenza”. Gli preferisco il termine “riserva”. In ognuno di noi ci sono riserve di varia natura, estensione e intensità, nei confronti delle relazioni con gli altri e della vita in generale. Un certo grado di “xenofobia”, che è un rifiuto del vivere, è inevitabile quando le vie degli scambi (erotici, affettivi, mentali, materiali) appaiono inaccessibili (a causa di conflitti interiori) o stagnano effettivamente. Credo che il modo migliore di trattare con rispetto le riserve sia il “tatto”, un termine usato da Ferenczi: sviluppare una sensibilità che consente di capire dove l’altro si può incontrare e dove, invece, egli potrebbe ritirarsi dalla relazione, ritenuta insostenibile; trovare la distanza giusta e il modo giusto di avvicinarlo. Il tatto non è empatia, nel senso generico con cui usano il termine molti analisti, perché è una qualità co-costruita con l’altro che presume un certo grado necessario di iniziale incomprensione. Il suo significato non si chiude nella tenerezza o nel garbo. Esso può convivere con il conflitto, a volte importante per “toccarsi”, conoscersi veramente. È fondamentale per l’analista poter riconoscere e rispettare l’idioma dell’altro che è indissociabile dalle sue resistenze, da suoi “pre-giudizi”. Se essi non sono tenuti in conto, diventano “pregiudizi” strenui, trasformano la tenuta delle difese in questione di vita o di morte.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
È difficile e anche inopportuno separarli. Tuttavia sono d’accordo con Bion che il controtransfert recepisce una comunicazione importante dell’analizzando, ma il “segnale” può essere “sporco”.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Un’analisi accurata del materiale onirico è necessaria, è un requisito irrinunciabile di una buona analisi, ma, al tempo stesso, deve restare insatura. Una buona interpretazione non è la decodificazione dei geroglifici egiziani. L’interpretazione deve rispettare l’equilibrio tra il sogno e il suo “ombelico”: la parte del sogno che non è interpretabile e dalla quale, nondimeno, viene la spinta alla sua realizzazione e significazione. L’interpretazione, inoltre, si raggiunge nel tempo, attraverso il collegamento tra sogni diversi anche a distanza di mesi o perfino di anni. È co-costruita dall’analista e dall’analizzando, anche se richiede una buona conoscenza del linguaggio onirico da parte del primo e un suo amore per il connettersi delle cose tra di loro. Si può più propriamente parlare dell’interpretazione dei sogni come strumento di espansione dello spazio del pensiero onirico di giorno, molto vicino all’esperienza dei sensi, in cui l’inconscio, pur restando inconoscibile e indicibile è, nondimeno, “presente”, in movimento. La migliore conferma del lavoro interpretativo è la produzione di sogni che “rispondono” alle significazioni precedentemente date, dialogano con loro e aprono prospettive nuove.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
L’aver faticato durante la mia analisi per costruire una certa intimità, prossimità con i miei desideri rimossi, mi ha reso più accessibile il rapporto con il rimosso degli altri. Ma lavorare con l’inconscio altrui significa mantenere sempre aperto il canale della comunicazione con il mio. Non è un lavoro facile, nulla di veramente significativo e di piacevole si raggiunge senza un certo grado di fatica e di dolore, ma è importante proteggersi dalla produzione di “acido lattico”, dalla fatica non creativa, stressante.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
Il costo di un lavoro analitico è elevato, ma non è così insostenibile se chi lo intraprende se la sente di affrontarlo. Perché la stragrande maggioranza degli analisti non ha onorari così esosi. Si può lavorare con una, due sedute settimanali, quando le condizioni economiche lo impongono. Sarà un lavoro più difficile, ma raramente le cose della nostra vita seguono vie ottimali. Non esistono analisi brevi. Come si potrebbe chiudere in termini brevi e predefiniti, non dico l’inconscio, ma più semplicemente, un percorso di auto-educazione “sentimentale”? Esiste, tuttavia, l’uso relativamente breve dell’analista da parte di alcune persone, che, credo, funzioni meglio delle “psicoterapie brevi”. Penso alle persone della “terza età” o a coloro che non vogliono ridiscutere il senso della loro esistenza, ma vorrebbero rendere più abitabile lo spazio della loro vita.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
Lo direi così: l’analisi è l’esperienza di libertà che nasce nello scambio paritario tra le differenze.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
I suoi fantasmi non risolti, l’interpretazione del suo lavoro come accudimento, l’eccesso di affidamento alla sua reverie (l’elaborazione onirica della sua relazione con l’analizzando), la difficoltà di sostare nell’incertezza e la conseguente tendenza ad aggrapparsi a precetti tecnici.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Si può pensare solo a partire dalla presenza/assenza di almeno un’altra persona. Del resto l’altro è co-costitutivo della nostra soggettività. Fortunatamente la relazione analitica è abitata da una moltitudine di persone, altrimenti ci sarebbe la noia o, peggio, una “follie a deux”. In analisi incontriamo i genitori e molto di più (l’insegnante amato dalla nonna adolescente, il primo amore del nonno), ma anche la prefigurazione delle persone del futuro. A parte ciò, l’altro (in origine la madre) non esiste veramente nella sua funzione differenziata e differenziante se non in presenza di un terzo (in origine il padre). E, a dire il vero, il terzo non esiste in assenza di un quarto (in origine l’amante potenziale del padre o della madre). La relazione analitica soggiace all’esogamia, quindi alla moltitudine articolata delle relazioni.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
La sfera della sessualità è al centro del mondo.
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