“La malinconia si tira dietro la disperazione ché loro sono amiche, e tutte e due insieme mettono le mani a imbuto sulla bocca e chiamano a piena voce le malattie.”
(Mauro Corona)
In fila attraverso i tornanti a distanza di sicurezza. Si entra uno per volta, mascherina e occhiali muniti. Misurazione della temperatura, disinfezione delle mani. Moduli di autocertificazione. Disinfezione delle mani (di nuovo). Dopodichè possiamo entrare.
Facciamo le scale perchè in tempi di coronavirus è meglio non bazzicare ascensori.
Arrivate al piano, prendiamo un percorso dedicato. Poi la vestizione completa per poter accedere al reparto.
L’autonomia con la visiera rasenta il secondo. Dopodichè la visione diventa appannata, stento a concentrarmi sulle espressioni del viso della persona che ho di fronte.
Sembrava di andare sulla luna, invece eravamo andate a trovare un paziente ricoverato per una polmonite atipica.
Il ragazzo con cui andavamo a parlare non ci aspettava ed era un po’ innervosito.
Quando siamo entrate in stanza ci ha guardato di sfuggita, sbuffando.
Vedere entrare altri due esseri amorfi in stanza, in effetti, potrebbe non essere così piacevole.
Non ci aveva riconosciute.
Lo saluto. Poi un guizzo degli occhi, un sorriso (più unico che raro conoscendo la persona) e si è messo a sedere invitandoci a restare.
Era stufo di stare lì dentro, da solo, con una preoccupazione come quella del coronavirus, che però non riteneva di avere, ma restava presente la paura di avere qualcosa di incurabile.
L’inquietudine di essere ricoverati in tempi di covid è condivisibile.
Siamo state lì con lui per discuterne un po', sembrava più sereno.
È incredibile come le persone che abbiamo in cura virino da una concezione ideale di se stessi come invincibili e indistruttibili, ad un’altra di incredibile vulnerabilità e alla paura terrifica non tanto della morte in sé, quanto della sofferenza e della malattia ad essa correlate.
Come se nella prima fase della loro esistenza venissero permeati di un nichilismo invadente che li porta, anziché raccogliere pezzi di sé che vanno sgretolandosi, a continuare a distruggersi incuranti delle possibili conseguenze, usando la sostanza come collante che tiene uniti i frammenti di un'anima tormentata.
Non c'è la percezione dei pericoli a cui li espone la vita di strada, né organici né sociali.
L'invincibilità data dalla sostanza, il caldo abbraccio e la finta sicurezza che dona resta imbattuto a lungo, nonostante una parte di sé abbia quella consapevolezza che internamente le molecole producano una lenta e progressiva distruzione.
D'altronde, come ha detto un mio paziente "le sostanze sono fatte di cristalli ed è normale che ti taglino dentro".
Fino a che non arriva il momento del decadimento.
Il tuo corpo, dopo anni di "maltrattamenti", decide di mollare e di ammalarsi.
Ad un certo punto il corpo consunto chiede pietà, e non c'è modo di fargli accettare la possibilità di continuare ad assumere sostanze senza che queste ti riportino a fare un nuovo viaggio in pronto soccorso.
La compromissione fisica che ne consegue ha strascichi lunghi e spesso irreversibili, non di rado esita in un ricovero dai tempi biblici e in terapie importanti e difficili da gestire senza un supporto.
Ti trovi in strada, con un pugno di mosche in mano, se va bene non hai condanne o le hai già pagate, e non c'è che attendere il piano freddo per avere un riparo dall'inverno imminente.
Il dolore che provi è immenso, insopportabile. Il nichilismo tanto predicato ha portato i suoi frutti e ora il tuo corpo ti ha chiesto il conto.
E ti ritrovi con l'anima imprigionata in un vortice in cui la sostanza, questa volta, non può essere usata per lenire il tormento.
E cosa resta allora, se non l'aggancio alla relazione di cura?
E nel dolore e nella sofferenza, il covid si insinua con la sua virulenza impegnando le anime delle persone del terrore della perdita di quel piccolo equilibrio tanto agognato.
Distanza sociale, difficoltà nel trovare un posto letto, malattia fisica, pericolo di morire, queste alcune delle problematiche che attanagliano queste persone.
Ci si difende mentalmente come si può.
C’è chi nega la possibilità di poterne essere affetto.
“Non posso avere il coronavirus dottoressa. Ho fatto il “lockdown” per strada. Non avevo dove andare. Se non l’ho preso a marzo, non lo prendo più.”
Nei suoi occhi leggo un desiderio più che una convinzione.
C’è chi ne ha paura, ma sfida la sorte pur di trovare la sostanza.
C’è chi è ancora nella dinamica dell’invincibilità e allora se ne frega ma è spiazzato dagli effetti sociali che il virus ha portato.
C’è chi parla di complotto per “ripulire” la società, chi di manovre dittatoriali che strumentalizzano la medicina per assoggettare economia e popolazione al proprio volere, chi si dispera e piange perché ha i polmoni già provati da abuso di cocaina e tbc pregressi, chi un polmone non lo ha più perché tempo fa è stato accoltellato in una rissa… qualcuno teme per la salute dei familiari, qualcun altro di non potergli stare vicino.
Una cosa è certa: l’inverno è lungo, e deve ancora arrivare…
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