Immersi come siamo nel tramonto (annunciato) dell’Occidente, di cui la pandemia da Covid rischia di essere l’ultimo tratto di strada prima di inoltrarsi verso l’abisso, c’è una sola domanda possibile: è lecito pensare un nuovo inizio? Me (e ve) la pongo alla fine dell’intensa lettura dell’ultimo libro di Umberto Galimberti: “Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente”, edito da Feltrinelli. È lecito pensare un nuovo inizio? È la sola domanda possibile, poiché l’autore nel titolo non mette alcun punto interrogativo, ma quel nuovo inizio è tutto da pensare, tutto da preparare, tutto da fare. Per Galimberti, il miglior Galimberti, se lo conosco un po’, è soprattutto da fare. Abbiamo pensato e sbagliato già troppo, sembra urlarmi a un orecchio, mentre consulto la sterminata bibliografia ragionata, come si conviene a un libro vero.
Quando ho chiesto a Gianni Vattimo se tra Nietzsche, Marx e Heidegger, di tutti resta un po’ o di uno più di ogni altro, il filosofo torinese mi ha risposto: «Di Heidegger resta di più. Anche la sua critica della società tecnologica non può non essere congeniale a un marxista».
Galimberti non torna su Heidegger perché non l’ha mai abbandonato. Lo ri-propone, lo ri-presenta, lo ri-studia, lo ri-pensa. Come si fa, del resto, ad abbandonare il più grande filosofo del secolo scorso, il più amato (da menti colte e raffinate), il più odiato (da menti perennemente abitate dal virus ideologico), il più contestato (da menti che gli rimproverano anche ciò che andrebbe compreso meglio, prima di avventurarsi in giudizi superficiali e definitivi). Non è possibile, sui grandi, usare la parola fine. I grandi non finiscono mai. Lasciano libri aperti. Li ha lasciati Severino, che con il filosofo tedesco ha saputo “pensare”; li ha lasciati Heidegger, che sul filosofo italiano, maestro di Galimberti, aveva avuto occasione di esprimere parole lusinghiere.
È molto bello e significativo che il libro sia dedicato alla memoria di Severino, un libro che lo ricorda per lucidità di scrittura e capacità d’analisi, che lo cita in pagine pregnanti e decisive, un libro che parte narrando la vita di Heidegger e l’atmosfera culturale del suo tempo. Non è possibile comprendere il “fenomeno” Heidegger senza accostare e indagare gli anni della formazione, l’incontro con Husserl, il periodo di Marburgo e i rapporti con Cassirer, Hartmann, Bultmann e Natorp, gli scambi di giudizi pungenti con Jaspers. Se Heidegger criticò spietatamente “Psicologia delle visioni del mondo”, Jaspers ricambiò con “Essere e tempo”, giudicandolo un prodotto inconcludente. Eppure, l’uno sapeva della grandezza dell’altro.
Galimberti passa in rassegna le opere di Heidegger, da “Essere e tempo” a “La metafisica”, da “Contributi alla filosofia” a “I Quaderni neri”, soffermandosi sulle accuse di nazismo e antisemitismo rivolte al filosofo tedesco. Le pagine cruciali sono nelle parte terza, dove il pensiero di Heidegger viene attraversato per temi e motivi, dove si stagliano le pagine sull’epoca del dominio tecnico, dell’essere come fondo a disposizione della tecnica, mentre nella parte quarta si susseguono le interpretazioni esistenzialiste, ontologiche ed ermeneutiche.
Il nuovo inizio, lo si intenderà pienamente alla fine del libro, passa per il superamento del pensiero calcolante, per l’affidarsi alle parole dei poeti, per la scoperta di un pensiero alternativo, che non produca cose per valere ma per ciò che sono. Scrive Galimberti: «Affinché le cose possano essere riproposte per quello che sono e non per quello che valgono, affinché possano essere sottratte al loro essere oggetto di rappresentazione o risultato di produzione, è necessario un pensiero capace di uscire dall’ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola e di arrischiare nell’aperto dis-chiuso del pensiero che pensa. Al pensiero che pensa spetta infatti quel dire che non è mero calcolare e numerare, e che, dicendo, pone la cosa in relazioni che, oltrepassando il recinto delimitato del calcolo, chiamano in gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra. Di questo dire sono capaci i poeti, i quali non cantano per questa o quella cosa, ma per nulla. Questo nulla non è il niente, ma ciò che dal pensiero che calcola è taciuto».
Tutto passa attraverso il linguaggio, ma quale linguaggio? Il linguaggio che ci ospita o il linguaggio semplice strumento di comunicazione? Chiude Galimberti: «Se oggi le cose si presentano come meri prodotti o come semplici rappresentazioni, ciò non dipende dalla loro cosità, ma dal linguaggio, che, limitando l’ambito dei significati a quello previsto dal pensiero rappresentativo, non arrischia altri rapporti che non siano quelli che si lasciano esprimere in termini di produzione e rappresentazione. In questo senso il linguaggio parla, e con il nome de-termina il modo di presentarsi della cosa e quindi ogni suo possibile senso».
Dunque, è giunto il tempo di “arrischiare il linguaggio”, di “dire il taciuto”. Ma per questo «è necessario un pensiero che non si affidi ai suoi calcoli, ma alle parole del linguaggio, un pensiero, scrive Heidegger, che “prenda dimora presso il linguaggio: nel suo parlare, cioè, e non nel nostro. Solo così possiamo raggiungere quel dominio entro cui può riuscire, come può anche non riuscire, che il linguaggio ci riveli la sua essenza. È al linguaggio che va lasciata la parola”. Per questo i poeti e i filosofi dialogano tra loro».
Per questo, aggiungo io, gli psicoanalisti non possono restare fuori da questo dialogo, dal tentativo di arrischiare il linguaggio, di dire il taciuto, dopo averlo tanto ascoltato. Se l’uomo li riguarda, se l’essere-nel-mondo li riguarda, se il modo in cui guardiamo il mondo li riguarda, anche loro sono convocati nella lettura e nella meditazione di questo libro, anche loro ne sono parte, anche loro debbono preparare il nuovo inizio. Per questo poeti, filosofi e psicoanalisti debbono dialogare tra loro. Galimberti, che mai ha smesso di essere filosofo e analista, che mai ha smesso di leggere Hölderlin, Rilke e Trakl, lo sa.
Tutto vero, interessante e
Tutto vero, interessante e attuale. Si vuol sostenere che l’occidente è al tramonto e necessita un nuovo inizio. Un inizio che tenga conto o meglio parta, abbia origine da un linguaggio che ora non abbiamo e che solo i poeti, i filosofi e “gli psicoanalisti” nella loro interazione e dal loro dialogo possono generare. Mi viene qualche dubbio.
E’ proprio questa la realtà, è proprio questo lo sbocco che il mondo attuale in declino, così viene interpretato dai più, può auspicarsi e sperare che si realizzi? E magari, come predilige Galimberti, e idealizzato a volte da Heidegger, ritornare a quell’Essere-Natura greca presocratica che supera la visione giudaico-cristiana della Speranza e rimetta al centro dell’esistenza l’autentica “tragedia” della vita nelle sue dolcezze e nelle sue sofferenze. L’essere come “evento” Heideggeriano sembra lasciar intravvedere anche altre prospettive. L’evoluzione della meccanica quantistica, lo sviluppo delle ricerche sulla gravità, le nuove visioni della realtà dei buchi neri, lo studio di nuove particelle attraverso i moderni acceleratori…ridefiniscono le concezioni di base del nostro ragionare e mettono in discussione nei loro fondamenti concetti come spazio-tempo su cui tante elaborazioni sono state fatte. Ci sarà molto da ripensare ma non solo con il linguaggio dei poeti, dei filosofi e degli psicoanalisti.