Con un cappello pieno di ricordi
Ha la faccia di uno che ha capito
E anche un principio di tristezza in fondo all'anima
Nasconde sotto il letto barattoli di birra disperata
E a volte ritiene di essere un eroe
F. De Gregori
Tutto ha una fine, nella vita. Anche se, a volte, la fine potrebbe, paradossalmente, coincidere con un altro inizio. E’ un po’ come intravedere l’alba in un tramonto.
Collina di Pizzofalcone, Napoli, giovedi 17 dicembre 2020, ore 17, fuori è buio.
Nella penombra di uno studiolo, elegante e sobrio, ricavato nel ventre rialzato di un antico palazzo: “Dottoressa, vorrei dirle una cosa..” “Mi dica…” “Sa cosa sto pensando, ora, proprio ora che siamo giunti alla fine?” “Prego…mi dica…” “Che, forse, ora che ci stiamo dicendo addio, mi troverei, assurdamente, nelle condizioni migliori per poter ricominciare quest’analisi…” Silenzio.
Un sorriso accennato, un respiro che passa tra labbra che si dischiudono assumendo sonorità, come proprio Lei fa, quando approva qualcosa: ”In effetti…non è privo di senso quello che lei dice..” “Sa, dottoressa, solo ora mi sento più libero. Libero di seguire il flusso della mia coscienza, come il vento che “ubi vult spirat”, senza finire in pezzi preformati di discorso..” “E già…” “E già…”.
E intanto siamo al traguardo.
Sulla soglia dell’ ultimo incontro.
Abbiamo sfidato il distanziamento sanitario in piena pandemia per vederci, un'altra volta ancora, l’ultima volta, in carne ed ossa. Una parte cruciale della mia vita, a cavallo tra i due secoli, mi scorre, adesso, nei minuti che rimangono, davanti, in un modo che non riesco neanche a dire, ma che sento che entrambi, io e Lei, stiamo guardando, come un film di cui si dànno, sullo schermo di una sorta di coscienza visiva comune, i fotogrammi. Fuori piove, è una rigida giornata d’inverno, e io sono molto lontano da qui, mi trovo all’aperto, nell’immenso cortile di Fort de Nogent, nel freddo buio dell’alba nordica, inquadrato in blocco con uomini sconosciuti, a segnare rumorosamente il passo battendo gli anfibi sul selciato.
Che ci faccio li?
Io, che da bambino non scendevo a giocare a pallone con gli scugnizzi, perché dovevo studiare, e perché la strada era sporca e perché potevo prendere freddo. E perché io, figlio di montanari molisani, fatto non di carne, di ossa e di sangue, di desideri, di affetti e di paure come tutti, ma di legno di quercia, di acqua di roccia, di cielo pulito dal vento, io ero “diverso” da quei “ragazzi di vita”, sfaccendati e disperati, che sarebbero andati incontro, più o meno tutti, alla disfatta della vita.
Sono sempre io, quel bambino riservato, che mi proietto fuori dalla carlinga di un G222, a duecento chilometri orari, a quattromila metri d’altezza? Con la paura che finalmente si rompe nell’abbraccio del nulla, e scopro che l’aria ha una portanza, che il vuoto è fatto di strati, e che, nel silenzio supremo, tocco terra leggero, libellula dalle grandi ali di seta mimetica.
E perché mi dispiace tanto, adesso, di dire addio a questa discreta Signora, a cui mi sono legato e che pure sento, al di là della distanza, commossa quanto me?
E’ la fine della mia lunga analisi a cavallo tra i due secoli.
Io dico la mia analisi, perché le unisco.
In realtà ne sono state due, una nell’ultima decade del Novecento, ed una nel primo ventennio del Duemila.
Tra di loro ci sono stati alcuni anni di intervallo, nei quali ho provato a declinarmi nell’azione. Fino a smarrirmi, a sentire il bisogno di tornare “sul luogo del delitto”, per ricominciare tutto daccapo. Questa volta con un’analista donna. E solo “da paziente”. Da paziente e basta, senza raccontarmi più la storia della necessità dell’analisi per la “formazione” psicodinamica.
Lei ha gli anni di mia madre, se fosse viva. Non lo sapevo neppure quando l’ho scelta. L’ho scelta perché mi sono ricordato che buona parte della psichiatria femminile andava da lei. Ed io avevo necessità di confrontarmi, fino in fondo, con una donna, contando sul fatto che solo una donna poteva evidenziare i miei limiti. Con spietatezza chirurgica. E poi di Lei mi parlava bene Bruno Callieri, poiché si era specializzata con lui a Roma. Con l’analista uomo, invece, la mia prima analisi non era andata bene. La mia anima si era srotolata, in quegli anni, su un nastro lungo duecentomila chilometri.
Lui stava a Roma, sulla collina Fleming, io venivo dalla periferia di Napoli.
Ho consumato le poltrone dei treni e dei taxi, e poi, appena l’ho avuta in regalo da mio padre, la mia Alfa Romeo “Imola”, rosso Ferrari con lo spoiler posteriore. Allora i limiti di velocità non erano così fiscali. E tutto il mio stipendio di specializzando finiva in mano a Lui.
Ma poi non ce l’avevo fatta più. Avevo mollato tutto.
La prima cosa che venne meno fu il desiderio di diventare analista. La seconda, dopo poco, la spinta a continuare l’analisi. La motivazione a fare l’analista saltò quando non mi fecero accedere ai “secondi colloqui”, nonostante avessi fatto gli anni necessari di analisi didattica.
Mi chiamò un giorno da via Panama una segretaria, dicendomi che la mia domanda per accedere ai secondi colloqui e, quindi, al training, non poteva essere accolta, perché non ero già in possesso dell’abilitazione alla psicoterapia(!). Che, tra l’altro, avrei conseguito l’anno successivo “in automatico” specializzandomi in psichiatria. Contro il muro di quella burocrazia stolida esplose la mia rabbia.
Certo, oggi mi sembra una sciocchezza, allora mi sembro’ uno smacco insormontabile. Visti anche i sacrifici immani che stavo facendo.
Erano anni confusi.
Tra riconoscimenti, non riconoscimenti di Scuole. Orgogli di caste. Compromessi e sottomissioni. L’arte preziosa della psicoterapia si andava lentamente “istituzionalizzando”. E io finii triturato in questo passaggio di forme. Ma ripeto, si trattava solo di differire di un anno. La mia rabbia trovò solo un alibi.
Oggi non sono pentito. Non avrei mai fatto l’analista.
Fatto sta che troncai anche l’analisi personale, dopo averla portata avanti per anni a quattro sedute a settimana. Approfittai delle vacanze di Natale per non tornare più da lui, era il mese di dicembre del 1997. Mi ero appena specializzato in psichiatria. Ero disoccupato. Allora non c’era la carenza di psichiatri che c’è oggi. E, durante la mia specializzazione precedente in neurologia, avevo perso tempo prezioso e occasioni di lavoro.
Per un anno lavorai privatamente e feci alcuni esami alla facoltà di Filosofia. Salvo poi abbandonare anche quella.
E gli anni che seguirono furono tutti all’insegna del disprezzo per il mio ex analista. Il quale, nel frattempo, gli sia lieve la terra, morì.
Sulla “Rivista di Psicoanalisi” il suo obituary, scritto da un suo analizzato diventato poi AFT, si concludeva con un’espressione che trovai assai strana: “Era un brav’uomo”.
Io non lo avevo trovato un “brav’uomo”.
Era arroccato nel suo studio immenso all’ultimo piano, completamente insonorizzato dal sughero e foderato di juta di sacco, come un quadro di Burri al Guggenheim. C’era un disegno astratto davanti alla dormeuse di tessuto verde acquamarina, in alcune sedute cominciava ad oscillare davanti ai miei occhi come un pendolo. Mi apriva con il campanello elettrico, e mi dava la mano solo in uscita.
Spesso, soprattutto nella quarta seduta settimanale, quella del sabato mattina alle otto, sfogliava “La Repubblica”, girando con circospezione la pagina (so che era “La Repubblica” perché ero in edicola quando lui si fermava a comprarla, senza salutarmi, visibilmente infastidito della mia presenza).
Lui sedeva alla scrivania, io ero sottoposto, alla sua destra. Talvolta si tagliava le unghie. Doveva essere molto annoiato del mio dire. O della sua posizione di analista. In quattro anni Lui avrà parlato per cinque minuti in tutto. Io per seimila ore. Il suo silenzio era ostinato. Liscio come le bianche scogliere di Dover. Evidentemente pensava che l’analisi si facesse da sola. Eppure avevo avuto colloqui con lui, prima di cominciare l’analisi, ogni sei mesi per due anni.
Ma non mi lamentavo, perfettamente calato nella sindrome obbediente del candidato in analisi didattica.
Mi tornò in mente, alla fine, uno dei tre che mi aveva fatto uno dei “primi colloqui”, il più giovane, che mi aprì la porta a Campo dè Fiori, indossando una polo a maniche corte, tra pile di libri sul pavimento di un corridoio stretto, il quale mi disse, alla fine del nostro colloquio : “Ma lei è sicuro che vuole fare l’analisi con il prof. X?” Non diedi peso alcuno a quella domanda.
Quando, anni dopo, consumai il “parricidio”, quella domanda mi fu più chiara. Molti nodi sono poi venuti al pettine. Ma solo nel tempo lungo che è seguito. A nulla ho potuto ed ho voluto sfuggire. La mia analisi a Napoli, invece, sulla vetusta collina di Pizzofalcone, si è snodata parallela ai lavori di scavo della metro a Montedidio.
A Roma ero solo, la sera, avvolto nella nebbia, camminando in cerca di un posto dove passare la notte, prima che Bruno mi aprisse le porte di casa sua. A Napoli, non mi sono mai sentito solo. Ho camminato tanto a piedi, sono venuto con la moto, ho preso acqua. Tanta acqua. Quando ero inzuppato Lei mi faceva mettere la giubba gocciolante e il berretto sul suo termosifone. Ma sempre tenendo, tra di noi, un’ inviolabile distanza. Le ho pagato perfino la seduta il giorno in cui sono andato al funerale di mia madre. Siamo diventati intimi, ma non abbiamo mai deposto il “Lei”. Quando ci vedemmo all’inizio, per il “contratto” mi disse: “Caschi il mondo, dottore, noi non cambieremo mai né gli orari e né i giorni.”
E il mondo è venuto giù, in tutti questi anni, non una volta sola e non solo il mio, e pure non abbiamo mai cambiato nulla. Né orari, né giorni. Io sapevo che Lei era li.
Non mi ha mai spostato una seduta, mai una febbre, mai un convegno, mai nulla. Una sfinge, vigile, viva e incrollabile che aspettava, ogni volta, Edipo al suo passaggio obbligato. E’ stata anche, di volta in volta, per me, Circe, Nausicaa, Calipso, incarnando le diverse femminilità che hanno crocifisso Odisseo al muro del tempo. Una rammendatrice, che ha ricostruito la “continuità” della mia mente, strappata qua e là come un lenzuolo che ti lascia sempre scoperto. Lei pure, del resto, sapeva che io, in qualche modo, sarei venuto.
Puntuale. Da qualunque parte del mondo. Senza mai ricorrere, prima del COVID-19, alla modalità in remoto.
Ho cambiato lavoro, sedi, ho fatto convegni all’estero, ho perso ed ho preso treni, navi ed aerei, ho vissuto notti tremende in Pronto Soccorso, è morta mia madre, poi sono morti i miei maestri, Bruno, Arnaldo, Lorenzo, sono andate vie le donne con cui ho diviso un pezzo di strada o un solo giorno: nei giorni e negli orari convenuti io ero li.
Anche quando non ce la facevo ad esserci, anche per soli cinque minuti. Per stendermi su questa culla di acciaio e per rialzarmi, con addosso la polvere della strada o l’acqua delle pozzanghere. Sapevo che a quelle ore e in quei giorni, questa chaise longue era la mia, “cascasse il mondo”.
Oggi io e Lei ci diciamo addio.
E’ proprio come se mia madre finalmente mi lasciasse andare, ma è come se anche io, finalmente, potessi lasciare andare mia madre, una volta per tutte. Negli ultimi mesi le cose le pensavamo insieme, compresa quella di lasciarci. I sogni sembrava che li avessimo sognati insieme.
La mia vita sembrava che Lei l’avesse vissuta. Sapeva dettagli di me che mi sorprendevano, li ripescava dopo anni. Sentivo lo spazio, dentro di Lei, per il bazar della mia vita. Sentivo che dal caos profondo, Lei ripescava un fotografia, una lettera, un libro, un sorriso, una frase, una lacrima, il frammento di un sogno, quando servivano.
E tutto, improvvisamente, si ristrutturava. Sentivo che quando associavo io sui mie sogni era Lei che pensava in realtà, ed io che parlavo. Oppure pensavamo le cose in sequenza, uno dopo l’altra, come se camminassimo affiancati sul sentiero di un bosco, cercando la radura. Tra di noi si è creata una terza entità.
Uno spazio vitale, fertile e doloroso, che prendeva, certo, corpo nel setting, ma che continuava anche dopo. Mi sorprendevo, in quella posizione strana, di pescare significati in maniera così fluida e associata, quando da solo mi ero rigirato il sogno tra le mani senza cavarci fuori niente.
Era come se in quella posizione, Lei sulla sua poltrona con poggiapiedi come un’antica regina, e io a pochi centimetri dal pavimento, circonflesso e abbandonato sulla chaise Le Corb, fossimo un apparato umano di metabolizzazione di quell’assurdo che è la vita umana.
Poi venne la tragedia del Covid-19.
Da marzo del 2019 siamo andati avanti a telefono. Dapprima non volevo. Mi faceva senso, mi faceva strano, mi mancava tutto “l’aroma del mondo” prima e del mondo dopo la seduta. Mi mancava percolare attraverso la folla, negli intestini della “città porosa”. Poi mi sono arreso: il dolore, la solitudine e la tensione erano troppo grandi. E così mi stendevo sul divano di casa, nel silenzio dei giorni e degli orari convenuti, mettevo gli auricolari e via: il contatto tra le nostre voci si rivelava incredibile.
Ho sentito vibrare la sua paura umana, non di morire, ma di abdicare ad una vita senza lo stile proprio con cui l’aveva sempre vissuta. L’orrore di finire chiusa in un sacco e in un forno andandosene così, senza un addio. E Lei ha sentito tutta la mia paura umana di dover continuare ad affrontare pazienti “corpo a corpo” tutti i giorni e tutte le notti senza adeguate protezioni, con il timore di rimanere contagiato ad ogni incontro.
La voce, che cosa può veicolare una voce umana? Che cosa può dire una voce solo con il suono, al di là dell’articolazione del linguaggio?Siamo andati avanti così, insieme, io porgendole il braccio e in realtà appoggiandomi a Lei. Io forte e attivo e lei fragile e chiusa nel suo bozzolo, in apparenza; in realtà ero io che crollavo e mi nutrivo del suo coraggio. Il mondo fuori stava finendo.
Noi eravamo a telefono. A fare le pulci ai sogni. A rattoppare la trama della vita.
Ci siamo rivisti in presenza, da maggio a luglio. E poi, ancora, da settembre, nuovamente in “remoto”. Ed ora, concordi, siamo presenti qui, con i corpi, bendati naso e bocca dalle mascherine, per l’ultimo incontro.
La nostra ultima vez.
Sto chiudendo i conti, in questi minuti, anche con quel giovane specializzando in psichiatria che io ero, che mi sorride dicendomi addio, cresciuto all’ombra dell’allora direttore Tonino D’Errico, psicoanalista e grande uomo di cultura del Sud.
D’Errico aveva messo su, al terzo piano della Clinica Psichiatrica, un Servizio di Psicoterapia psicodinamica alla portata dei pazienti, con un ticket risibile, dove si poteva avere un seduta a settimana vis a vis con noi specializzandi in analisi supervisionati da candidati al training.
E’ li che ho incontrato uomini eccezionali, come il prof. Giuliani, Sarantis Thanopulos, Fulvio Marone, Francesco Napolitano e diversi giovani brillanti candidati in training.
E’ li che ho fatto i primi, sconvolgenti gruppi della mia vita, con Guelfo Margherita, che sembrava parlare da un punto archimedeo fuori dal mondo. Io che venivo dalla neurologia di Buscaino in giacca, cravatta e martelletto mi ritrovai scalzo, sul parquet della stanza dei gruppi, senza camice e senza destino. Da quell’atmosfera da “flauto magico”, tra sciamane siberiane, psicopatologia, chakra e dopamina, alcuni dei miei colleghi di specializzazione sono diventati analisti. Io, invece, ho deviato.
Morto D’Errico e chiusa, per me e per altri, la porta della Clinica universitaria con l’arrivo dei farmacologi “e basta”, è iniziata la mia deriva: la Germania, la Nervenklinik Spandau a Berlino, i gruppi con Gunther Ammon. Il viatico con Bruno Callieri e Via Nizza 59 a Roma, e poi, dopo il mio black out, al ritorno da Aubagne, con le spalle larghe il doppio e i capelli rasati a zero, ho ricominciato dai tossicomani di strada, certo di ripartire all’indomani, con i quali invece ho trascorso quindici anni della mia vita. Quante volte ho rischiato la vita per salvarne una delle loro, che si è poi perduta senza risarcimento all’indomani. Morti di overdose rianimati nelle discariche di immondizia e nelle fabbriche dismesse, gruppi di lacrime, metadone e sangue che colava dalle braccia. Scontri fisici, pupille dilatate e pugni chiusi ad un millimetro dall’anima. Spettri umani svuotati di carne dalla peste dell’HIV.
Dov’era finito quel ragazzino timido e sensibile, che guardava dai vetri giocare a pallone gli altri nel fango della traversa, che filava via come una gazzella fuori la scuola inseguito dai più grandi che volevano picchiarlo? Dov’era quello studente di medicina romantico che era tuffato nei manicomi cercando la follia di Hoelderlin e di van Gogh?
Dov’era lo studioso che aveva letto un milione di libri, di fronte a quelle esistenze rapite dall’estasi della morte? Quando mi presentai al Suo studio, in questo studiolo che ora sto per lasciare per sempre, ero un naufrago, che aveva creduto di trovare una patria per strada, tra gli ultimi, e si era riscoperto, ancora una volta, irriducibilmente diverso. Ma che non sapeva ancora chi era. Non ero più l’illuso che aveva bussato una quindicina di anni prima alla porta dell’ imbalsamato analista romano dallo studio trendy. Non ero più tronfio della mia visione del mondo, convinto di aver capito tutto, “semplicemente” mettendo insieme neurologia, psichiatria e psicoanalisi. Le dissi, semplicemente, che ero un uomo disperato. Avevo droppato un’analisi “didattica”, non sapevo più dove volevo andare. Soffrivo di un dolore senza nome. Mi ritornava una frase di Laing : “Per comprendere la schizofrenia, bisogna comprendere la disperazione”. Io ero disperato. Non so cosa avessi negli occhi. Ero fuori dai circuiti della psichiatria nota, accademica, salottiera o democratica. Uno che viene dalla periferia sterminata e opaca.
Un cimitero di sogni infranti.
Avevo 43 anni mi sentivo finito. Non avevo realizzato niente di ciò che avevo in mente a 20 anni. Ma, soprattutto, mai avrei pensato di rimettermi down, nelle mani di una Signora d’altri tempi. Quel giorno era il 14 febbraio del 2007. Sono passati tredici anni, dieci mesi e tre giorni.
Ed oggi noi due ci diciamo addio.
Da qui, da questo Monte Echia di tufo che si scolora e spolvera, dove Palepolis è stata fondata dai Cumani quasi tremila anni fa, sopra la sublimi rovine della villa dell’architetto suicida Lamont Young; da quassù ho abbracciato mille volte abbacinato dalla sua bellezza tutta intera Neapolis, città volgare e nobilissima, dove mia madre, che da bambina non aveva mai visto il mare, volle a tutti i costi farmi nascere.
Da quassù ho visto la sirena Pathenope morente, adagiata sulla riva del golfo, rifiutata da Odisseo, al confine tra la terra e il cielo, con i seni perfetti, sodi e morbidi, che formano lo “sterminator Vesevo”. E questi palazzi che bordano la stretta via, antichissimi ed eterni, decadenti e sontuosi, che hanno i portali enormi, le colonne e le pance vuote, dalle quali uscivano le carrozze, con le ruote grandi di legno sui sanpietrini di lava, spesso la sera li ho "visti" animati da nobildonne con la veletta e la cipria e di popolane straccione che arrostivano castagne.
Non mi fermerò più, ogni volta, sotto il giardino pensile dei Serra di Cassano, davanti al portone chiuso da quel tragico 99 del 1700, dove è incisa l’ultima frase del giovane Gennaro sul patibolo, davanti ai lazzari adunati e festanti: “ho sempre desiderato il lor meglio ed essi giubilano per la mia morte”. Quanta parte di questo viaggio è stata fatta a piedi, annusando, entrando, bevendo caffè al Gambrinus. Camminando a vuoto, dopo una notte di follia, a recuperare la realtà tra la folla di via Toledo, come un flaneur della belle epoque. Spigolando tra le bancarelle di libri di Port’Alba, tra l’odore delle pizze fritte e le mani tese degli homeless. Da fenomenologo, sono convinto che nel percorso strutturale di qualunque analisi, come è accaduto nella mia, finiscano potentemente impastati pezzi del mondo-della-vita, che il diaframma della coscienza ingloba, in quella depersonalizzazione crepuscolare (epoche’) che precede e che segue la seduta. Ogni seduta. Per uno psichiatra della mia generazione, allora, associare l’analisi personale alla specializzazione in psichiatria era ancora un elemento di merito. Ineriva alla serietà e alla sublimità di una specializzazione che non si concepiva come solo medica. Si riteneva, allora, di non poter fare veramente lo psichiatra se non si fosse passati per il lettino. Si riteneva che non si potesse passare la vita nel fuoco dei deliri e delle allucinazioni, attraversare la selva dei suicidi, incontrare gli psicopatici assassini, gelarsi nello sguardo dei melanconici, polverizzarsi nella festa dei maniaci, senza che le crepe della propria anima si allargassero pericolosamente. Si riteneva che, come Dante ha attraversato l’inferno con Virgilio, dovesse essere necessario mettere il proprio inconscio nelle mani di qualcuno.
Oggi non lo so.
Non lo so se per praticare un congelamento farmacologico con quattro principi attivi occorre veramente tutto questo. Non so se quello che quotidianamente faccio nel posto pubblico che mi è toccato in sorte lo farei peggio, se non avessi consumato, in serie, una dormeuse ed una chaise longue. Non so neanche se questo lavoro con me stesso serve allo Stato Italiano, che mi paga perchè i pazienti acuti, che arrivano di notte e di giorno, accesi come torce, io li spenga in pochi giorni, estinguendo la loro lava con la schiuma chimica, per poi collocarli in una struttura per un pò di mesi. O per sempre. Oppure rimandarli sul territorio, sperando che non tornino troppo presto, messi peggio di prima. Sembriamo, a volte, io e i miei colleghi, gli operai di una fonderia o di uno scasso, dove arrivano le carcasse malmesse delle auto incidentate e roventi, e noi ne facciamo cubi compatti, da collocare altrove. In una alienante catena di montaggio.
Dov’è Franco Basaglia? Dov’è la fenomenologia? Dov’è la psicoanalisi? Vedo miei colleghi che non hanno fatto l’analisi a volte più efficienti, rapidi e sicuri di me. Io rimango spesso perplesso. Così come sono rimasto perplesso di fronte ai concorsi per diventare direttore di struttura complessa, tanto perplesso che me li sono fatti tutti passare davanti, senza presentarmi. Sono rimasto perplesso di fronte alla scalata all’apicalità, alla quale ho rinunciato e rispetto alle Società scientifiche di Psichiatria, a nessuna delle quali mi onoro di appartenere. Sono rimasto un semplice “medico dei matti”, un portier de nuit nell’ultimo hotel de la folie, come tanti operatori anonimi a cui mi sento vicino, di cui mi sento fratello. Mi sono mosso da un capo all’altro di questa immensa periferia metropolitana di un milione e trecentomila assenze, spostato dalle correnti, e dalla mia irriducibilità.
Ho girato in molte realtà psichiatriche italiane, anglofone, europee, sudamericane, africane senza mai trovare una dimensione che uscisse fuori dalla routine burocratico-assistenziale, dove l’incontro con l’esperienza vissuta del paziente fosse veramente centrale.
Mi chiedo se può una Salute mentale che non valorizza la trasformazione dei suoi operatori essere efficace sui pazienti?
Hanno ancora i nostri pazienti una mente, un’anima, un mondo interno, un’esperienza? Io non ne sento più parlare da nessuno. Solo budget di cura e PTRI stereotipati. Che clinica dell’umano è più questa?
In nessuna linea di indirizzo c’è uno straccio di riga sulla “cura” basata sull’incontro tra persone, sulla necessità che gli operatori curino se stessi, innanzitutto, per curare gli altri. E così sono rimasto qui. Ad occuparmi sempre dei peggiori, tossici, criminali e pazzi sfasciati, in un mondo fatto di sottosuoli, di bassifondi dell’anima, di manicomi, di carceri, di case a soqquadro accumulate di rifiuti con l’odore della morte, di wasteland post industriali degradate.
Ho cercato ciò che restava della vita, nella nientificazione della morte. Sono stato guardato con ammirazione e sospetto, e tenuto fuori da tutte le catene di comando.
E’ chiaro che adesso, in quest’ultima seduta, io mi domandi anche tutto percorso questo a cosa è servito.
La risposta è : a nulla. Anzi, è stato molto controproduttivo, nella misura in cui ha rafforzato il mio bisogno di autenticità. Di critica, di coraggio e di libertà. Ma questa, proprio questa è una gioia. Se vogliamo, una gioia del tutto borghese.
Ma chi, se non la borghesia, può nutrire un pensiero rivoluzionario? Non erano borghesi, forse, Freud, Basaglia, Ernesto Guevara, Pinel e Binswanger?
Non erano borghesi i ragazzi del 1799 che hanno tenuto per 144 giorni su Napoli la bandiera della Repubblica, finendo tutti impiccati? Aver speso la propria vita in qualcosa che ha una sua bellezza, sottratta al consumo dell’utilizzabilità, qualcosa di prezioso ma che non fa fa curriculum, non appartiene forse ad una sorta di aristocrazia dello spirito? Mi sento per questo libero. Leggero. Non mi racconterò, almeno, come fanno i migliori, che ho voluto cambiare il “sistema” dall’interno, scalando il potere. E in realtà diventandone spesso una pedina.
Abbraccio il mio fallimento. Il mio naufragio.
Mi stanno dando gioia i “ragazzi” che vengono a discutere con me sui casi clinici, gli stessi specializzandi a cui non mi è stata data la possibilità di trasmettere quello che so di psicopatologia in sede accademica. Sono grato ad Athos, Porthos ed Aramis, i compagni moschettieri con cui abbiamo messo su la grande scommessa della Scuola sulle rive dell’Arno, un dispositivo didattico dove è ancora possibile innervare di pensiero la clinica e la cura.
Mi verrebbe da dire che sono partito da una certa idea di me e sono arrivato a toccare l’altro, in carne ossa, ritrovando in lui un me stesso molto diverso. Ho perso molto lungo la strada, del troppo che mi opprimeva. Non mi sento più schiacciato dal mondo, che tuttavia accetto nelle sue determinazioni. L’altro può essere un paziente, ma anche un collega, o mio padre. O la parte di me più dolorosa O una donna. La donna. “Lei”.
Ho sempre avuto la fortuna della compagnia di donne attraenti, intelligenti, sensibili. E pure con loro mi sentivo sempre solo. A loro, oggi, di questo chiedo perdono, soprattutto per non averle capite. Per non averle amate come meritavano.
Oggi che sono solo, dentro di me ho finalmente fatto spazio. E aspetto di incontrarla.
Ora sono le 17,45. il tempo è finito.
Ho pianto tanto e con la mascherina mi è mancata l’aria.
Veramente come un bimbo che affanna a respirare di suo, fuori dal canale del parto. Perdono e chiedo scusa anche al mio primo analista. E lo ringrazio per avermi fatto vivere il valore del silenzio. Sono consapevole che si stanno congedando, ora, in questa stanzetta al piano rialzato, non solo una donna ed un uomo di generazioni diverse, non solo due psichiatri, che tra di loro hanno ultimato uno degli ultimi grandi cerimoniali laici elaborati dalla cultura occidentale, ma Edipo e la Sfinge, Ettore ed Andromaca, Odisseo e Penelope, Elena e Paride, Orfeo ed Euridice. Io e Lei.
Abbiamo portato avanti una delle idee più alte concepite nella storia umana: quella che due esseri umani possano curarsi semplicemente incontrandosi, senza droghe, senza farmaci, senza toccarsi, senza nulla in mezzo.
“Bene”, dice Lei, “Ci siamo. Il nostro tempo è finito.”
Mi alzo, mi volto verso di Lei, Lei si avvicina a me, i nostri occhi si incontrano, i suoi sono lucidi, scuri e intensi, e Lei che mi porge la mano per prima, rompendo la regola del “noli me tangere”. Io gliela stringo, poi mi inchino nell’atto di sfiorargliela con le labbra.
I nostri occhi si tengono ancora un istante quando mi sollevo.
Getto un ultimo sguardo alla poltrona, alla libreria, all’aria antica e silenziosa dello studiolo, di cui so a memoria tutte le stampe al muro, i drappeggi della tenda e la disposizione dello scarso mobilio.
Mi volgo alla porta, lento, dopo aver raccolto da terra lo zaino, esco, me la richiudo dietro, scendo le scalette di pietra lavica, apro il portoncino di legno verde, per passare nel quale mi debbo mettere di fianco, e sbuco nell’aria buia di fuori, con alle spalle la roccia tufacea del monte Echia e in alto, in cima alla via, Castel Sant’Elmo illuminato. Non sento il freddo, sono turbato, quasi sconvolto.
Le lacrime mi scendono da sole, in mezzo alla gente, tra le fioche luci di questo Natale assai mesto, ma nessuno ci fa caso. Il Cielo è quello del Solstizio.
Solo adesso il mio essere uomo e il mio fare lo psichiatra si stanno finalmente incontrando, in quella “patria dell’amore”, dove ci sono, finalmente, anche gli altri.
Forse tutto questo dolore è servito, anche solo a questo.
A sentirmi umano, semplicemente umano, umano tra gli umani, umano bisognoso e desideroso degli altri umani, nella straordinaria e meravigliosa corrente della vita.
Almeno a questo.
E questo, forse, è tanto.
O, forse, in fondo, questo è proprio tutto.
Caro il Mio Gilberto. Sì, in
Caro il Mio Gilberto. Sì, in fondo, questo è proprio tutto
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