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La camera di Pavese e il mestiere di scrivere

19 Dic 20

A cura di Davide D'Alessandro

«Si era tolto le scarpe, teneva un braccio piegato sotto la testa e un piede che penzolava fino a toccare il pavimento. Venti bustine vuote di sonnifero, chiari indizi di volontà suicida, furono trovate sulla mensola del lavabo insieme ad alcune cialde. Sul davanzale della finestra si volatizzarono gli apparenti resti di una lettera incenerita».
Dove collocare il suicidio di Cesare Pavese a settant’anni dal tragico gesto. «Non parole. Un gesto», scrive in “Il mestiere di vivere”. Quante bustine di sonnifero ingerirebbe oggi Pavese? Tante volte, arrivando alla stazione Porta Nuova di Torino, ho cercato di rispondere all’angosciante domanda e di immaginare la stanza 43, oggi 346, dell’Hotel Roma, nella quale lo scrittore decise di farla finita. Giorni fa ho smesso di immaginare e ho chiesto di vederla. Sono entrato in punta di piedi, quasi temendo di disturbare, senza alcuna intenzione di fare pettegolezzi. Quasi tutto, tranne il bagno, è rimasto com’era. Ancora funzionante, ecco il telefono nero, a muro, accanto al letto. Fu usato per le ultime chiamate agli amici più cari. Senza risposte. Erano tutti fuori città. Sul comodino è come se vedessi ancora la copia dei “Dialoghi con Leucò”, dove scrisse: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Per un attimo vorrei sedermi sulla poltrona rossa ma non oso. La finestra apre su Piazza Carlo Felice, un vociare di studenti giunge dalla strada.



Quella notte, tra il 26 e 27 agosto del 1950, Pavese si fermò a venti, come racconta la cronaca di Lorenzo Mondo. Venti micidiali bustine e furono più che sufficienti. Ma oggi, oggi che la vita non è più vita, oggi che la perdita di senso sembra aver annichilito le coscienze, oggi che un paese ci vorrebbe, «non fosse che per il gusto di andarsene via», oggi che in libreria non trovo più romanzi come “La luna e i falò”, romanzo favoloso e irripetibile, come può essere favolosa e irripetibile la scrittura lieve e profonda di uno scrittore immenso, unico, il più grande del nostro Novecento, quante bustine ingerirebbe? Quante? La domanda riaffiora assillante, ossessiva, come un tormento o un vizio assurdo.
Prima di tornare in albergo, forse solo per ritardare il gesto, Pavese si recò all’Unità, che si stampava in corso Valdocco, all’angolo di via Garibaldi, nel palazzo della Gazzetta del Popolo. Lo racconta Paolo Spriano in “Le passioni di un decennio (1946-1956)”: «Era molto pallido, smagrito, ma la sua visita aveva l’aspetto abituale di un saluto. Mi cercò e si trattenne al giornale per un paio d’ore, dopo la mezzanotte. Il mio rapporto con lui era quello che un giovane compagno, un ammiratore, un ragazzo dei suoi paesi, poteva avere verso chi era già una forte personalità, culturale e politica insieme».
Il mestiere di vivere gli divenne dapprima faticoso, poi insopportabile. Quando qualcuno si uccide, inevitabilmente si va in cerca delle cause che hanno scatenato il gesto. Si parlò del dolore per essere stato abbandonato da Constance, la giovane americana con le efelidi rosse, ma Pavese, il 25 marzo, scrisse: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità; miseria, infermità, nulla». Si parlò di totale esaurimento, di voglia di autodistruzione, perché Pavese, il 27 maggio, scrisse: «Adesso a modo mio sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa e mi sono impegnato in una responsabilità politica che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio». Si parlò di ragioni ideologiche perché Pavese, il 14 luglio, quando era già scoppiata la guerra in Corea, scrisse: «Ci siamo. Tutto crolla… Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire».
Perché, allora, compì quel gesto? Un comunista non si uccide, si dicevano Spriano e i suoi compagni. Forse, quel partito comunista e il modo di far politica di quel partito comunista non entusiasmavano Pavese? Forse, appunto. Spriano riferisce che qualche giornale dello schieramento avverso accennò a una crisi politico-ideologica, ma senza molta convinzione. Davide Lajolo, suo biografo, insistette sulla forte depressione accumulata. Italo Calvino (che secondo Luca Doninelli, pur esprimendo una letteratura enormemente più bella di quella di Pavese, non riesce tuttavia altrettanto grande) suggerì che lo scrittore si uccise perché i suoi amici imparassero a vivere. In una lettera, infatti, datata Torino 15 settembre 1950, l’autore di “Le città invisibili” precisò: «… Io credo che il suicidio di Pavese, il modo con cui lui c’è arrivato non possa essere affatto visto come un male infettivo; non è un gesto che chiunque possa permettersi (per lui era uno dei motivi dominanti della vita); la sua disperazione non era di vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quella interezza di vita che desiderava e che finì – ma non poteva giustificarlo che lui solo – per cercare nella morte… È la storia della lotta di un uomo cui vivere era difficilissimo, per inserirsi nella vita o per vivere abbastanza e dire abbastanza per poter morire».
Niente crisi politiche, dunque, e dramma sentimentale inteso al limite come ultima goccia di un recipiente già colmo. Ha scritto Natalia Ginzburg: «Pavese era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito da quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare: sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava».
Così lo ricorda Franco Ferrarotti: «Non ho mai smesso di pensare a Cesare. C’erano vent’anni di differenza. Era un uomo molto schivo, complesso, che amava depistare, prendersi gioco, lui contadino langarolo, degli urbanizzati. Non lo hanno compreso, né prima né dopo. Era attirato e spaventato dalle donne, ma non si è ucciso per una donna. Era un credente mitico, ossessionato dalla colpa, un pre-religioso con il senso del mistero e di ciò che era antico e legato alla tradizione. In fondo, mi diceva, non facciamo altro che scrivere per raccontarci a noi stessi, per cercare di venire in chiaro. Il mito ci fa vivere il racconto dei racconti ma non possiamo comprenderlo. Nell’impossibilità di conciliare mito e ragione c’è la fine di Pavese, la sua morte. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Stai attento che arriva! È questo il monito. “Paesi tuoi”, “Dialoghi con Leucò” e “La luna e i falò” sono i suoi capolavori, insieme a “Lavorare stanca”, la grande poesia epico-narrativa».
Netto, lucido, appare il divario tra il suo modo di intendere la vita e i rapporti con la realtà che si trovò di fronte. Ne derivò una brutale sofferenza per l’incapacità di comunicare con gli altri. E non si può dire che Pavese non avesse compiuto sforzi per realizzare una comunicazione almeno accettabile, ma più lui tentava di avvicinarsi più la realtà si allontanava. Quasi per dispetto, per derisione. E al dispetto e alla derisione si può anche rispondere con il suicidio. Quando qualcuno decide di chiudere la propria vita (o la propria morte), giovane o anziano che sia, è bene rifugiarsi nel silenzio, in quell’assenza della parola dov’è possibile trovare non la risposta (non ci sono risposte), ma l’attesa. L’attesa di una nuova domanda. Di vita.
 

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