di Chiara Litardi e Francesco Gottardo
Imparare è un’esperienza, tutto il resto è solo informazione.
Albert Einstein
Alla base di questa rubrica e vi è un ampio orientamento operativo sotteso ai servizi per le dipendenze noto sotto il nome di Riduzione del Danno (RdD). Tale impianto teorico, benché stia ricevendo un’attenzione sempre maggiore in ambito di tutela della sanità pubblica, risulta ancora troppo spesso misconosciuto, incompreso o frainteso a vario titolo. Questo scritto mira a illustrarne le potenzialità.
Per cominciare il viaggio all’interno del tessuto della RdD, addentrandoci gradualmente nella trama di cui è composto, è necessario fare riferimento in primis ad una dimensione descrittiva in grado di illustrarne e riassumerne la complessità in poche righe. A tal fine risulta utile interpellare chi di RdD si occupa da tempo, come l’EMCDDA (European Monitoring Centre for Drugs And Drugs Addiction) e l’HRI (Harm Reduction International). Secondo entrambi la RdD può essere definita come un insieme di politiche, programmi e interventi mirati a ridurre le conseguenze negative del consumo di droghe legali e illegali, sul piano della salute, quello sociale e quello economico, per i singoli, le comunità e la società. Risulta evidente a questo punto come la trama della nostra nicchia operativa si intrecci alla fitta e variegata trama riguardante la complessità dell’esistenza, composta da elementi inevitabilmente connessi tra loro.
Nel tentativo di ridurre l’estrema complessità che caratterizza questo orientamento operativo fortemente inclusivo, possiamo immaginarci una fibra di tessuto composta da due anime. La prima, quella politica, di comunità, vive attraverso l’attivismo di numerose persone attente promotrici dei diritti umani. La seconda invece, prende una forma prettamente operativa a livello socio-sanitario, agendo nel contesto attraverso strategie pragmatiche di limitazione dei rischi (come la distribuzione di materiale sterile o il drug-checking).
Gli interventi attraverso cui la riduzione del danno trova espressione si realizzano dispiegandosi attraverso le fitte trame delle comunità e sono costituiti da alcuni nodi imprescindibili. Ciò che non può essere escluso è la relazione, la comunicazione onesta, la creazione di reti con servizi e istituzioni e la disponibilità di presidi sanitari. Si parla sempre di un intervento “con” e non “per” i destinatari, in quanto colui che percorre quel preciso filo ogni giorno ne è considerato il massimo esperto.
In ogni intervento è di fondamentale importanza creare e mantenere un approccio che evidenzi e consideri la molteplicità delle soggettività, offrendo uno spazio, anche itinerante o digitale, all’interno del quale sia possibile costruire una relazione di fiducia. Il fulcro attorno al quale si snodano tutte le attività è l’ascolto attivo, che comprende la ricerca genuina e curiosa del contatto con l’altro. La promozione e lo sviluppo di conoscenze da parte delle persone incontrate non può prescindere da uno spazio relazionale autentico.
Inoltre, l’intervento risulterà efficace solo interpellando i soggetti direttamente interessati, ingaggiandoli e supportandoli nella costruzione di possibilità. Queste si paleseranno facilitando l’emersione di risorse intrinseche, di consapevolezza dei processi decisionali, incrementando il senso agentività e responsabilità rispetto alle proprie scelte, anche quando queste possono risultare non condivisibili.
I luoghi sono fatti dalle persone che li abitano. Avendo l’ambizione di agire sulla complessità del tessuto sociale promuovendone lo sviluppo potenziale, riteniamo essenziale l’intervento sia sul soggetto che sul gruppo ed il territorio.
Tale prospettiva ci porta a considerare il contesto all’interno del quale avviene l’utilizzo di sostanze come non caratterizzato unicamente da disagio, ma anche da risorse potenziali, che, se scoperte e stimolate, possono contribuire alla promozione del tessuto sociale come fattore di contenimento dei rischi. Da queste considerazioni emerge l’opportunità dell’intervento di outreach, che può essere riassunto come l’uscita dei servizi dai servizi, affinché questi possano entrare nei contesti. Questo tipo di strategia richiede un’organizzazione dei servizi fluida, per definizione flessibile, esposta ad una costante ridefinizione al fine di contattare tutti quegli scampoli che spesso rischiano di non trovare collocazione in servizi più strutturati, sia da un punto di vista sociale e sanitario che relazionale.
Per quanto riguarda la pratica del drug checking, questa non va considerata unicamente da un punto di vista della sua funzione pragmatica di analisi delle sostanza, ma all’interno di una prospettiva relazionale, permettendo così di fungere da strumento utile per:
- estrapolare informazioni preziose riguardo gli stili di consumo;
- fornire un risultato attendibile in tempo reale al drug user;
- fungere da mezzo per comunicare messaggi di limitazione dei rischi e orientare il comportamento di consumo di tali soggetti;
- stimolare la riflessione e il dubbio riguardo il proprio comportamento verso le sostanze psicotrope.
Le informazioni fornite durante il drug checking vengono generalmente accolte in modo positivo dalla popolazione che miriamo a raggiungere soprattutto se fornite da operatori pari. Tali operatori, competenti anche a livello professionale, risultano maggiormente accettati e godono di un elevato grado di credibilità da parte del target1.
L’operatore fornendo informazioni e sostegno promuove l’autodeterminazione dell’individuo. È utile infatti riconoscere e dare la giusta rilevanza alle decisioni che le persone prendono riguardo il proprio comportamento di consumo. Le strategie di autoregolazione o limitazione dei rischi vanno riconosciute ed incentivate in modo da promuovere la condizione attiva dell’individuo riguardo le proprie scelte sull’uso di sostanze psicoattive.
Gli interventi di RdD, in particolare l’outreach abbinata al drug checking e al counseling, risultano essere uno strumento dalle ampie possibilità: agiscono nei contesti in cui maggiormente si sperimenta l’utilizzo di sostanze e così facendo permettono di contattare direttamente la porzione di popolazione ricercata e, agendo sull’atteggiamento del singolo riguardo la sostanza, promuovono un comportamento d’uso informato e consapevole.
L’intervento, impattando sul singolo, si pone l’obiettivo di creare di riflesso comunità di giovani competenti attraverso i meccanismi dell’apprendimento sociale. Le competenze “protettive” riguardanti l’uso possono venire infatti apprese dai pari, siano essi sia in veste di operatore che di frequentatori.
Un ulteriore obiettivo da raggiungere, che potrebbe solo essere favorito dalla continuità dei progetti implementati, è quello di inserire le pratiche di analisi delle sostanze nella maggior parte dei territori. Così facendo, oltre al consumo, potrebbero essere ritualizzate anche le buone pratiche che permettono di perseguire il fine della tutela della sanità pubblica come prevista dalla strategia in materia di droga 2017-2020.
Bibliografia
EMCDDA (2010). Harm reduction. Evidence impact and challenge.
P. Merigolo, (2001). Droghe e riduzione del danno. Un approccio di psicologia di comunità. Edizioni Unicopoli, Milano.
L. Gui, (1995). L’utente che non c’è. Emarginazione grave, persone senza fissa dimora e servizi sociali. Edizione franco angeli, Milano. Pp 85
Benshop A., Rabes, M., Korf., D., J., (2003). Pill testing. Ecstasy & Prevention. A scientific evaluation in three European city. Amsterdam: Rozemberg Publishers.
1Benshop A., Rabes, M., Korf., D., J., (2003). Pill testing. Ecstasy & Prevention. A scientific evaluation in three European city. Amsterdam: Rozemberg Publishers.
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