I wish that I was born a thousand years ago
I wish that I’d sailed the darkened seas
On a great big clipper ship
Going from this land here to that
Ah, in a sailor’s suit and cap
Away from the big city
Where a man cannot be free
Of all the evils of this town
And of himself and those around
Oh, and I guess that I just don’t know
Oh, and I guess that I just don’t know
(Heroin, the Velvet underground)
Ho visto SanPa, la docuserie trasmessa dalla piattaforma Netflix, e da un lungo discorso nato tra me e Federica Marchesi, amica ed educatrice nel nostro servizio, nasce questo articolo.
Inutile sottolineare che SanPa sta creando un certo scalpore e che, nel bene e nel male, sta riaccendendo l'interesse sopito su dei temi e una storia che erano rimasti inosservati per anni.
Quello che più mi smuove, tra le tante cose che hanno concorso a destare in me un sentimento di inquietudine, sono i richiami che la narrazione ripercorre e ripropone rispetto al complesso problema dell’integrazione del "malato" nella società.
Se si guarda quanto viene scritto sui social e si ascolta quanto passa dai media l’impressione è che questo scalpore sociale, nonchè molta dell’opinione pubblica prevalente, ancora oggi siano incentrati sull'idea perno che l'emarginato sia destinato inevitabilmente a permanere in questa condizione di emarginazione e che, in quanto tale, debba essere (rin) chiuso in strutture dedicate.
Non importa il come ci sia finito ad essere un "tossico" e cosa abbia concorso a renderlo tale, che sia per propria colpa o per qualche forma di ineluttabile determinazione il fondamentale è che sparisca dalla vista.
Le strutture deputate alla “cura” di questo pattern poco interessante per la società devono essere dei luoghi dove la persona saluta per sempre il mondo esterno, entra e vive per tutta la vita, senza dare “fastidio”.
Abbiamo chiuso le strutture manicomiali e, con un certo ritardo, abbiamo smontato gli ospedali psichiatrici giudiziari cercando di restituire dignità, valore e diritti alle vite umane…. ma nelle menti di molti non c’è il superamento della radicata convinzione che il “malato di emarginazione” va rinchiuso, spazzato via.
Abolite le altre istituzioni totali concorrenti, il carcere diventa il contenitore che raccoglie e somma alla pena giudiziaria molteplici forme di disagio e svantaggio sociale, espressi in una significativa quota di esclusi.
Tra le varie cose che ha cambiato, il fattore covid ha comportato per necessità e sicurezza anche un maggior ricorso a misure alternative alla detenzione, concesse a chi può.
Ciò ha contribuito ad evidenziare che il carcere è diventato un ripiego per coloro che non sono, secondo agenzie e istanze della società, integrabili.
Per Sanpa, il grande plauso che ha fatto sì che Muccioli diventasse alla stregua di un benefattore è stato e continua ad essere, date le diatribe che sta creando la docuserie, anche questo.
Non importa quanto i metodi possano essere crudi e spietati, ha tolto il problema dalle piazze.
Tenendo in comunità le persone anche contro la propria volontà ha risolto il problema sociale degli “zombizzati”, della criminalità correlata al consumo di sostanze, e via dicendo.
Il tutto dando esternamente un’idea di relativo benessere e compenso, la faccia dorata della medaglia che nasconde quella cupa.
Ci piace, ci piace molto.
Come un animale selvaggio, pretendiamo che le persone che riteniamo non siano adattabili agli assetti della società dominante debbano essere private del loro bene primario: la libertà fisica.
In questo modo le persone problematiche possono addirittura diventare “carine e coccolose” (cit. Madagascar), abituandosi al “regime dello zoo”.
Per farla meno brutale, le mettiamo in una sorta di zoo safari. Così la persona ha una realtà posticcia che possa assomigliare quanto più possibile a quella esterna ma che non è di fatto la realtà esterna.
Ma dopo anni rinchiuso in una gabbia, anche l'animale più foreste quando rimesso in libertà si comporta come se fosse ancora rinchiuso, rispettando le normative imposte dal precedente regime e che ormai ha acquisito come stile di vita.
O peggio, l’animale rinchiuso per anni quando rimesso tra i suoi simili non è capace di integrarsi, preferisce tornare in gabbia.
“Sbrocca” e fa in modo di tornare dentro quanto prima, confermando al pubblico giudizio che è meglio che stia dentro, per il bene suo nonchè per quello altrui.
A quel punto il proprio carceriere, come nella sindrome di Stoccolma potremmo quasi dire, diventa il “salvatore”.
Colui che regala, in cambio della propria forza lavoro, una vita tollerabile.
Il “santo” che si dona e gli concede la possibilità di vivere, rinchiuso, una realtà alternativa alla società che non lo respinga, dato che la società libera, là fuori, non lo vuole.
Di fronte ad un mondo espulsivo, viene offerta una possibilità di inclusione, seppur illusoria, ristretta.
Ma il prezzo per averla è davvero caro. Deve rinunciare ai suoi diritti.
Deve “rinchiudersi e buttare via la chiave”, come a volte con sarcastica ironia si sente dire.
Come si può pensare che questo possa essere terapeutico?
Credo che la società dovrà fare i conti prima o poi col fatto che non sono le persone definite “malate mentali” a doversi adattare, ma che debba essere la società ad adattarsi a loro, o almeno incontrarli in prossimità dei loro più inviolabili e irrinunciabili diritti.
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