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ESCONDIDO NO MUNDO

1 Feb 21

A cura di Gilberto Dipetta

Interrogare ciò che è ovvio e presupposto. Ciò può essere compreso soltanto se si risale sistematicamente alle radici nascoste di questa esperienza. Se queste radici sono perseguite in tutte le loro operazioni. Se noi perseguiamo in tutte le sue operazioni la vita che si agita, la vita che tende avanti, la vita che plasma l’umanità intersoggettiva e il suo mondo: un regno immenso e anonimo”

E. Husserl

 

A Guilherme

Stanotte squilla il cordless sul comodino. Dall’altro lato la voce di un operatore giovane, smarrito. Un paziente, Giovanni, ha scavalcato il cancello di una delle nostre Residenza ed è fuggito. Mi dice che allerterà 118 e carabinieri. Mi dispongo in attesa. Di sicuro se lo trovano lo portano in PS. Ma le ore della notte passano. E tutto tace. Nel dormiveglia penso alla fuga del paziente. Mi viene in mente un librino che scrisse Laborit, lo scopritore della clorpromazina, che si chiamava “Elogio della fuga” (1990), un viatico di scampo dalle costrizioni della vita sociale. E anche la nostra “cura”, la nostra residenzialità disseminata, che scampo dà ai nostri pazienti, se non quello di sognare la fuga? A chi mai verrebbe oggi in mente di distruggere le “residenze”, come è stato fatto con il manicomio? Quanto coprono e assorbono, le residenze, della nostra incapacità a far sì che i nostri pazienti esistano-nel-mondo? Chi sono gli operatori che lavorano nelle residenze? Che formazione hanno? Che idea hanno dei pazienti, delle loro storie, delle loro diagnosi? Per quante ore transitano in queste residenze infermieri, medici, psicologi? Cosa pretendiamo da OSS e da educatori? Se neanche la “cultura” riesce a scongelare la distanza tra operatori e pazienti, figuriamoci l’umanità lasciata al “buon senso”? Non è forse il buon senso che ha edificato i manicomi? Non è forse il “buon senso” che costruisce continuamente zone di interdizione e di reclusione? Quasi, dentro di me, spero che il paziente non si faccia prendere, potrei trovarmi nella spiacevole situazione di dove fare un TS0 ad un paziente “catturato”, magari non scompensato come sembrerebbe, che, tuttavia, non vuole tornare in “Struttura”, ma che, di fatto, non ha dove andare, se non le insidiose strade di questa periferia sterminata immersa nella notte e percorsa da presenze inquietanti. Potrei trovarmi nel paradosso di dover “arrestare” un essere umano per “proteggerlo”. Ecco, le situazioni che ti mettono in crisi come psichiatra e come uomo. Sono mai oggetto di discussione nei convegni queste cose? Si sente di farmaci, recettori, alleli, citocromi; si sente di eleganti modelli mentali, ma uno psichiatra che si trova, di notte, in un pronto soccorso medico affaccendato ed invaso di pazienti critici e COVID, tra operatori stanchi che si muovono bardati come automi, di fronte ad un “uomo in fuga” verso la sua libertà, condotto dai carabinieri, con l’operatore spaventato, che non vuole o tornare da dove è fuggito e che non si vuole ricoverare in SPDC, che cosa deve fare? Dove se ne parla di questo? Se il paziente non si fa trovare, il mio dilemma etico slitta. Domani sorge il sole e ci si pensa. Poi penso alla mia, di fuga. Sto fuggendo anche io? Da cosa sto fuggendo? Sabato, verso mezzogiorno, e cioè alle 8 del mattino in Brasile, mi ha telefonato Guilherme Messas da San Paolo. Mi ha invitato caldamente a partecipare ad un convegno internazionale che si terrà “in remoto”. Lo ho ringraziato. Ha declinato decisamente l’invito. Non me la sento. Guilherme è molto affettuoso, mi ha chiesto se stessi bene. Compatibilmente con “l’era COVID”, con il modo abnorme in cui stiamo lavorando da quando abbiamo dovuto cedere il reparto, con le restrizioni generali della libertà, con l’impossibilità di abbracciarci, con le ansie tra la prima e la seconda dose del vaccino, con la solitudine e il silenzio che dura da quasi un anno, con il mio vecchio babbo recluso ai domiciliari senza incontrare nessuno, sto bene. Ma il punto non è questo. Il punto è che sento, ora più che mai, la vanità del tutto. La perdita di senso anche di questa febbrile attività convegnistica e formativa, senza la quale, forse, si può anche vivere. Forse meglio anche che con la quale. Questo mio vissuto non ha tanto a che fare con una disfatta (magari anche), ma con una radicale “domanda di senso”. Che ricaduta hanno sulle vite concrete dei nostri pazienti, sui nostri sistemi di cura, sulla mentalità di noi operatori tutti i nostri convegni? E’ questa la domanda spietata, come deve essere spietato e rigoroso il pensiero critico, che sorge dalla mia “malinconia”. E’ la domanda di senso che ho posto a Guilherme, rispetto alla quale egli rimane perplesso, colpito. Per chi di noi olia e spinge questa mostruosa e pletorica “macchina formativa”, nutrendo robustamente il proprio curriculum vitae, la cosa può avere ancora un senso. A me, personalmente, non serve. La mia Azienda Sanitaria non ha maggiore considerazione di me in ragione della mia partecipazione, anche come relatore, ad eventi nazionali ed internazionali. Nè le mie pubblicazioni aggiungono nulla al mio ruolo professionale o la mia vita quotidiana, anzi, se mai, sottraggono. Tempo, innanzitutto. Energia. Il cattivo ed emergenziale lavoro che stiamo svolgendo sotto il COVID mi fa rientrare a casa la sera molto stanco. Demotivato. Ci hanno tolto adesso quattro infermieri per mandarli a vaccinare. Tre di loro, su mia esortazione, avevano conseguito (a spese loro) un triennale diploma di counselors e svolgevano un ruolo importante nel rapporto con le famiglie e con i pazienti, soprattutto nelle situazioni critiche. La campagna vaccinale è in questa fase storica, un atto nobile e doveroso, ma è un pur sempre atto meccanico. Nella Salute Mentale gli esseri umani che operano con esperienza e competenza non sono sostituibili. Una di loro, Marianna, mi teneva in piedi tutto il DH. Avevo pazienti difficili, che solo da lei accettavano al terapia. Li chiamava a casa uno per uno quando mancavano l’appuntamento. Aveva una sua dolcezza, una sua capacità di subentrare al momento giusto nel colloquio. Mi rendo conto conto che di fronte alle migliaia di TAC a “vetro smerigliato”, e ai carri funebri che escono quotidianamente della Morgue, non conta nulla. Cosa conta entrare in colloquio al momento giusto. Di che cosa stiamo parlando? Stiamo parlando degli ultimi quaranta anni di una psichiatria diversa, rispetto ai due secoli precedenti. Stiamo parlando di rispetto. Ma che conta, adesso. Bisogna essere muscolari, vaccinare a tappeto. C’è una guerra in corso…. E non posso parlare, non posso protestare, non posso scrivere. Perché ogni reazione, in questo momento, anche debita, viene intesa come “sparare sulla croce rossa”. Ho già avuto adeguati redarguimenti in questo senso. Sto assistendo, di fatto, al quotidiano smantellamento del settore assistenziale in cui io sono occupato, in favore della conversione alla guerra contro il COVID. Come se ora la priorità fosse quella. E non esistesse più nulla. Il resto può attendere. E chissà se mai ricomincerà- Abbiamo le pareti di carton gesso del nuov repartino assegnatoci divelte da pugni e calci, gli armadietti di multistrato senza porte. Compressi in uno spazio ristretto subiamo gli acting dei pazienti scompensati o intossicati da cocaina e fatichiamo a tenere sotto controllo le nostre reazioni. Ma tutto questo ora è del tutto secondario. E’ noto che la civiltà di uno stato si misura dal trattamento che questo stato riserva alle fasce cosiddette deboli. Qui invece si verifica la legge dell’ultimo prato, quello che rimane senza acqua, quando la pressione idrica è stornata altrove. Questi sono i miei tormenti. Mai come ora ho pensato alla possibilità di mollare il ruolo assistenziale. Di ritirarmi nel privato. Di mettermi a curare solo quelli che si possono curare. Sento la mia vocazione e la mia motivazione messa a dura prova ogni giorno. Spero che si possa risorgere. Per ora ho bisogno solo di recuperare energie. Leggo qualcosa, ascolto qualcosa, guardo qualcosa, mangio qualcosa, svogliatamente. Poi cerco di dormire. Se c’è una cosa che ho scoperto da marzo 2020, cioè da quando ho smesso di trascorrere i weekend sulle Frecce Rosse o negli aeroporti, per raggiungere città, regioni, nazioni, congressi, convegni, seminari, scuole di specializzazione ed aule universitarie, è che nulla è cambiato nella prassi clinica e terapeutica. Dunque la domanda, forse provocatoria, forse malinconica, che mi faccio ogni giorno e ogni notte che salgo per la scala anti-incendio che porta al mio repartino ingabbiato, catturando l’ultimo sole, il primo sole, il gelo della notte stellata, la tramontana, il libeccio e lo scirocco, è : a cosa serve? A chi serve? La conclusione è che: ai pazienti non serve, a me, personalmente, non serve. Ai miei infermieri, ai miei colleghi? Non serve. Forse non arriva. Ma se anche arrivasse? Dove sta scritto che l’incremento di cultura e di informazioni migliora l’approccio ai pazienti? Forse che gli ufficiali nazisti nel Lager non ascoltavano Wagner, Beethoven e Liszt? Forse che non leggevano Goethe ed Hoelderlin? Le riflessioni spietate di un uno temperamento melanconico, quale io sono, mi portano a concludere che tutta l’ipertrofia della macchina formativa è congressuale serve, nei fatti, “solo a noi”, soddisfa il nostro narcisismo, ingrassa il business dei provider, la risonanza delle aziende farmaceutiche, quando sponsorizzano. Qualche grant che arriva a me come relatore, dalle aziende o dalle asl, o delle università, viene puntualmente rimangiato dalla dichiarazione dei redditi. Gli applausi, le luci della ribalta, la competizione tra di noi per l’idea originale, per la presentazione più chiara ed esaustiva, il consenso dei colleghi, l’invidia dei colleghi, l’ammirazione dei più giovani, il sorriso delle colleghe? Omnia vanitas. Se non riprendesse mai più più questo tran-tran, non sarebbe oggi tra le cose che rimpiangerei. Eppure ho lavorato una vita nella direzione della produzione di conoscenza. Se facessimo convegni in un’ambito teorico, non applicativo, come la letteratura, o la filosofia, o la storia o altro che ora non mi viene in mente, sarebbe diverso. Perché ci sono, effettivamente, discipline che si nutrono dei propri concetti. Non così la psichiatria. La psichiatria porta nel suo nome il destino: la cura. Il sistema della cura mi appare, e da tempo, completamente sganciato da tutto questo “ambaradan”. Con il quale e senza il quale, i nostri pazienti continuano ad uccidersi, ad essere ricoverati in TSO, ad assumere farmaci, a drogarsi, a non assumere farmaci, a commettere reati in qualche caso, a non vivere, a girare a vuoto, a stare reclusi nei manicomietti domestici o nei manicomi etti residenziali. Le attività riabilitative sono, dove praticate, spesso appiattite sull’intrattenimento. Le psicoterapie praticamente non esistono. Le domiciliari sono spesso piegate alla somministrazione di terapie orali o depot. Il tutto è curvato sulla “gestione” dell’emergenza. O sulla “gestione” in genere. La drastica contrazione dei posti letto che abbiamo subito, al fine di consentirci di avere almeno un posto libero per l’emergenza notturna e/o festiva ci obbliga, dopo brevissimi passaggi in SPDC, a “collocare” i pazienti in strutture residenziali o spesso il cliniche convenzionate. Siamo diventati “collocatori”, “gestori”,e “somministratori”. Agenti di un dispositivo infernale, che non ha più tempo per porsi una domanda di senso. In tutto questo, preparare una relazione per un convegno, anche da casa, potrebbe essere, certo, un diversivo. Ma non lo vivo così. Lo vivo come un’ipocrisia. Se non posso fare a meno di liberare un posto letto per la prossima disperata crisi in arrivo stanotte, sviaggiando un paziente semiscompensato e “farmacoplegizzato” altrove, posso invece dire di no al mio amico Guilherme. Perché la cosa che egli mi propone con tanta generosità, adesso mi lascia del tutto indifferente. Se la facessi, aumenterebbe la disistima che ho per me stesso. “Escondido no mundo”, soggiunge Gulherme a telefono, ad un certo punto della conversazione. “Il mondo così non ti conoscerà”. A parte che non si perderà molto, mi verrebbe da dirgli, ma la verità è che non mi interessa più essere conosciuto dal mondo. Non credo che le mie idee valgano l’universalità e la necessità. Riesco ancora a fare delle supervisioni in remoto per un dovere che ho assunto nei confronti della Scuola alla quale mi onoro di appartenere, dei miei compagni di strada, e dei giovani che si sono affidati al nostro percorso formativo. Ma, per il resto, faccio a meno. Ammiro molto Guilherme e tutti quelli come lui che hanno trovato il modo di tenere accesa la luce della conoscenza, il fuoco prometeico rubato agli dei e portato agli uomini. Io mi sento, invece, molto rappresentato dall’ incisione di Duerer “Il Cavaliere la morte e il diavolo” (1513). Una copia dell’incisione del “Cavaliere” era tenuta da Husserl, il padre della fenomenologia, dentro il suo studio. Per lui incarnava la fenomenologia stessa. Il cavaliere è la vita attiva e la salvezza morale. Il cavaliere difeso dall’armatura della conoscenza e della fede avanza, nonostante la morte gli agiti davanti la clessidra, la misura del tempo che gli è rimasto. E il diavolo, incrocio di bestialità, lo minaccia con un’alabarda. Non può consentirsi webinar, DAD, Briefing, Brunch, Lunch, Paper, Simposi, seminari et cetera. Egli, solitario, avanza passo dopo passo, consapevole dell’agguato del tempo e della decadenza, in una terra desolata, mentre la città è lontana e arroccata sul cocuzzolo. Egli sa che ogni passo può essere l’ultimo, ogni incontro quello definitivo, è immerso nel mondo e non gioca a nessuna simulazione o costruzione di modelli, non pubblica libri. Quello che sa lo ha dentro e spera che sia utile ad aprirgli la strada verso l’ignoto. Ad un certo punto della nostra conversazione Guilherme, sopraffatto dall’onda del mio discorso, mi è sembrato capire il mio punto di vista. E’ un uomo etico, un clinico raffinato, un vero amico, è il compagno di strada più lontano che ho, mi vuole bene. La prima volta che mi chiamò era nel 2011, ero con i miei tossici sotto il ponte della rotonda, Napoli periferia nord. In questi anni mi ha invitato più volte volte a San Paolo. “Devi venire a raccontarci al fenomenologia del mondo tossicomane”, disse. E io feci il passaporto e partii. Mi sono sentito un granello di povere in una città di 20 milioni di abitanti. Nel tempo libero camminavo avanti e dietro per l’Avenide Paulista, dove ogni tanto un’edificio liberty soffocato tra i grattacieli mi sapeva di cara vecchia e morente Europa. Mi ha portato in cliniche dove si celebrava il mesmerismo e la reincarnazione, in metropolitane stivate alla ricerca di una pietra che potesse essere il centro storico (dov’è il centro storico di questa megalopoli? Gli avevo chiesto sopraffatto dalla crisi della presenza di demartiniana memoria), attraverso periferie dove gli indigeni cucinavano il crack all’aperto, e a parlare in convegni davanti a folle multietniche, policrome, ed oceaniche. Ho sentito discutere con molta competenza di fenomenologia da giovani che avevano l’immensità dell’oceano tra loro e l’Europa. Mi sono commosso. Ma tutto questo non ha cambiato nulla. Tutto questo, e molto altro, non cambia perfettamente nulla. E così si è fatta, ancora una volta, l’alba. Anche questa notte è passata. Squilla il telfono. “E’ Giovanni, penso”. E’ invece il mio primario che mi dice che hanno ritrovato Giovanni, e che Giovanni era tranquillo, ed ha deciso di rimanere in struttura. Non ne ha voluto sapere di farsi condurre in PS.” Tiro un sospiro di sollievo. A volte i nostri pazienti sono meno folli di quanto noi pensiamo. In fondo, stanotte, entrambi, io e Giovanni, abbiamo fantasticato di sparire, nescosti nel mondo. Forse anche il Cavaliere di Duerer è, a modo suo, escondido no mundo, nel senso di perso, perso nel mondo. Alla fine della nostra conversazione, Guilherme mi ha detto: “Ciò che ho sentito negli ultimi cinque minuti da te, non l’ho sentito negli ultimi cinque anni. Ti prego, Gilberto, di scrivere questi pensieri, fallo per me”. Per te l’ho fatto, Guilherme, per te che fertilizzi del migliore pensiero europeo l’altro capo del mondo. In fondo te lo devo. Spero che tu possa perdonarmi. Obrigado. Ti abbraccio

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