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Nel bosco della mente

22 Apr 21

A cura di Dolores Celona

Un lupo nel bosco prossimo all’abitato.

Un piccolo spettacolo della natura.

Bello quanto spaventoso, se si pensa all’idea di percorrere quel sentiero così vicino al paese.

Le favole antiche identificano nella figura del lupo il pericolo, la forza esterna ed incontrollabile da cui scappare ed, in effetti, percorrere un sentiero ed imbattersi in un animale selvaggio e imprevedibile può essere obiettivamente rischioso.

La sua pericolosità manifesta fa sì che una persona stia ben attenta a prendere tutte le misure necessarie per evitarla.

Guardo meglio la foto e noto che sulla sinistra c’è un televisore abbandonato lì, al margine del sentiero. E’ inerte e apparentemente innocuo, non può fare del male a nessuno nell’immediato attraversamento del bosco.

Non stimola la reazione di fuga, non incute paura il vederlo lì. Probabilmente ci si passerebbe accanto senza curarsene troppo, senza pensare alla possibilità di segnalarne la presenza a chi di competenza, nonostante sia riconosciuta la pericolosità di un rifiuto speciale non adeguatamente smaltito.

Dopo una giornata di colloqui intensi, confrontandomi con Federica sulla enorme fatica nell'affrontarli, mi riaffiora questa immagine, metafora di significati e movimenti che si rispecchiano nel nostro mondo interiore.

Quanto la paura dell’altro a volte ci distoglie, come in questa foto, dal male che possiamo auto-procurarci?

Dai pazienti (e non solo), in particolar modo in questo periodo storico, sento spesso far riferimento, con tutte le contraddizioni del caso, a possibili tentativi da parte “dello stato” di voler imporre il proprio controllo a scapito del libero arbitrio.

Viene percepito come un’entità intangibile, potente, capace di causare deliberatamente del male, vuoi attraverso i trattamenti farmacologici con sostitutivi (la famosa droga di stato); vuoi con la somministrazione di un vaccino; vuoi attraverso l’indicazione di attenersi a determinate regole di comportamento preventivo che però altro non sarebbero che l’ennesimo modo per condizionare e controllare fortemente la propria libertà individuale.

La stesso sguardo diffidente e resistente però non si applica sulla dubbia provenienza, sulla incerta composizione del taglio, sugli effetti dannosi e in parte sgradevoli che ogni singola sostanza d’abuso, tanto più se illecita, porta con sé in chi la assume.

Al che sorge una riflessione: la diffidenza che sviluppiamo nei confronti dell'altro da noi, può mascherare una diffidenza nei confronti di noi stessi?

Nel bosco pervasivo della nostra mente, forse quello che dobbiamo temere di più non è il lupo, che rappresenta un pericolo manifesto e scaturisce una preoccupazione "naturale" ma può arrecare molto più danno un  qualcosa che a noi sembra inerte e che “scegliamo” di fare entrare senza prestare la dovuta attenzione.

Può essere allo stesso modo pericoloso qualcosa di cui abbiamo deciso di fidarci? 

Qualcosa che sul momento allevia, anzi, le sofferenze e che, pertanto, ricerchiamo con insistenza e bramosia? 

Come se questo “qualcosa” a cui  decidiamo di abbandonarci possa essere “meno gravoso”.

Quel danno che decidiamo di procurarci, perché può apportare un piccolo beneficio alla pesante quotidianità impostaci dal pericolo della vita esterna, viceversa contamina e destabilizza la realtà in maniera lenta e imprescindibile.

In questo periodo sono inevitabilmente coinvolta in un esponenziale aumento delle diagnosi di HIV tra i nostri pazienti.

Un ritorno di una diagnosi mortifera che, per un periodo sufficientemente lungo, era stata sopita grazie all’attuazione di piani di prevenzione e alla messa in opera di interventi che hanno visto, in prima linea, le pratiche di riduzione del danno.

Nella gestione della comunicazione della diagnosi un dato ritorna e cattura l’attenzione: il tentativo da parte dei pazienti, al di là di tutto, di non screditare la sostanza come la colpevole di alto tradimento e come colei che ha causato il danno, il contagio, attraverso un utilizzo disattento, concitato e promiscuo, dei materiale di consumo (tra cui il riutilizzo della siringa); o attraverso il sesso senza protezioni.

Più accettabile è propendere per l’ipotesi che rintraccia la causa, la colpa, in qualcun altro, una persona che non avendo dichiarato la propria positività, in uno dei tanti rapporti non protetti, è la colpevole del contagio, l’untore, il paziente 0.

In questo modo la causa del male non è più la tanto l’amata sostanza, sposa fedele e servizievole, ma una forza estranea, incontrollabile come un lupo nel bosco, l'unica vera fonte di pericolo riconosciuta.

L’operatore si ritrova di fronte ad una trincea inespugnabile, nel momento in cui cerca di ricondurre il paziente, anzi i pazienti, alla possibilità che non sia stato un altro da sé a causare il contagio, ma che esso sia avvenuto a causa di una propria condotta rischiosa strettamente condizionata dalla modalità di consumo, sregolato e irrefrenabile, che la sostanza porta in sé.

Introdotto a questa opzione, la persona vacilla, alternando momenti di odio profondo nei confronti della sostanza a momenti di innamoramento rinnovato e perdono. D’altronde l’odio verso la sostanza riconduce al peso insostenibile del fallimento personale, della frustrazione per l’incapacità di controllo, su se stesso come sulla sostanza, e naufraga nella disillusione di poter controllare qualcosa che si pensava di poter gestire senza danni.

L’impatto sul lavoro a quel punto indica che non siamo solo coinvolti nell’adesione ad una terapia farmacologica, quanto che siamo coinvolti in un lavoro più profondo, lento e complesso, che è quello di scardinare la convinzione che il pericolo venga sempre dall’esterno e che quell'esterno, verso cui si oppone tanta diffidenza, a volte può offrire un rimedio, una riparazione, nei confronti di un danno che, invece, viene perpetrato solo da se stessi.

 

(foto presa dalla pagina facebook “Letteratura Capracottese”)

 

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