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La Super-Lega, il calcio come oppio dei popoli

25 Apr 21

A cura di Sarantis Thanopulos

La Super-Lega non è uno scherzo. Uno sport che è stato sempre della classe dei lavoratori, aperto a tutti, contro la discriminazione, che ha fatto felici i weekend di tante persone, è stato dirottato da un gruppo di cleptocrati che non si interessano alla sua storia e alla sua funzione sociale. Il calcio diventerà come il tennis, un’esangue esibizione noiosa, giocata in quattro tra i paesi più ricchi del mondo e sorvegliata da un’élite cleptocratica, con totale controllo su quello che i giocatori -gli automi- possono dire o fare”. Questo è stato l’accorato commento di Branco Milanovic, economista americano di origini serbe e grande appassionato di calcio, alla notizia della costituzione della Super-Lega, il raggruppamento dei dodici club di calcio europei più ricchi e potenti del mondo (quasi tutti indebitati), in un torneo autoreferenziale, chiuso in sé. Ad esso si sono affrettati a aderire Juventus, Inter e Milan i club italiani che più hanno tradito lo spirito e la tradizione del calcio. Hanno giocato un ruolo fondamentale, di “avanguardia”, a livello internazionale nell’alterarlo, snaturandolo in spettacolo. Aiutati dalle sovvenzioni decennali da parte dello Stato.  

L’inchiostro sulle parole di Milanovic non era ancora asciugato e il progetto della Super-Lega era già miseramente crollato. La pandemia non lo ha aiutato. Da tempo il calcio è diventato uno strumento di riciclaggio di risorse economiche, spostate da una parte all’altra in modo poco o per nulla trasparente, di inserimento nelle élite  economiche dei paesi occidentali, di condizionamento della politica. Tuttavia, qualcosa nel suo meccanismo di giocattolo lucroso per ricchi spregiudicati/viziati si è inceppato. Per anni è andato avanti sul progressivo indebitamento e sulla capacità dei suoi dirigenti di sfruttare la sua popolarità per sottrarre alla comunità risorse che non gli spettavano. Nondimeno la fuga continua in avanti, assecondata da una classe politica timorosa e troppo ossequiosa nei confronti dei suoi presunti fasti, si è fermata con le partite giocate a porte chiuse, dove si è manifestato con chiarezza che il re è nudo. Tolte le tifoserie e la loro passione, che qualcosa di importante trasmettevano ai giocatori, si è visto che gli incontri tra professionisti pagati con cifre faraoniche (del tutto ingiustificate dal punto di vista sociale e economico) di poco in realtà differiscono dalle partitelle giocate, una volta, tra ragazzi appassionati, sognatori nei campetti di calcio dell’oratorio. L’abilità tecnica, la forza atletica non creano di per sé emozioni. Queste continuano a vivere a spese del patrimonio di esperienze già avute, campano di nostalgia. La distanza tra i mondiali di calcio del 1982 (per non parlare di quelli del 1970) e il calcio attuale, tra Maradona e l’ineffabile Messi, è siderale. 

Più il calcio è diventato spettacolo, più si è svuotato, perché la sua bellezza non sta nella capacità di ipnotizzare, catturare lo sguardo, addomesticando lo spettatore a canoni anestetici, plagianti. Sta nell’invenzione, nell’inaspettato, nelle tattiche e nelle strategie condivise da un gruppo impegnato in esse che a seconda delle circostanze mutano. Sta nella coralità, musicalità delle azioni che non disdegna l’individualismo e le disarmonie, ma cerca di portarle in un equilibrio di vita dove l’ordine e l’anarchia convivono. Sta soprattutto nel suo essere un gioco dove l’intesa con gli amici e i nemici è indispensabile. Di qui il suo innegabile valore civico che lo pone al di sopra di tutti gli sport. E’ il  prodotto di un'etica che viene dal lavoro condiviso. 

La sua appropriazione indebita da parte degli speculatori dello spettacolo, che lo vogliono trasformare in oppio dei popoli, costringendolo nel giogo della fascinazione degli spettatori di fronte alla vista degli ingranaggi dell’orologio, si è fermata un po’. Ma la battaglia non è finita.    

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