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GLI “PSICHIATRICI” E LA LORO CURA

27 Giu 21

A cura di Sarantis Thanopulos

Chi sono i pazienti “psichiatrici”, gli “schizofrenici” e i “bipolari”, portatori di un turbamento psichico destrutturante? La loro definizione dominante privilegia il fatto che non sono dentro il sistema sociale: né in termini di adesione, né in termini di contestazione. Sono percepiti come avulsi dall’interpretazione logica della vita, come mine vaganti. È vero che tendono a costruire una rappresentazione persecutoria della realtà, vivono in un mondo che si è presentato fin dall’inizio estraniante. Percepirlo ostile dà significato alla violenza dell’estraniazione subita. La parte più difensiva e normativa di noi, teme la violenza che li ha azzannati (e di cui essa è parte). Vede nell’aporia che essi incarnano una minaccia da tenere a bada e proietta in loro la propria ostilità contro ciò che sfugge al suo controllo. La cura diventa assistenza che li deve addomesticare, neutralizzarli o contenerli con la forza (“a fin di bene”) se non sono compiacenti.

In realtà i “folli”, recintati senza via d’uscita in diagnosi psichiatriche sempre più codificate e sempre più alienanti (l’evanescenza della denominazione ossessiva diventata canone dell’esistenza), sono alla ricerca disperata di una rappresentazione logica della realtà, che possa colmare il vuoto di senso che minaccia la loro vita. Cercano di appropriarsi di ciò a cui si sentono più estranei, ma che appare loro il segreto inarrivabile dello stare in modo. Cadono in una trappola perché la logica separata dalla soggettività tende a diventare omogenea all’oggettività e l’oggettività pura è alienazione, autodistruzione della ragione. Si ribellano alla trama impersonale che li ingabbia, accettando la lacerazione della loro soggettività, a cui la ribellione li espone, perché così si sentono vivi. Il delirio è espressione del conflitto tra l’alienazione e la soggettivazione della loro esperienza. Nel punto in cui sembra avvicinarsi all’interpretazione, ne fugge, al tempo stesso, via.

L’unico modo autentico di relazionarsi con la follia, senza ingabbiarla negli schemi assistenziali della psichiatria correttiva, è partire dalla sofferenza che, nonostante l’angoscia a volte devastante che l’accompagna, è soprattutto domanda di relazione, di vita. L’angoscia diventa spesso invasiva, destrutturante e l’uso accorto di farmaci può contenerla, alleviarla, renderla elaborabile. I farmaci non cancellano il delirio, ma attutendo l’angoscia lo rendono meno incandescente, più sintonico con la spontanea tendenza alla vita che viene dalla soggettività tormentata. Usare i farmaci in modo indiscriminato, massiccio, aggredendo insieme all’angoscia l’esperienza soggettiva, vivente nella maniera apparentemente bizzarra di relazione con il mondo, che è creduta un sintomo, induce catatonia affettiva.

Le radici della sofferenza individuale sono nella relazione tra patrimonio genetico e ambiente affettivo, culturale e sociale. Il disagio del singolo è l’estrinsecazione nei soggetti più vulnerabili di un disagio collettivo. La psicoanalisi mette a fuoco l’ambiente affettivo dell’infanzia, perché è in questo spazio che l’esperienza gravemente ferita si è configurata in modo personale, umano. Del dolore nessuno possiede la chiave di “guarigione”. Se i soggetti “psichiatrici” guariscono ciò accade spontaneamente (Winnicott). La cura è un prendere cura della relazione che include una accurata ricerca epidemiologica, il supporto farmacologico e la ricerca transdisciplinare sulle correlazioni tra la soggettività e il suo substrato genetico/neurofisiologico. Il suo fondamento è l’umanizzazione della sofferenza: il lavoro di elaborazione che dà spazio e riconoscimento alla creatività soggettiva a cui danno accesso la cura psicoanalitica, la cura delle relazioni familiari, le esperienze di gruppo, il lavoro di integrazione socio-culturale nella comunità, l’espressione artistica dei vissuti. Un impegno importante di passioni e energie.

 

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