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TRENT’ANNI DI LAVORO DA PSICHIATRA DEL SSN

31 Lug 21

A cura di Paolo F. Peloso

Mi fa una certa impressione pensare che tra due giorni, il 2 agosto, saranno trent’anni che faccio lo psichiatra per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Facendo un calcolo approssimativo, significa che, tolti le domeniche e i festivi, le ferie e l’unica settimana di assenza per malattia che (fortunatamente) finora ho dovuto prendere, ho lavorato come psichiatra circa 6.600 giorni su circa 21.300 complessivi di vita, quasi un terzo; o se si preferisce ho trascorso lavorando oltre 55.000 ore su 511.200 circa (un po’ più del 10%, ma se ci si limita agli anni dal ’91 a oggi, più del 20% e ancora di più se si considerano solo le ore di veglia).
Ma più che questi numeri che per la loro grandezza faccio fatica a percepire come qualcosa di concreto, mi impressiona in occasione di questo anniversario il fatto che il giorno in cui salivo accompagnato da Filippo Gabrielli le scale della direzione generale del San Martino per essere presentato come neoassunto al direttore Cavagnaro – lo dico davvero senza retorica –  mi sembra proprio ieri; e invece mi scopro improvvisamente molto più vicino all’uscita che all’entrata della mia vita lavorativa, che potrà durare ancora da 4 a 12 anni, credo. Comunque meno di un terzo.  
I primi quattro mesi trascorsi presso la Clinica universitaria come interino non rappresentarono una vera discontinuità rispetto al periodo precedente; era la stessa Clinica dove stavo frequentando la Scuola di specializzazione, per l’esattezza la Clinica RR diretta da Carmelo Conforto (allora le cattedre di psichiatria erano tre, e non una come oggi) con caporeparto Maurizio Marcenaro. Le vere novità erano rappresentate dalle consulenze nei reparti ospedalieri e dai turni al Pronto Soccorso, ai quali mi ero preparato affiancando Fausta Cuneo e Caterina Vecchiato. Il Pronto Soccorso di San Martino allora era l’unico in città che prevedeva la presenza dello psichiatra h24 (oggi sono tre), e quindi la notte le ambulanze arrivavano quasi tutte lì. A me quel lavoro al fronte piaceva molto, mentre alcuni dei colleghi più anziani erano stanchi di farlo; insomma che in quattro mesi feci le ore lavorative di cinque, e poi per un anno circa – allora evidentemente era possibile – continuò ad arrivarmi un assegno mensile in retribuzione delle ore in esubero.
Delle consulenze ne ricordo due in particolare, entrambe presso l’astanteria di Pronto Soccorso diretta dal prof. Giovanni Aldo Ponassi, che credo mi volesse bene. Nel primo caso si trattava di una donna che aveva manifestato idee di suicidio e voleva essere rimandata a casa. Non riuscendo a convincerla, feci una proposta di TSO; poi in Clinica i colleghi più anziani mi fecero garbatamente capire che forse avevo un po’ esagerato e si preoccuparono perché la signora era piuttosto furibonda ed era una giornalista. Nel secondo, era appunto il ’91, si trattava della moglie di un diplomatico russo, l’unico che si era incautamente pronunciato a favore del golpe e dopo il suo fallimento era stato richiamato. Era una donna molto bella, un tipo molto russo, una sintomatologia molto dostoëvskijana… e il mio stato d’animo in quei giorni mi fece pensare che in quel letto fosse l’Unione Sovietica al tramonto, a volermi al suo capezzale.
A dicembre prendevo servizio all’SPDC di Savona, e un’intervista che mi ha chiesto il prof. Gian Luigi Bruzzone per la rivista online Trucioli (vai al linkmi ha spinto proprio in questi giorni a ripercorrere i miei anni savonesi. Il primo impatto fu con la contenzione, quella più dura, che in Clinica universitaria ci era stato insegnato a fare con scrupolo e attenzione tanto agli aspetti formali che di messa in pratica, e soprattutto a cercare sempre di evitarla e a farla durare il minimo. Trovai così la conferma che questa questione è cruciale se si guarda l’organizzazione del servizio psichiatrico con gli occhi del paziente, e quando qualche anno dopo mi imbattei per caso nella relazione di Ernesto Belmondo al XII Congresso della Società Freniatrica di Genova del 1904 sull’abolizione della contenzione nei manicomi mi resi conto che è uno dei documenti più interessanti della psichiatria italiana. E dieci anni dopo come Segretario regionale della SIP riuscii a organizzare un convegno di due giorni su questo tema che gli psichiatri sono così riluttanti a trattare, a curare con Roberto Catanesi e Luigi Ferrannini la pubblicazione di parte degli atti per Giuffré, a promuovere una ricerca che mi ha fatto piacere ritrovare citata un mese fa nelle bozze ministeriali sulla contenzione e a fare intitolare a Belmondo un piazzale dal Comune di Genova.
Il lavoro ospedaliero comunque mi interessava poco, perché dopo averne tanto sentito parlare morivo dalla voglia di sperimentare l’accompagnamento della persona sul lungo periodo nel suo ambiente di vita; per fortuna una collega che era stata assunta poco prima aveva il desiderio opposto e Lino Pisseri, che dirigeva in quel momento tanto l’SPDC che il CSM, ci permise lo scambio. Già in ospedale conobbi in consulenza una coetanea, che sarebbe diventata la mia prima paziente al CSM. Poco dopo il passaggio vinsi il concorso da assistente; il rapporto con il SSN ora era fisso.
Fino ad allora conoscevo i CSM solo per le critiche che avevo sentito rivolgere loro da Antonio Slavich, con il quale avevo lavorato come studente volontario in ex OP dall’83 all’89, e dai professori della Clinica. Divisi su molto, erano uniti nel ritenere che, salvo rare eccezioni, nei CSM si lavorasse poco. Sapevo quindi soprattutto cosa da psichiatra del CSM non avrei dovuto fare, e in effetti quest’abitudine a considerare da fuori il mio lavoro mi è sempre stata di grande aiuto.
Nel CSM di Savona era ancora vivo il trauma della morte per suicidio del precedente primario, Gian Soldi, che aveva lasciato un ricordo di straordinaria sensibilità, generosità e dolcezza, e l’arrivo di questo giovane psichiatra “basagliano” come lui, entusiasta del nuovo lavoro e pieno di voglia di fare fu accolto con entusiasmo dagli operatori che gli erano più legati. Del servizio ricordo in particolare la “stanza dell’équipe” dove stavano tutti coloro che ne facevano parte, parlavano, telefonavano, scrivevano cartelle e relazioni. Gli ambulatori non erano personalizzati e venivano occupati solo per le visite; quando non c’era il paziente, la stanza rimaneva vuota. Al centro dell’organizzazione stava insomma il fatto di occuparsi di uno stesso gruppo di pazienti e di un territorio, e non la professione come sarebbe avvenuto di lì a qualche anno. Considero quest’impostazione d’équipe, con la stanza comune che ritrovai a Voltri ma poi non più, ottimale. Nel CSM dove lavoro adesso, costruito apposta per questa funzione, una grande stanza comune purtroppo non è stata prevista, e mi sembra un difetto già d’impostazione.
Ero affascinato dai casi e dagli interventi complessi, seguivo oltre agli altri una ventina di pazienti giovani affetti da psicosi ai quali volli realmente molto bene e sui quali puntai molto, che monitoravo periodicamente con la BPRS. A Savona si potevano fare moltissimi interventi domiciliari e c’era una grande possibilità d’inserimenti al lavoro, che venivano direttamente costruiti e gestiti dal CSM con i servizi sociali e con i datori di lavoro. Insomma c’era lo spazio per muoversi con la convinzione di poter trasformare concretamente le vite delle persone delle quali mi occupavo con una presa in carico forte, e puntare nel tempo a guarirle, anche le più gravi.
In quel periodo ricordo una simpatica paziente, che mi sembrava già di età ma doveva avere meno degli anni che io ho adesso, che commentando l’utilizzo moderato che facevo dei farmaci e il fatto che mi sforzavo sempre di stimolarla a usare tutte le sue capacità, osservò che io ci tenevo a vedere i miei pazienti “così, sempre un po’ sfrizzolini”, accompagnando queste parole con un sorriso complice e un buffo movimento del busto. Ricordo anche che in quegli anni Giovanni Giusto, che stava ponendo in quel periodo le basi di quella che sarebbe diventata poi una vera holding di strutture residenziali e in quella fase pioneristica stava giocando nella sonnolenta psichiatria ligure un ruolo propulsivo, mi disse di avere notato con sorpresa e curiosità che io non avevo mai avuto bisogno di inserire uno dei pazienti che seguivo nella residenzialità, e di apprezzare la tenuta del mio stile di presa in carico. E credo che fosse un’osservazione giusta; Slavich mi aveva insegnato a considerare ogni uscita anche temporanea di un paziente dalla vita reale (comune) per essere inserito in un luogo psichiatrico h24 con preoccupazione. Cominciai a rompere questo tabù dopo il trasferimento a Voltri, nel ’99, per scippare rocambolescamente all’ultimi momento un giovanissimo consumatore e spacciatore di cocaina a un destino già sicuro d’internamento in OPG.
Pensavo, e penso ancora, che prima di proporre a qualcuno l'inserimento in un luogo psichiatrico, bisognerebbe essere certi di avere le chiavi per farlo poi uscire, perché ho visto negli anni davvero molti pazienti che vi si sono perduti. Certo. però, per poter essere prudenti nell'utilizzo della residenzialità occorre uno stile di prea in carico caratterizzato da robustezza, continuità, propensione verso il sostegno a casa e la creazioni di soluzioni realmente intermedie tra il luogo di vita e il luogo di cura.     
Sempre nei primi anni savonesi, conobbi per la prima volta il dolore del suicidio di uno dei miei pazienti; era un uomo solo, sulla sessantina che soffriva di depressione. Come ogni psichiatra sa, il suicidio di un paziente è l'esperienza più brutta, il momento più doloroso in questo lavoro.
Il lavoro con i pazienti e i colleghi al CSM di Savona comunque mi entusiasmava a tal punto che in un anno, il ’93, rinunciai sia alla possibilità di un trasferimento a Genova, dove abitavo, che a quella di passare a intraprendere la ricerca universitaria, per proseguire lì.
Il servizio seguiva anche i tossicodipendenti, e ricordo che quando si decise la nascita del SerT avevo in carico una cinquantina di pazienti psichiatrici e una ventina di tossicodipendenti. Io avevo portato con me le novità nell’uso del metadone e del naltrexone che Giampaolo Guelfi, da poco rientrato da un viaggio negli Stati Uniti, ci insegnava durante le lezioni di Specializzazione, e buttavano all’aria laecune ferree regole che il CSM si era dato. Anche il lavoro con i tossicodipendenti mi piaceva: usavo lo stesso stile di lavoro che con gli altri, andavo a domicilio per trattare l’astinenza che allora si tentava di attenuare con clonidina, miorilassanti e benzodiazepine; e nel carcere di sant’Agostino, che era a due passi dal CSM, ma a volte anche a Pontedecimo, per non interrompere il ritmo delle visite. Mi interessava questo lavoro al punto che quando Pisseri chiese a me e a Nicola Franconieri, un neurofisiatra che era stato assunto insieme a me e a Paola Vanacore con il concorso di assistente, chi dei due volesse passare nel costituendo SerT, lasciai a lui la scelta. Nicola e Paola mi colpivano perché non avevano studiato psichiatria ma riuscivano a gestire anche situazioni difficili facendo tesoro dell’esperienza maturata nell’ambito delle guardie mediche, di naturali doti di apertura e simpatia e soprattutto del buon senso, una dote che in una psichiatria nella quale allora prevaleva largamente la teoria sulla pratica poteva essere trascurata. A volte chiedevano consigli tecnici a me e agli altri psichiatri, e si era creata tra noi un forte sodalizio per il fatto di avere iniziato il lavoro al CSM proprio contemporaneamente.
Erano gli anni nei quali l’AIDS era una novità e una malattia incurabile, e ricordo ancora con dolore tre pazienti alle quali ho voluto molto bene, che sono morte giovanissime per averlo contratto.
Poi nel ’94 furono costituite le grandi ASL e i DSM, Pisseri andò in pensione e la direzione del DSM di Savona fu assunta da Antonio Maria Ferro, con il quale cominciò una proficua collaborazione intellettuale, e dal quale ho imparato senz’altro molto.
Poco dopo vinsi il concorso per aiuto, a dirigere i quattro CSM giunse Lino Ciancaglini che poi avrei ritrovato a Genova. Era il momento della aziendalizzazione della sanità e nella nuova organizzazione del CSM gli spazi di autonomia si ridussero di molto. A Savona, al contrario che a Genova, l’aziendalizzazione ebbe un impatto brusco e forse un po’ troppo rigido. Fatto sta che la scelta era di passare dall’organizzazione in équipe a quella per gruppi professionali, che io ho sempre considerato disfunzionale, e insieme di perseguire una omologazione e standardizzazione dei trattamenti che appiattiva le differenze tra gli stili operativi individuali, che prima erano reciprocamente più o meno tollerate. Ne nacquero discussioni tra noi, come di solito solo in una famiglia possono avere luogo, intorno al trattamento dei pazienti più gravi e/o dei gravi disturbi della personalità.
Si trattava di trovare un accordo che lasciasse soddisfatte tutte le diverse sensibilità sulla Presa in carico – chi meriti la presa in carico, e quanto debba essere caso per caso larga e intensa – il che è, come ho avuto occasione di ricordare intervenendo alla recente Conferenza nazionale (vai al link), un elemento centrale nella vita di un gruppo di lavoro ed è un obiettivo difficile da realizzare per ogni équipe.  
In quella fase trovai conferma che a volte è necessario avere una posizione istituzionale di  forza per poter sostenere le proprie idee. Non che disponendo del potere inteso in senso gerarchico tutto fili liscio, certo; perché è possibile che nel gruppo prevalgano comunque spinte corporative di segno contrario ed è sempre comunque necessario convincere più che vincere. 
Fu allora che maturai, credo, uno stile di leadership che prevede che occorre fissare alcuni principi fondamentali nei rapporti di potere tra operatori e pazienti e cercare di esigerne con forza il rispetto, ma per il resto occorre lasciare una certa flessibilità per gli stili individuali di presa in carico e uno spazio (quanto? È questo il problema…) perché ciascuno possa sentirsi libero di perseguire la sua strada, seguire la sua vocazione e trarne le relative soddisfazioni.
Ma certo trovare un giusto equilibrio non è facile.
In quel caso, mi parve che il fatto di trovarmi in una posizione istituzionale di svantaggio rendeva inutili i miei sforzi e rischiava di mettere in difficoltà dentro il gruppo gli operatori che condividevano la mia linea, e forse poteva avere ricadute negative anche per i pazienti al centro delle discussioni.
Così le cose come ricordo di averle vissute allora io; altri le avranno vissute senz'altro in modo diverso. Tutti, forse, ci abbiamo messo in quel momento troppe emozioni. 
In ogni caso, presi la decisione di accettare la proposta di Antonio Ferro di spostarmi in SPDC, anche perché lì mi attirava l’idea di portare avanti con lui un lavoro di riorganizzazione del reparto secondo i criteri della psicoterapia istituzionale (Ferro è stato allievo di Paul-Claude Racamier e di Salomon Resnik) e quella di un monitoraggio e una minimizzazione della contenzione per la quale mi voleva con lui dopo aver apprezzato un mio articolo su Belmondo. Nei due anni che rimasi, vidi il reparto cambiare decisamente in meglio, ma l’aver lasciato il CSM faceva venire meno per me la motivazione principale a lavorare a Savona, che consisteva nel desiderio di non interrompere il lavoro che stavo facendo con quei pazienti.
Verificai tra l’altro che il ritmo che imprimevo al mio lavoro al CSM non era possibile in ospedale, dove c'erano tempi morti nei quali occorreva essere presenti se qualcods di significativo fosse accaduto, ma spesso non accadeva. Ebbi modo così di portare avanti tra l'altro il lavoro di ricerca per il libro di storia della psichiatria ligure che poi pubblicammo con Emilio Maura, un primario genovese al quale mi aveva presentato Pisseri perché proseguissi con lui il lavoro storico che loro avevano iniziato insieme, e anch’io stavo coltivando in quello stesso momento con Pier Augusto Gemignani. Ne uscì il volume Lo splendore della ragione. Storia della psichiatria ligure nell’epoca del positivismo (vai al link).
Ricordo un viaggio in autostrada in quel periodo, nel quale mi si presentavano uno per uno i volti dei pazienti che stavo per lasciare e piansi per tutto il percorso. Presi comunque contatto con Luigi Ferrannini – con il quale negli anni successivi abbiamo condiviso un confronto in certi periodi anche quotidiano, progetti, viaggi e pubblicazioni – e, quando fu possibile uno scambio di compensazione, mi trasferii a Genova, dove negli anni savonesi avevo sempre continuato ad abitare.
Tra Savona e Genova, dovendo smaltire alcuni periodi di ferie, colsi l’occasione per uno stage di due settimane a Trieste, un’esperienza che, pur breve, considero comunque fondamentale nella mia formazione (vai al link).
A Genova approdai all’ex OP di Cogoleto, ormai in fase avanzata di chiusura (vai al link) e anche da questo secondo passaggio per il manicomio, questa volta da psichiatra, ho appreso molte cose.
Tra le cose che mi attiravano a Genova c’era la possibilità di partecipare al lavoro di consulenza in carcere per conto della ASL che era una delle prime esperienze nazionali di assunzione dell’assistenza psichiatrica da parte del SSN e anticipò di dieci anni il passaggio della salute mentale in ambito detentivo al sistema sanitario che ebbe poi luogo in tutta Italia con il D.P.C.M. 1 aprile 2008. Per dieci anni quella nel carcere è stata per me un’esperienza molto importante, un nuovo contatto con l’istituzione totale dopo Quarto e Cogoleto che, come scherzando amavo dire, contribuiva per meno del 10% al mio stipendio e per oltre il 90% ai miei problemi sul lavoro.
L’altra spinta verso Genova era data dal desiderio di passare a lavorare direttamente con Ferrannini all’interno di un grande progetto del quale avevo inteso vociferare di intervento socio-sanitario integrato con coinvolgimento del terzo settore per il Centro storico, progetto peraltro che Ferrannini mi sconsigliò; e devo ringraziarlo perché a vent’anni di distanza quel progetto non è ancora partito. Altre ipotesi che furono ventilate riguardavano allora una struttura residenziale poi mai realizzata a Recco, una realizzata ma con caratteristiche diverse da quelle che sarebbero interessate a me che avevo presenti i Centri crisi del Savonese, a Bolzaneto, o la psicogeriatria.
Invece continuai per qualche mese a lavorare contestualmente al CSM di Voltri, dove tra l’’altro avevo ritrovato Massimo Valeri, il caposala col quale mi ero trovato molto bene nel padiglione di Cogoleto, e alla residenzialità che era nata nell’area dell’ex OP, con Ciancaglini, per poi spostarmi sempre sotto la sua direzione al CSM di Sestri Ponente con compito di coordinamento delle attività riabilitative e del Centro diurno di via Sestri.
E certo Sestri Ponente non ha il fascino del Centro Storico,ma ha la fierezza di una compatta tradizione operaia che può essere il terreno più favorevole a una presa in carico del problema psichiatrico nella quale la comunità fa la sua parte.
A Voltri il clima era vicino a quello che avevo incontrato all’inizio a Savona, mentre a Sestri il modello di CSM era diverso, più medico direi. All’inizio mi stupì, in particolare, che i medici usassero restare a porta chiusa negli ambulatori anche quando non c’era il paziente.
Anche nel caso del Centro diurno come in quello del CSM, era importante il fatto che la mia conoscenza della situazione nascesse da fuori, dalla posizione che il linguaggio aziendale chiama del “cliente interno”. Ricordavo le difficoltà incontrate dal CSM quando proponevo l’inserimento di un caso più complesso (per acuzie psicopatologica, doppia diagnosi, disturbi di personalità, questioni penali ecc.) e in particolare ricordo che mi aveva colpito in un’occasione una riunione alla quale ero stato invitato per presentare un caso. Venivo da una mattinata particolarmente convulsa al CSM e alla riunione del Centro diurno l’équipe mi lasciò allibito discutendo oltre un’ora del fatto che la psicologa aveva consentito a un paziente l’uso del telefono della struttura per fare una telefonata personale. Pareva che si parlasse della famosa “linea rossa” con la quale il presidente degli Stati Uniti comunicava con quello dell’Unione Sovietica, e mi resi conto che lo scarto tra i ritmi di lavoro e il livello di sofisticazione al CSM e al Centro diurno era davvero impressionante.
L’assunzione da parte mia della responsabilità del Centro diurno fu preceduta da un viaggio in treno, di ritorno da Milano dove ci eravamo incontrati per caso a una conferenza di Norman Sartorius, con Ciancaglini. Il discorso cadde appunto tra l’altro sui Centri diurni, e scoprimmo che le critiche che portavamo a come funzionavano in Liguria in quel momento erano le stesse (più tardi, documentandomi, mi resi conto che si trattava anche delle stesse che Cocchi e De Isabella in quel periodo portavano a quelli che chiamavano i “Centri diurni degli anni ’80”).
Al Centro diurno Ciancaglini mi diede la possibilità di impegnarmi al 50% dell’orario (per il resto avrei fatto il lavoro al CSM e le guardie in ospedale come gli altri), mi chiese di stilare un progetto che fu discusso tra noi e poi con le équipe dei due CSM afferenti e, sulla base di esso, permise a un piccolo gruppo di operatori di autoselezionarsi per lavorare al Centro part time (per il resto rimanevano al CSM). Quindi si trattava di un’équipe selezionata ad hoc, una condizione evidentemente privilegiata e quasi impossibile da incontrare nel servizio pubblico, quasi tutta formata da soggetti che, come me, avevano esperienza dei centri diurni solo dal di fuori. In qualche caso avevano un’esperienza precedente che è stata preziosa (le ricche formazioni con Ferro al CSM di Finale L., o le prime esperienze di case-famiglia a partire dall’O.P. di Cogoleto).
Quella del Centro di via Sestri è stata per me un’esperienza avvincente, della quale sono molto grato all’équipe che l’ha condivisa, alla quale sono consapevole di avere chiesto davvero molto, nonché ai pazienti, tirocinanti e volontari.
Il nostro progetto, che per la mia parte si ispirava soprattutto al mio stage a Trieste, buttava all’aria tutti i dogmi sui quali in quel momento riposavano i Centri diurni genovesi: équipe mista con il CSM; nessun limite né di ordine quantitativo né qualitativo all’accesso, privilegiando semmai come è giusto che sia le situazioni più complesse; massima proiezione verso le realtà istituzionali e associative del territorio, che a Sestri P. ne era davvero ricco; massimo impegno per garantire all’interno un clima informale e famigliare volto alla deistituzionalizzazione, il che è il punto rispetto al quale l’équipe ha conosciuto come sempre avviene momenti di conflitto; lavoro per obiettivi, progetti, verifiche con una fedeltà a questo modello che vista a posteriori può apparire persino un po’ buffa, ma in quella fase serviva da elemento ordinatore; ricerca del coinvolgimento dei familiari; sperimentazione di nuove tecniche riabilitative, in particolare sul versante cognitivo-comportamentale; autoaiuto.
Si è trattato per me di un nuovo inizio, nel quale ritrovavo l’entusiasmo dei primi anni a Savona, e di un’esperienza che ricordo con grande piacere. Ne ho scritto  molto, e quindi non ritorno qui sui particolari. Fu un lavoro di coordinamento che poi negli anni hanno proseguito, ciascuno con il proprio stile ovviamente diverso dal mio, Alessandro Fasce, Lucia Valentini e Rossana Borsi.
E quando, nel 2009, al concorso da primario mi fu chiesto se avevo già avuto esperienze nel coordinamento di un gruppo di lavoro, ebbi appunto la possibilità di esporre quella.
Anche quando divenni primario del CSM del distretto 9, quello nel quale lavoravo da dieci anni, ho redatto un progetto, che rivedendolo oggi fa un po’ sorridere, perché era davvero ambiziosissimo e non è stato possibile realizzarlo se non in minima parte. Ma forse, è proprio necessario gettare il cuore molto lontano oltre l’ostacolo perché poi i piedi facciano i pochi passi avanti che possono… Si trattava anche qui, tra i principali obiettivi, di praticare la deistituzionalizzazione e diffondere la cultura per cui il “servizio” pubblico si chiama così perché chi vi lavora deve sentirsi al servizio, cioè proprio servo, dell’utente, mentre le difese individuali e di gruppo spingono costantemente in direzione contraria. Di lavorare per il rientro dei pazienti più gravi dall’OPG, un compito che mi era già stato affidato negli anni precedenti da Ciancaglini e rispetto al quale abbiamo ottenuto importanti risultati, con almeno una dozzina di progetti di dimissioni che ho direttamente gestito nei dieci anni precedenti il 2015. Di non fare crescere il tasso di residenzialità, che stava crescendo ovunque in Liguria e già in partenza lì era il più basso della città, soprattutto cercando di realizzare delle dimissioni (rispetto a questo, ricordo di avere trascinato due pazienti istituzionalizzate entrambe da oltre dieci anni con le rispettive famiglie e due infermieri più volenterosi in un esperimento decisamente un po’ velleitario, per il quale non so se oggi avrei il coraggio, che però ha permesso almeno a una delle due di trascorrere poi gli ultimi anni in famiglia, e all’altra almeno di fare un tentativo di uscire). Di mantenere alta la disponibilità del servizio ad andare nelle case. Di lavorare sull’accoglienza degli stranieri, in una zona dove quelli formalmente presenti sono già intorno al 7% della popolazione, e dove sono state aperte, per i bassi costi di locazione, molte delle strutture di accoglienza della città. Di lavorare in modo integrato con il SerT, con il quale mi pare che si sia effettivamente sviluppata col tempo una buona collaborazione. E poi invece le cose sulle quali si è riusciti a fare meno passi avanti, o quasi nessuno: ridurre i ricoveri ospedalieri, promuovere l’inserimento al lavoro, che però era e rimane a Genova molto difficile, promuovere l’associazionismo tra pazienti e tra familiari. O quelle che non è stato possibile realizzare per niente, come un programma di affidamento eterofamigliare di pazienti in uscita dalla residenzialità.
Ho così verificato che, velleità a parte, dare autenticamente voce all’utenza senza fastidiosi paternalismi è difficile in psichiatria, e questo certo in parte dipende dal vizio di noi operatori di tenere il potere stretto. Ma credo che dipenda anche da un dato oggettivo, rispetto ad altre aree dove l’associazionismo è più forte, che consiste nel fatto che le malattie mentali non sono di per sé malattie croniche, e chi soffre di disturbi più lievi o chi guarisce se ne va e non gradisce guardare (comprensibilmente) indietro a quel brutto momento della sua vita, e ciò vale per pazienti e famiglie.
Così rimane con noi solo chi spesso ha già troppe difficoltà individuali e immediate da affrontare, per trovare la fiducia e il tempo per farsi carico anche di istanze collettive.
Nella mia interpretazione del ruolo primariale, ho sempre pensato di non dover interrompere del tutto l’attività clinica, che continua a incuriosirmi e appassionarmi. Non credo che possa guidare, in psichiatria come in chirurgia, un gruppo di persone che fanno una cosa, la cura, chi ha smesso da tropo tempo di farla direttamente. Ma certo, fare il primario essendo il terminale di tutti i problemi posti dall’attività istituzionale e dalla propria attività clinica, in più dei più seri di quella degli altri è faticoso. In casa ho il quadro di una caccia al cinghiale nella quale l’animale è assalito da ogni lato dai cani, e a volte mi sento proprio come lui, assaltato da più lati contemporaneamente dai problemi.
Intanto, condividevo con Ferrannini l’idea che si dovesse andare verso una ulteriore riduzione del numero di strutture complesse del dipartimento (il che avrebbe dovuto generare un numero maggiore di strutture semplici, però), e insieme quella di dare vita anche a Genova a strutture miste ospedale-territorio. Così, nel 2012 come se i problemi al CSM non bastassero, feci sì che la mia divenne la prima struttura mista a Genova, che comprendeva anche l’SPDC dell’Ospedale padre Antero che diressi per un anno.
Ritornare all’ospedale tanti anni dopo Savona mi ha riproposto le solite questioni: promuovere la deistituzionalizzazione e la cultura comunitaria, il che in ospedale è molto più difficile e apre spesso conflitti più aspri; e combattere la pratica della contenzione meccanica, soprattutto.  A partire dal tenerne il conto, e dal problematizzare ciascuna di esse con il gruppo di lavoro.
Lo stesso anno, con Ferrannini e con Gabriele Cipresso, che era responsabile f.f. del vicino SPDC di Villa Scassi, iniziammo a lavorare a una diversa organizzazione degli SPDC del ponente genovese, a partire soprattutto dal fatto che il Padre Antero sarebbe divenuto per decisione superiore un ospedale depotenziato, e in particolare privo di DEA. Si stabilì così che l’SPDC del padre Antero divenisse un Servizio Psichiatrico di Cura e Riabilitazione (SPCR), una nuova denominazione solo ligure per la quale mi sono fortemente battuto perché la nuova istituzione avesse, almeno nel nome, pari dignità con l’SPDC; e perché mantenesse, con una regolamentazione specifica rispetto ai ricoveri riabilitativi delle altre specialità, la possibilità di ingressi diretti, per i pazienti idonei, dai CSM, .con un modello il più simile possibile a condizioni logistiche date al CSM h24, almeno per la mia unità operativa.
Al di là delle necessità contingenti, mi pareva che la cosa presentasse alcuni vantaggi. In primo luogo, rispondeva all’osservazione che avevo fatto fin dai miei primi passaggi in ospedale che non tutti i pazienti dell’SPDC necessitano dei livelli di sicurezza, e inevitabilmente di compressione della libertà quindi, di un luogo pensato per l’acuzie. Mi pareva invece che circa un terzo potesse farne a meno e giovarsi di un ambiente più normale e più aperto, che avrebbe potuto trovare appunto nell’SPCR. Poi, la soppressione di uno dei 4 SPDC genovesi consentiva di recuperare in piccola parte lo squilibrio ospedale-territorio della città, con la soppressione di un punto-guardia e quindi il recupero di circe 900 ore mediche (cioè mezzo medico) per ciascuno dei 6 CSM.
Certo, eravamo consapevoli che c’erano anche svantaggi, legati al fatto che l’operazione avveniva nel ponente della città, già molto svantaggiato per posti letto ospedalieri per acuti; che inevitabilmente concentrava i casi di più difficile gestione dei due SPDC in uno, caratterizzato per giunta da una logistica senz’altro infelice; che il livello di complessità dei casi trattati in SPCR sarebbe stato variabile, perché determinato dalla pressione sul SPDC, e avrebbe quindi potuto essere in alcune fasi abnormemente elevato. Indubbiamente, poi, il funzionamento di questo sistema richiedeva una forte fiducia e una quotidiana sinergia tra i due Servizi ospedalieri, che partivano da una tradizionale di rivalità quasi derbystica. Così Cipresso, scherzando, mi diceva a volte di trascorrere in quel periodo più tempo al telefono con me per far funzionare con uno sforzo soggettivo da parte di entrambi le cose, di quanto ne passasse con sua moglie.
Si è trattato insomma di un progetto molto complesso, che ha richiesto sacrifici da parte di tutti noi e dei CSM afferenti, potentemente innovativo e realizzzato del tutto a costo zero, che non ha forse trovato tytta la valorizzazione che avrebbe meritato.
Certo, riflettendoci a posteriore i problemi in questo esperimento non sono mancati, ma forse la ricompensa alla fatica di entrambi i gruppi di lavoro nel farlo funzionare sta nelle parole dei pazienti ricoverati in SPCR che, soprattutto all’inizio, insistevano molto durante le riunioni sul sollievo che dava loro la possibilità di essere curati in un ambiente senz’altro più vivibile rispetto a prima. Un bilancio ancora interlocutorio, dunque, che credo che potrebbe migliorare con un aumento dei posti letto a disposizione del sistema e la possibilità quindi per l’SPCR di perseguire con più decisione la sua vocazione comunitaria e riabilitativa, e il trasferimento del SPDC in spazi più adeguati.
In trent’anni, dunque, molte cose sono cambiate nella psichiatria genovese e italiana, e a qualcuno di questi cambiamenti sono contento di aver potuto, nel mio piccolo, contribuire.
La domanda ai DSM e aumentata molto, e ora si lavora decisamente di più. L'equilibrio  tra fare e pensare in psichiatria si è spostato così ora verso il fare, forse anche troppo.
Alcune importanti rimozioni dei servizi di trent'anni fa sono state risolte. I pazienti che erano rimasti negli OP sono stati tutti ricollocati, già nel '99. I  detenuti sono assistiti dal SSN come è giusto che sia, anche se l'investimento in molti casi non è ancora  sufficiente. Gli OPG sono stati chiusi ed era giusto che lo fossero perc evitare il paradosso che proprio i casi spesso più complesi fossero fuori dal circuito.
In questi trent'anni sono stato spesso il più giovane nei diversi contesti dove mi muovevo; quando la psichiatria ligure si è data nel 1993 una nuova rivista, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, sulla quale poi ho pubblicato oltre 40 articoli ad alcuni dei quali tengo molto, io ero stato invitato da Gianni Giusto, su presemtazione di Pisseri, a fare parte del gruppo fondatore, ed ero di gran lunga più giovane degli altri.
Quando sono stato eletto segretario regionale della Società Italiana di Psichiatria nel 2002, ero il più giovane segretario regionale in Italia e sono rimasto a lungo il più giovane negli organismi nazionali, a parte ovviamente il rappresentante dei giovani. Da allora la SIP mi ha dato ottime opportunità di conoscere persone che stimo, e dalle quali mi sono sentito stimato; e mi ha consentito di concentrare l’attenzione della sezione regionale sui temi a me più cari, la prevenzione della contenzione della quale ho detto, la psichiatria in ambito penitenziario (tra gli altri invitammo lo svizzero Bruno Gravier e il francese Jean Louis Senon, del quale poi curammo con Ferrannini l'edizione italiana del volume sulla salute mentale in ambito penitenziario), la doppia diagnosi, la riabilitazione o l’autoaiuto. Certo, non nascondo che negli ultimi anni mi è capitato anche lì come altrove di sentirmi a volte un pesce fuor d’acqua, rimasto legato a un tempo nel quale ci si poneva domande e si affrontavano più scrupoli prima di passare a fare le cose, e non sono mancate a volte lincomprensioni e amarezze.
Nel 2003, nell’unico volume che la sezione ha pubblicato nella sua storia, per i 25 anni della Legge 180, scrivevo della psichiatria che vorremmo come di una psichiatria equa, capace cioè di concentrare le risorse sui più gravi; unita tra tra i diversi luoghi secondo le esigenze della continuità terapeutica e tra le diverse professionalità secondo il modello di équipe; aperta verso il resto della sanità e verso il territorio; attenta a evitare l’istituzionalizzazione delle pratiche e alla voce dei pazienti; onesta, cioè capace di contare e rappresentare le cose che fa, quelle che non fa e dovrebbe fare, o quelle che fa e non dovrebbe fare, la contenzione innanzitutto; flessibile nelle soluzioni che offre; rispettosa e robusta, il che non deve essere considerato un ossimoro, nelle proprie prese in carico. Credo che negli ultimi quindici anni qualche passo avanti si sia fatto relativamente ad alcuni di questi punti, ad altri no.
Nel 2005 ho avuto l’opportunità di condividere con un gruppo di dirigenti della SIP guidato da Carmine Munizza, a molti dei quali rimango intellettualmente e personalmente legato, un Documento sulle prospettive della psichiatria italiana, pubblicato su “Psicoterapia e scienze umane” e “Psichiatria di comunità”, che considero ancora attuale nei contenuti.
La mia idea di SIP a livello regionale è quella di un’associazione privata tra psichiatri, che non ha senso se riproduce gli stessi assetti di potere dei dipartimenti e della clinica. Quando sono entrato nel direttivo regionale nel 1999 come consigliere, eravamo due aiuti su una dozzina; quando ho lasciato la segreteria regionale otto anni dopo, nel direttivo regionale c’era un solo primario, in rappresentanza di questa che tra gli psichiatri è una minoranza. Naturalmente questo ha lasciato qualcuno scontento. A livello nazionale, io credo che la SIP debba rispondere al mandato istituzionale di sforzarsi di rappresentare tutta la psichiatria italiana nelle sue diverse componenti, comprese quelle che diffidano di lei (e a volte non senza ragione), e nei diversi orientamenti, e non dovrebbe mai porsi come una parte contro altre se davvero vuole essere considerata una società scientifica rappresentativa di tutta la psichiatria italiana, e non vuole abusare del suo nome, che appunto rimanda a tutto ciò che è "italiano" e "di psichiatria".
Quando sono stato nominato primario nel 2009, ero il più giovane primario psichiatra in Liguria; ed ero il più giovane psichiatra del mio gruppo di lavoro. Ora sono quello di più vecchia nomina a Genova, e mi capita sempre più spesso di essere tra i più vecchi nelle riunioni cui partecipo.
Questo ribaltamento di prospettiva certo fa impressione.
In sintesi, mi pare che il mondo della psichiatria mi abbia accolto fino a una certa fase della vita – diciamo fino alla metà dei quaranta – con particolare indulgenza, incoraggiamento, davvero molto credito; e anch’io allora guardavo il mondo con la speranza che cambiasse in meglio…
Per molti anni ho goduto di una fiducia, un affetto quasi generalizzati e infondo a guardarli ora sorprendenti, molto eterogenei, da sinistra e da destra, dall’università e dai servizi, dal pubblico e dal privato, in Liguria e fuori. Le persone che hanno accompagnato con benevolenza e fiducia la mia crescita umana e professionale, di alcune delle quali sono stato incerto se fare qui i nomi, ora sono quasi tutte in pensione, e qualcuno non c’è proprio più.
Il mondo intorno a me è cambiato, e il mio rapporto con i coetanei oggi mi pare più difficile, ma forse è normale che sia così.
Sento piuttosto di ritrovare ora spesso lo stesso atteggiamento benevolo che avvertivo da giovane all'interno del mio gruppo di lavoro, o tra gli storici della psichiatria, e questo mi fa piacere.
E certo ora dopo trent’anni di lavoro capisco che non sono più il ragazzo da guardare con benevolenza, e le scelte sulle quali devo confrontarmi con i colleghi non riguardano più solo come curare la singola persona, ma hanno spesso implicazioni politiche ed economiche che ci trascendono.
Sento lontani, insomma, i tempi nei quali Romolo Rossi, incontrandomi in corsia, mi sfotteva bonariamente chiamandomi “o me comunista”… Adesso sento che si scherza meno su queste cose.
Ma nonostante tutto mi pare che siano cambiate poco le idee e le speranze con le quali, trent’anni fa, un ragazzo cominciava questo lavoro. Sono tanti i visi e i nomi di pazienti, di colleghi, che mi sono scorsi davanti mentre scrivevo questo pezzo; qualcuno non c’è più, ed è stata per me l'occasione di un ricordo.
E per noi che ci siamo ancora… beh, parrà retorico ma anche trent’anni dopo credo che sia importante, ogni volta che si può, riprovarci – con un po’ di sapere e di esperienza in più certo – ma con la stessa passione dell’inizio. Confesso che non sempre però ci riesco.

       

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