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La scienza da sola non può curare una società malata

19 Set 21

A cura di Sarantis Thanopulos

Jay S. Kaufman, professore nell’Università McGill ed ex presidente della Società per la Ricerca Epidemiologica, ha scritto il 10 Settembre un articolo su N.Y Times: “La scienza da sola non può curare una società malata”. Già il titolo è un’“evidenza” fondata sull’osservazione imparziale (di cui solo il desiderio è capace) e sul pensiero critico (l’interpretazione rigorosa dei dati osservati), non sul pensiero cieco che più si perde nei calcoli, più non capisce niente. Kaufman rievoca la figura di Rudolf Virchow, allora ventiseienne patologo inviato a investigare un’epidemia di tifo nell’Alta Silesia nel 1848. Dopo un’osservazione di tre settimane stilò un rapporto in cui assegnava la colpa alla povertà e all’esclusione sociale. Se fossero cambiate queste condizioni l’epidemia non si sarebbe ripetuta. Riassunse la sua visione in questa frase: “la malattia di massa significa che la società è scombussolata”.

Parole lungimiranti che Kaufman fa sue: “Per restaurare la fiducia nella scienza, deve esserci fiducia nelle istituzioni sociali. Il problema reale è che le società malate hanno istituzioni malate. E per questo che otto giorni dopo la sua investigazione Virkow è andato a Berlino sulle barricate per lottare per la rivoluzione.” Ora, come allora, la questione resta la stessa: senza una sua profonda, rivoluzionaria, trasformazione la nostra società resterà prigioniera di epidemie/pandemie ricorrenti, di dissesti ambientali sempre più catastrofici e irreparabili, di restrizioni della libertà dettate dalla necessità, di precarietà economica, affettiva e relazionale, di inaridimento culturale e umano. Si vivrà in uno stato d’assedio fisico e psichico (foriero di depressione e paranoia) permanente.

Come è del tutto evidente, il conflitto non prende la strada che dovrebbe essergli propria -scontro tra democratici trasformatori e oligarchici nichilisti- ma si disperde altrove. La polemica sul “negazionismo”, ha finito per polarizzare due assetti difensivi (il ritiro e il diniego). La contrapposizione, ora, tra pro-vax e anti-vax è altrettanto polarizzante e fuorviante. Da una parte si pensa che vaccinandosi “tutto tornerà come prima”. Poco importa se quel “prima” era già malato e l’“ora” è un sintomo dell’aggravarsi della malattia. Dall’altra parte ci si ribella alla restrizione della propria autodeterminazione e si sostiene che il vaccino è dannoso e/o inutile, senza alcuna prova valida a favore di questa convinzione. Si confonde il farmaco con la malattia. Viene meno l’esigenza di contenere il sintomo (che a volte può diventare di per sé fatale) per poter respirare.

Presi dall’invasività psichica del sintomo disconosciamo la malattia. Le restrizioni della libertà sono inevitabili se non rimuoviamo lo stato di perenne emergenza (preesistente all’attuale pandemia). Il bisogno di un nemico concreto della libertà ci impedisce di vedere che la restrizione è il frutto finale di processi sociali impersonali.

La malattia della nostra società è innanzitutto psichica. Soffriamo da molto prima del covid di instabilità emotiva, di impulsività (che ci porta alla coazione a scaricare le emozioni con comportamenti rispettivi di natura soprattutto aggressiva), di desolazione affettiva, di depressione della femminilità, di priapismo psichico, di persecutorietà nei confronti degli altri che percepiamo ostili. Non siamo in grado di elaborare le perdite e viviamo in fuga dal lutto. In queste condizioni non siamo capaci di mettere a fuoco i nostri reali interessi né, tantomeno, prenderne cura. La malattia non la cureremo con la psicoanalisi della società, ma eliminando le cause sociali che l’hanno determinata: la globalizzazione dello sfruttamento come regola degli scambi, l’immiserimento della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, la trasformazione della tecnologia da strumento logistico a norma della nostra esistenza.

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