Silvio Brambilla[1] (1907-1992), medico psichiatra della scuola milanese di Carlo Besta. Attivo dagli anni ’30 agli anni ’70 del Novecento, fu tra i pochi psichiatri italiani del suo tempo che discussero ad alta voce coniugando colonialismo, costituzionalismo, razzismo, eugenetica. In particolare, sulla base dell’esperienza condotta da dirigente dei servizi sanitari per la popolazione indigena in Eritrea negli anni 1936-37, raccontò le finalità e il senso delle ricerche di psichiatria coloniale negli articoli Rilievi psicopatologici nelle popolazioni dell’ Impero. Pensiero arcaico-primitivo e malattia mentale,[2] e in Problemi di psichiatria di razza[3], sotto l’egida del Centro di studi di genetica umana di Milano[4].
Nel secondo saggio citato Silvio Brambilla denuncia la scarsità di conoscenze di psichiatria comparata delle razze e di contributi alla soluzione dei principali problemi psicopatologici, una lacuna grave perché “l’organizzazione e la valorizzazione di un vasto e popoloso Impero coloniale come quello di Etiopia necessita la conoscenza non solo delle caratteristiche geografiche e delle riserve economiche dello stesso, ma anche e soprattutto quella del suo elemento uomo. Decine di milioni di uomini rappresentano un patrimonio inestimabile il cui rendimento però è condizionato da un intelligente sfruttamento delle capacità produttive del singolo individuo in un piano di lavoro funzionalmente coordinato”.
Di qui l’utilità della psichiatria di razza fra i cui compiti era quello “di stabilire sistematicamente, nel mondo dei fenomeni psichici, quei dati obbiettivi che, non disgiunti da quelli somatici, debbono servire a discriminare quello che è fenomeno razziale da quello che è fenomeno strutturale o processuale: a sfrondare, liberare da tutte le componenti costituzionali, storiche e ambientali il vero nucleo del processo psicopatologico. È lo studio delle cause determinanti la fisionomia del quadro morboso in funzione dell’ambiente, della storia e del grado di civiltà di quella razza, o meglio della popolazione della quale è la costituente prevalente”. Al riguardo cita Kraepelin per il quale “le caratteristiche di un popolo […] dovranno rivelarsi nella frequenza e nel tipo dei suoi disturbi mentali, in specie quelli di natura endogena”. Ma non era facile precisare quanto era caratteristica etnica e quanto invece veramente abnorme nelle manifestazioni dello spirito, e ciò tanto maggiormente se allontanandosi dalla propria si va verso razze inferiori.
In particolare:
- Le basi di una psicopatologia di razza non erano ancora state gettate a causa delle diversità fra gli indirizzi scolastici della psichiatria moderna e delle divergenze metodologiche fra le scuole italiana, tedesca, francese, anglosassone
- Compiti della psichiatria razziale erano discriminare il fenomeno razziale da quello strutturale e processuale e liberare il nucleo del processo psicopatologico dalle componenti costituzionali, storiche e ambientali.
- Era necessaria una profonda conoscenza preliminare della psicologia di razza- “chi come lo scrivente ha avuto occasione di avvicinare le popolazioni dell’Impero, sa bene quanto sia difficile tenere un discorso anche semplice con l’indigeno e come l’intermedio di un interprete, anche valente, sia quasi di nessuna utilità quando, dal ragionamento concreto, si tenti di passare, anche appena sfiorandolo, a qualche concetto astratto: e questo proprio per la struttura concreto- elementare della mentalità primitiva. […] Grandi e profonde sono le divergenze che esistono nella struttura della “personalità normale” in individui di diversa razza. Cita Gans che aveva confutato le tesi di Kraepelin per il quale nelle popolazioni di Giava sarebbero mancate le sindromi melancoliche, il suicidio, le idee di colpa e più frequenti sarebbero stati gli stati maniacali i quadri di agitazione confusionale, e rare le idee deliranti. Al riguardo Brambilla aveva osservato nelle popolazioni eritree “casi sicuramente schizofrenici, tipiche manifestazioni deliranti, idee di colpa, negativismo, stupore catatonico ecc.”
- Uno dei problemi più immediati era “se cioè esistano malattie mentali esclusive di una sola razza e se le malattie mentali, quali le definiamo coi comuni criteri nosografici, siano tutte reperibili in tutte le razze”, un problema aperto (col perfezionarsi e l’estendersi dei mezzi diagnostici, specie di laboratorio, anche la lue nella sua forma paralitico-demenziale è ovunque reperibile, così è da presumere che almeno per le altre malattie mentali a sicuro fondamento organico si arriverà a risultati analoghi. […] E’ comunque necessario ricercare sempre anche quelle che possono essere le eventuali cause organiche per non incorrere nell’errore di interpretazione esclusivamente psicologica commesso a suo tempo per la paralisi progressiva. Se si accettava allora che nessuna razza potesse essere assolutamente refrattaria alle malattie specifiche di un’altra, il problema più suggestivo diventava quello della frequenza e dell’intensità del manifestarsi delle singole forme, in altre parole quello della disposizione.
- Esisterebbero differenze razziali nelle particolari strutture cerebrali che presiedono, o sono necessarie, alle diverse attività psichiche, le quali spiegherebbero il diverso psichismo delle razze e le sue anomalie. Ma, a parte che tali differenze anatomiche non sono facilmente dimostrabili e che il processo psichico globale non si lascia ancora localizzare in una determinata sede cerebrale, un tale reperto avrebbe, se convalidato da ulteriori ricerche un’importanza enorme per lo studio dei rapporti intracerebrali, dato il diverso valore che vanno assumendo oggidì le varie strutture del cervello come la corteccia, il tronco e i nuclei della base nelle manifestazioni psichiche normali e patologiche. Ma anche il resto del soma, colle radicali che offre alla struttura della personalità psichica, quali il sistema neuro-endocrino e i fattori costituzionali, va assumendo alla luce delle dottrine biopsicologiche sempre più importanza e lo studio comparato, nelle diverse razze, dei rapporti fra costituzione e manifestazioni psichiche, porterebbe a interessanti reperti. Sono infatti riconosciuti nella grande razza europoide rapporti esistenti fra le psicosi endogene e la struttura corporea (Kretschmer). Più costanti sarebbero quelli fra struttura picnica e psicosi maniaco-depressiva; meno certi quelli esistenti tra struttura leptosomica e schizofrenia. Così pure è acquisizione comune che esista un certo parallelismo tra razza nordica , struttura leptosomica e schizofrenia da una parte e razza meridionale-occidentale, struttura psichica picnica e ciclotimia dall’altra. Sarebbe dunque interessante, anche nell’ambito di altre grandi razze, specie primitive, accertare se esistono rapporti dello stesso tipo fra costituzione e personalità psichica quali si osservano nell’europoide.
- Il concetto di costituzione, intesa come l’espressione delle reazioni del genotipo alle condizioni ambientali, può assumere, nell’ambito della stessa razza, un singolare valore ed essere applicabile alla soluzione di difficili e importantissimi problemi psicopatologici, ad esempio quello della schizofrenia. […] Dalla predisposizione intesa come substrato biologico vanno invece tenuti distinti altri fattori che possono determinare la maggiore o minore diffusione di una forma morbosa. Tali fattori possono essere rappresentati anche semplicemente da usi e costumi, da migrazioni, da emancipazione od assunzione di nuove forme culturali. Come infatti presso molti popoli primitivi vediamo il matrimonio seguire principi favorevoli alla discendenza e malati pericolosi ed aggressivi venir direttamente uccisi, così altrove limitazioni spaziali e interessi spaziali e interessi sociali o di casta tendono a favorire incesti e matrimoni consanguinei coi noti effetti deleteri sulla discendenza se in presenza di fattori ereditari patologici. Non minore importanza assume il problema della predisposizione nelle psicopatie, nelle reazioni psicogene e negli stati deficitari (oligofrenie), […] è però certo che esistono popoli in cui la tendenza a tali reazioni (isteriche, psicogene) è più marcata che in altre.
- Ciò può dipendere dal tipo di pensiero che loro è proprio, dalle tendenze razionali e irrazionali che in esse dominano. […] Si può osservare che l’interpretazione del mondo esteriore, il suo carattere fisiognomico è assai simile nell’uomo primitivo e nel bambino e che esistono notevoli somiglianze nella dinamica del loro ragionamento dato dal carattere irrazionale o paralogico delle loro rappresentazioni. […] Per i primitivi l’intreccio delle cause seconde, per noi infinito, resta nell’ombra ed inavvertito, mentre fattori magici, poteri occulti, attività mistiche […] attribuiscono a dati immediati della conoscenza il valore di realtà. Nella mente del primitivo il mondo è complesso ma finito e chiuso, nel bambino non ha limiti; la sua esperienza di oggi cancella o sostituisce quella di ieri[…].
- Anche nel nostro ragionamento esistono innumerevoli elementi di tipo arcaico-primitivo : concetti, giudizi, pregiudizi e credenze di ogni specie che alimentati da una carica affettiva e dall’abitudine, persistono a onta del pensiero razionale e in una specie di simbiosi con esso. In molte personalità questi elementi possono assumere un’importanza particolare e una speciale fisionomia (artisti, poeti); e in condizioni patologiche (schizofrenia) è probabile che si liberino meccanismi logici di tipo arcaico sepolti e repressi dallo strato razionale.
- Ancora, il problema dei conflitti che possono insorgere fra la produzione psichica individuale e quella collettiva fissata in leggi, religione, costumi e tradizioni riguarda la criminalità. […] Criteri di biologia criminale applicati allo studio delle differenti razze possono condurre ad utili conoscenze, primissima quella dell’essenza del difetto morale. […] La natura del crimine è molteplice e molte azioni delittuose sono tali solo perché rappresentano un’infrazione ad una legge o ad un’usanza propria di una comunità e non hanno pertanto un carattere universale ed un valore assoluto. […] v. importanza dello studio del meccanismo psicogenetico che origina i delitti.
- Appello “per uno studio organico della psicopatologia razziale” partendo “da una seria preparazione generale e di un indirizzo”. Compito non semplice: ma non ci si può fermarsi più all’empirismo descrittivo dei vecchi viaggiatori o a certe erronee interpretazioni subbiettive di incolti delle discipline psicologiche. Bisogna cominciare a riunire tutti i dati obbiettivi, sicuri, organizzarli […], integrarli via via di tutti i dati mancanti o incerti. Solo così si potrà battere una strada sicura e raccogliere alla fine quei frutti che sono ben meritati dalla nuova fatica.
P.S.
Nel dopoguerra Silvio Brambilla diresse il manicomio “Paolo Pini” di Milano e poi nel 1955 assunse la direzione della Casa di cura “Ville Turro” fino agli anni ’80..
Circa il suo modo di intendere l’assistenza psichiatrica, è di grande interesse il suo intervento Dinamismi mentali normali e patologici al Symposium sui rapporti fra psicologia e psichiatria, in Atti, a cura di L. Ancona, Passo della Mendola, 11-15 settembre 1960, Milano, 1962, pp. 302-305. Egli annotava come in epoca manicomiale abbia sempre avuto una sua rilevanza la questione di quale organizzazione ottimale dell’assistenza dopo la fase dell’osservazione, se per gruppi diagnostici o per i comportamenti delle persone degenti. Brambilla, dopo aver esaltato “il senso, il valore e il contenuto della legge del 1904 e del regolamento che provvedono alla assistenza del malato mentale”, affermava che “grazie alle moderne terapie ed ai nuovi concetti psicoterapici” non aveva più senso la distinzione fra ospedale aperto e ospedale chiuso perché “l’ospedale psichiatrico deve essere nell’insieme tutto aperto ed avere soltanto alcuni reparti chiusi cui debbono accedere gli ammalati unicamente secondo un criterio clinico” e auspicava una “migliore e più umana vita negli ospedali psichiatrici, creando più sereni e più intensi scambi tra ospedale e mondo esterno “.
Un primo passo da compiere era quello di “creare reparti o ospedali anche amministrativamente specializzati per l’assistenza delle singole forme mentali: per esempio delle forme senili, degli epilettici, dei frenastenici minori o adulti educabili, o comunque adattabili a una ergoterapia di tipo anche industriale, degli alcoolisti (in colonie specializzate il cui accesso nei casi plurirecidivanti dovrebbe essere regolato dal magistrato), per i psicopatici antisociali da assistere e riabilitare mediante apposite psicoterapie ecc. Questo per ovvi motivi di organizzazione della terapia e dell’assistenza dei suddetti malati”. E proseguiva:
“Organizzare dunque un reparto psichiatrico aperto vuole dire per prima cosa distinguere e suddividere: perché ogni singolo reparto vuole una sua assistenza specializzata che sarà ben diversa, per esempio, da quella dei senili e da quella degli psicopatici antisociali, a cominciare dalla figura del medico preposto, degli assistenti e infine del personale che deve essere scelto con criteri psicologici di particolare adattabilità. È inteso che il criterio di distinzione delle singole unità terapeutiche non è solo quello nosografico ma deve rispondere anche a un criterio di uniformità di comportamento esteriore, di livello sociale e di grado di cultura, di cronicità o meno della forma, di possibilità o meno di rapporto col rimanente della società e col lavoro”. (…) Facilmente immaginabili sono i criteri organizzativi applicabili nella condotta dei singoli reparti aperti a seconda dei soggetti ospitati. Non è che un problema di iniziativa, di estro, di disponibilità di mezzi: dal lavoro agli svaghi singoli o collettivi, alle sortite organizzate (viaggi, spettacoli pubblici ecc.)”.
Ma, raccomandava, nel reparto aperto dovevano poter entrare e sostare “ persone estranee, normali e cioè parenti, amici, accompagnatori” “con enorme vantaggio per la terapia d’ambiente”, non ultimo quello di vincere l’ostilità e i preconcetti” (del pubblico). E concludeva:
“Naturalmente ciò è possibile nei reparti aperti e tranquilli: ma non è escluso che si possano fare esperimenti del genere anche per i malati mentali gravi e nei reparti chiusi. Nessuna terapia di lavoro, nessuna occupazione imposta più o meno attivamente, nessuna opera distensiva o ricreativa può forse superare in valore terapeutico quel senso di vivo, di vivace, di cordiale, di distensivo che viene portato dal di fuori tramite i parenti o gli amici, naturalmente ben guidati ed assistiti e previamente selezionati. (…) Se c’è una vera padrona di casa, una hostess nel senso letterale della parola che sappia intelligentemente guidare la sua équipe di infermieri, che sappia unire una perfetta educazione, «grazia» nella persona e nei tratti, un perfetto stile, un naturale senso materno e molta bontà, essa può rappresentare veramente lo strumento più efficace nella terapia di ambiente: e tutto questo sia detto con buona pace di tutte le scuole psicologo terapiche e di tutti i corsi di specializzazione aziendale”.
Le vicende dell’assistenza psichiatrica italiana, come noto, presero un’altra strada con la scelta nel 1978 della chiusura dei manicomi pubblici e dell’apertura di servizi di psichiatria comunità. Fu una scelta che tuttavia non convinse tutti gli psichiatri italiani: in particolare ricordo il prof. Cassano di Pisa che contestò l’assetto dei Dipartimenti di salute mentale italiani, accusati di essere “generici”, poco qualificati scientificamente, poco “specializzati” e aggiornati sulla clinica, “ignoranti” e quindi poco attrezzati a trattare con efficacia le patologie psichiatriche.
Luigi Benevelli ( a cura di)
Mantova, 1 ottobre 2021
Silvio Brambilla si laureò nel 1932, ma già al quarto anno frequentò la clinica psichiatrica di Erlangen-Norimberga. Dopo la laurea fu a Berna dove seguì le lezioni di Jacob Klaesi e successivamente a Parigi dove acquisì nel 1935 il diploma di specialità in malattie tropicali. Rientrato in Italia, fu nominato assistente alla Clinica delle malattie nervose e mentali di Milano dove rimase fino al 1942 con la parentesi africana del biennio 1936-37. A Milano frequentò anche il Laboratorio di psicologia dell’Università Cattolica diretto da Agostino Gemelli.
A lui si deve l’introduzione in Italia del metodo Rorschach con una pubblicazione del 1942.
La formazione di Silvio Brambilla fu, come per molti psichiatri italiani della sua generazione, europea, giocata fra Milano, Parigi, ma soprattutto Germania e Svizzera tedesca. Questo spiega perché la bibliografia allegata agli scritti citati sia pressoché del tutto in lingua tedesca.
Per la sua biografia mi sono avvalso della voce “Silvio Brambilla” dell’Archivio storico della psicologia italiana (ASPI).
Nell'immediato secondo dopoguerra, con il sostegno del Centro di Milano, tornò la proposta di istituire uno Schedario genetico nazionale, con la richiesta agli enti e ai soggetti designati di segnalare le malattie di interesse genetico o eugenico, nonché di intraprendere ricerche genetiche e statistiche sulla popolazione italiana. Un tale progetto non era nuovo nella sanità italiana perché schedature su larga scala della popolazione erano già state condotte negli Anni Trenta da demografi, antropologi e medici: si pensi alla cartella biotipologica del Pende. La proposta della Gianferrari risentiva dell’approccio teorico e pratico ai problemi sanitari ispirato in parte dalla scuola demografica e statistica italiana, ma anche dalla vocazione igienistica della sanità italiana per cui la pratica della schedatura nosologica rappresentava un valido strumento di prevenzione eugenica e di “difesa sociale”.
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