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FRAMMENTI IN OMBRA – Recensione di Rita Corsa al romanzo di Fabio Castriota

25 Ott 21

A cura di Pierpaolo Martucci

Fabio Castriota
 Frammenti in ombra

(Roma, Albatros, 2021, pp. 169, Euro 13,20)
 
 

Thomas Ogden, commentando la celebre definizione di Joseph Brodsky che vuole la poesia come “un grande esercizio” per la prosa, precisa che la poesia sarebbe “un grande esercizio” anche per l’ascolto analitico (1997, p. 125). La mia personale risposta a tali asserzioni è che talvolta la prosa suggerisce, sottotraccia, formule che aprono le segrete dell’anima con maggior prepotenza della parola poetica. E, nel contempo, «è il più soave grimaldello per entrare nella realtà” (Alberti, 2021, p. 10). Il romanzo che vado a recensire è capace di ingrossare le acque increspate dell’inconscio del lettore e di trasformarle in una cascata grondante di flussi, di correnti e di riflessi. Sarà perché l’Autore ha una confidenza profonda con gli abissi della mente e le turbolenze delle relazioni umane. Fabio Castriota è uno psichiatra e un noto psicoanalista romano, che ha dato in prestito alla narrativa tutta la sua finezza interpretativa delle misteriose dinamiche che intrecciano i legami tra gli individui. 



 
Andiamo ora a conoscere più da vicino il romanzo, facendoci guidare dall’antica bussola d’ottone, che Silvia, la figura femminile centrale, rinviene nel negozietto di un rigattiere capitolino. Un oggetto dal forte valore simbolico, su cui è inciso, in caratteri ormai sbiaditi, la scritta “e il mare concederà ad ogni uomo nuove speranze come il sonno porta i sogni”. Una frase attribuita a Cristoforo Colombo di ritorno dalla scoperta delle Indie Orientali, dopo aver superato le Colonne d’Ercole per tuffarsi nell’ignoto. Una sfida estrema agli hic sunt leones del proprio tempo, un’esplorazione audace delle terre incognite dell’inconscio umano.
Il racconto si svolge tra la cornice ambientale della Sardegna alla fine degli anni ’70 e una landa spazzata da un vento gelido in un tempo imprecisato, forse nel futuro. Nella prima di queste due dimensioni si muovono tre personaggi, Alessandro (Ale), Silvia e Leonardo (Leo): tre vite segnate da fallimenti diversi, i cui percorsi si intersecano al declinare di un’estate, fra il mare e un piccolo porto verso Capo Caccia. La seconda è abitata da un solo attore, il prigioniero 3H-9201, abbandonato nella cella di un labirintico carcere ghiacciato, per un tempo così lungo da essere ormai immemore dell’accusa, della condanna e della propria stessa identità: “egli stesso aveva dimenticato ormai l’inizio della propria detenzione, né aveva più alcuna memoria di quando era un uomo libero, fino al punto di dubitare di aver mai vissuto un periodo del genere” (p. 51).   
Sono i due piani di scrittura – l’uno incapsulato nell’altro, in un gioco di metanarrazione – che Castriota, vincitore del premio letterario internazionale The analyst as storyteller (2021), percorre con maestria. I salti temporali rinviano ai balzi dell’anima dei protagonisti, feriti dalla malattia, dal dolore, dallo smarrimento, dall’angoscia di morte, ma pure confortati da spiragli di speranza, assicurando così allo script un sorprendente continuum. Come nell’Orlando di Virginia Woolf, Castriota fa veleggiare i suoi attori su un corso narrativo che vede il superamento della sequenza temporale della trama. Orlando è pure il nome della maestosa barca a vela di Leo, il cinquantenne ritiratosi dalla vita per solcare in solitudine il Mediterraneo. Un esule volontario, trasparente metafora del prigioniero 3H-9201, frutto della sua penna. E forse riverbero figurato di qualche fantasia recondita dell’Autore stesso.
La Sardegna che fa da sfondo alle pagine più significative è una terra sospesa, che nulla concede ai cliché, non ancora invasa dal turismo di massa (di cui pur si avvertono le prime avvisaglie), ma già segnata dal declino del mondo agricolo e pastorale e dalla definitiva crisi dell’industria mineraria. Un’isola rude, aspra, rugginosa, ma capace di dar voce al miracolo dell’esistere. Sopravvivenze ancestrali e resti nuragici, insenature ancora incontaminate, giacimenti in disuso e villaggi spopolati marcano il paesaggio imponente e in qualche modo ancora selvaggio che accompagna e incalza le svolte esistenziali dei tre protagonisti. Figure che condividono l’estrazione sociale – padri ben collocati nell’agiata borghesia dei professionisti affermati – e l’oscura inquietudine della ricerca di un senso rispetto a percorsi di vita gravati in diversa misura da perdite e cadute.  La vicenda di Alessandro, proprietario e “capitano” del cutter Andromeda è la più lineare: trentenne benestante un po’ viziato, con un figlio di sette anni frutto di un breve matrimonio con una californiana, insoddisfatto (“con orrore guardava talvolta al futuro”), ma restio a rinunciare alle sostanziali sicurezze del suo status. Silvia, l’amica di lunga data ospite sulla sua barca per una breve vacanza, è portatrice di un vissuto decisamente più pesante: ha una figlia, una bambina da molti mesi “spenta in un coma forse irreversibile” in una stanza di un ospedale romano, conseguenza di un incidente stradale. L’ha avuta da un compagno ormai scomparso dalla sua vita, fuggito da tempo in Francia in quanto esponente di spicco del terrorismo rosso.  
Attraccati alla piccola rada di Porto Conte, Alessandro e Silvia incontrano Leonardo un cinquantenne originale ed energico, proprietario di “una barca superba, una signora dei mari” di 15 metri, dal letterario nome di Orlando. Leonardo è un uomo solo, lasciato dalla moglie e dalla figlia, con un passato enigmatico: magistrato assai stimato, anni prima si era improvvisamente dimesso rinunciando a una carriera prestigiosa per ritirarsi a navigare sul mare e nelle cale della costa sarda.  La spiegazione – da lui stesso diffusa – di volersi godere l’ultimo scorcio di vita concesso da una malattia mortale era in realtà una menzogna, volta a celare un motivo più oscuro. Il tentativo di sfuggire alla persecuzione di un “nemico terribile senza nome”, una sorta di informe fantasma omicida comparso improvvisamente in incubi fattisi assillanti. Una fuga motivata anche dall’assurda speranza di trovare infine il luogo fisico “abitato dal suo nemico”.  
Leonardo, a sua volta, coltiva un “segreto piacere” per la narrativa e scrive in parallelo il racconto del detenuto 3H-9201, dimenticato in un carcere di ghiaccio ai confini del mondo. Una sorta di favola nera sospesa fra i tanti richiami possibili: il condannato a morte senza nome della allucinata colonia penale immaginata da Kafka nella novella omonima (In der Strafkolonie, 1919), ma pure il sottotenente Giovanni Drogo, anch’egli imprigionato in un’illusoria speranza di gloria, nello sperduto avamposto della Fortezza Bastiani, al desolato margine del Deserto dei Tartari. Un’altra storia ai confini del tempo. Un tempo fermo, che perde la sua funzione “di grande contenitore che dà significato alle cose”, come Castriota fa dire a Don Pietro, una figura minore del romanzo, ma con il dono di una saggezza semplice e universale. Perché, spiega Don Pietro, “che senso avrebbe parlare di amore e di morte, di bene e male se non ci fosse qualcosa al cui interno questi possono esistere?” (p. 86). E lo afferma scrutando le stelle dal suo telescopio amatoriale, in una notte estiva, luminosa e quieta.
Quella del carcerato senza nome è una breve vicenda affidata a fogli manoscritti, che a tratti si materializza nel procedere del romanzo, interrompendo il dipanarsi della trama “reale” in un gioco di rimbalzi.  Ma fra i due livelli di lettura le distanze sono solo apparenti, i personaggi che Castriota manovra nel suo sapiente caleidoscopio risultano ciascuno a suo modo prigionieri in fuga da labirinti di ordine differente: metaforico quello dei gelati corridoi nell’iceberg-fortezza di 3H-9201, dolorosamente concreti quelli segnati dalle delusioni, dai tradimenti e dalle sofferenze soprattutto nelle esistenze di Leo e Silvia, i cui destini inevitabilmente si incrociano. Piccoli destini, ma riflessi di una condizione umana universale, frammenti nel caos di una vita in una continua, cosmica evoluzione.
Tuttavia il libro di Castriota non si arena nelle secche di una rassegnata, scettica disillusione.
La contemplazione della luna piena dal fondo del pozzo di Santa Cristina, “sorta di osservatorio stellare” protostorico sardo, o la perlustrazione dell’immenso grappolo di mondi della galassia di Andromeda dal rustico osservatorio di Don Pietro, sono esperienze che consentono ai protagonisti di dischiudersi per brevi momenti a una percezione più vasta. La bussola con inciso l’aforisma di Cristoforo Colombo, acquistata come dono d’amore, sembra tracciare la via verso “nuove speranze, come il sonno ai sogni”.  
Così, nelle pacate ultime pagine, trascorsi molti anni, la vita reale di Silvia, ormai anziana, e quella immaginaria – ma altrettanto vera – del prigioniero 3H-9201 si sfioreranno un’ultima volta per intravvedere, forse, un approdo.
Se, come sostiene Ogden, “ciò che rende viva nella scrittura una persona, un sentimento o un’idea sta nell’esperienza del lettore di leggere o ascoltare le parole e le frasi (…) scritte dall’autore” (1997, p. 8), allora il romanzo di Fabio Castriota riesce a coinvolgerci in “un’esperienza di vitalità”. Un’esperienza di umana vitalità.

 
 

Riferimenti bibliografici
 

ALBERTI B. (2021). Prefazione. In: F. Castriota, Frammenti in ombra. Roma, Albatros.
BUZZATI D. (1940). Il deserto dei Tartari. Milano, Rizzoli.
KAFKA F. (1919). Nella colonia penale. In: La Metamorfosi e altri racconti. Milano, Garzanti, 1989.
OGDEN T. H. (1997). Reverie and interpretation. Sensing something human. Lanham (Maryland), Jason Aronson Inc. [Rêverie e interpretazione, Roma, Astrolabio, 1999].
WOOLF V. (1928). Orlando. A biography. London, The Hogarth Press.
 

 
 
 
 

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