D. MacArthur
Questo testo, ad opera di Marco Monaco, un giovane e brillante studioso di filosofia, è molto importante, poiché rappresenta la prima trattazione pressoché sistematica del pensiero di Bruno Callieri. A quasi un decennio dalla sua scomparsa (febbraio 2012), questo lavoro rompe un silenzio difficile da tollerare e, non a caso, esso è frutto della passione e dell’impegno di un umanista, piuttosto che di un clinico. Un silenzio difficile, dicevo, punteggiato si da qualche testo che ha riportato interviste o lezioni di Bruno trascrizioni di lezioni di Bruno, necrologi o citazioni su riviste, ma mai nulla che ponesse al centro dell’attenzione in maniera critica la prospettiva psicopatologica di Bruno Callieri. Perché? I motivi sono diversi. In parte è viva ancora, in noi allievi, l’eco della sua voce, per non dire lo stupore della sua scomparsa. Eravamo così abituati a vederlo calcare la scena, seppure canuto, ricurvo e poggiato al suo bastone o, più preferibilmente, sottobraccio di qualche orgoglioso giovane (tutti accanto a lui ci sentivamo sempre “giovani”, ed egli stesso si sentiva “giovane” tra i giovani), che sembra strano ancora mettersi a riflettere sulle sue idee, come se realmente non ci fosse più. E’ come se Bruno fosse ancora troppo vivo in mezzo a noi, per poterlo considerare alla stregua di un “classico” da rivisitare.
Un altro motivo è una sorta di fedeltà o di devozione “ideologica” al Maestro. E cioè che Bruno non ha mai dato vita ad un lavoro sistematico: la sistematizzazione proprio non gli apparteneva. Era un lettore onnivoro, poliglotta, intuitivo, mordace, veloce, curioso, un incursore nei più disparati territori della clinica e della cura e del campo antropologico, che si permetteva di spaziare su più orizzonti. I pensiero sistematico non era né il suo forte e ne il suo interesse. Bruno era un libero, e non si lasciava intrappolare da nessuna ideologia, da nessuna prospettiva. Bruno era come il vento, che ubi vult spirat. Tuttavia il suo lavoro è costellato di elementi che vanno decisamente in una prospettiva, che è quella fenomenologico-antropologica, e Marco Monaco ne ha pienamente rispettato la direzione. Solo un attento e appassionato studioso del pensiero umano come Marco poteva individuare quelle connessioni che fanno di un insieme di terre emerse un arcipelago. L’operazione fatta da Monaco mi pare che abbia tenuto debitamente conto di questo nostro senso di rispetto. Il rispetto per l’ irriverenza e l’ironia di Bruno verso tutto ciò che avesse una sua saturazione, un suo senso ultimo e compiuto. Il lavoro di Monaco è, nell’insieme, delicato, egli mette ordine senza imporre forzatamente un ordine. Egli lascia che le visioni di Bruno si incrocino come Bruno stesso avrebbe voluto, in orizzonti mobili, subentranti e, soprattutto, vivi. Perché Bruno era vivo ed è vivo, tra di noi. Ed è vivo, oltre che nella vitalità inesauribile della sua persona umana, nella fertilità del suo pensiero. Un'altra ragione di questo silenzio di noi clinici si colloca più nel cuore della corporazione psichiatrica, dalla quale Monaco è per fortuna estraneo. La posizione di Bruno Callieri rispetto alla psichiatria ufficiale è sempre stata piuttosto a latere. Venerato ma escluso. Ovvero la posizione di una voce profonda, ma fuori campo. Diversamente da quanto ho sempre pensato, e cioè che la mancata cattedra di psichiatria a Bruno fosse da attribuirsi alla sua naturale repulsione per i compromessi, le cordate e il clienteralismo, che affliggono l’accademia italiana come un morbo endemico ed inestirpabile, mi sono reso conto che questo è accaduto perché la posizione epistemica di Bruno era, di fatto, non integrabile, in una psichiatria accademica che aveva scelto di rimanere la “sorella scema” della neurologia, ovvero ancorata ad una posizione vetero-positivista o neo-organicista o, come oggi si usa dire nella vulgata politically correct, “neuro-scientista”. Bruno era un clinico umanista, e rappresentava l’incarnazione di una psichiatria umanista, quella che era cominciata con Pinel, umanista e cionondimeno clinica. Anzi più che mai clinica. Più clinica certo di quella neuro-scientista, o di quella socio-burocratico-assistenzialista.
Bruno rappresentava, e il lavoro epistemologico-critico di Monaco lo porta bene alla luce, il prototipo di uno psichiatra la cui ontogenesi aveva ricapitolato la filogenesi dell’intera parabola storica della psichiatria, prima della sua evaporazione ad opera dello “spirito del tempo”. Bruno infatti era partito da una formazione organicista e, appassionato dell’esistenza, si era reso conto subito del letto di Procuste che la neuropsichiatria del Secondo Dopoguerra italiano offriva alla sofferenza psichica, e questo lo aveva portato ad un approfondimento corsaro dentro le principali correnti di pensiero del Novecento, la fenomenologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, con un’attenzione particolare al personalismo, all’antropologia filosofica, all’etnopsichiatria. Bruno aveva capito a fondo la questione jaspersiana del metodo, e si era reso conto che la psichiatria, nella sua dimensione clinica, che è anche l’unica per la quale la psichiatria stessa abbia un senso, doveva necessariamente procedere su un doppio binario, che era quello medico e quello umanisita. Questo discorso era troppo complesso perché potesse essere assorbito dentro lo sviluppo caotico e improvviso della psichiatria accademica, fragile e tardiva nelle sue distociche origini dalla neurologia. Di fatto le gambe malferme di questa neonata psichiatria italiana, che non ha voluto essere dinamica, non ha voluto essere fenomenologica, e, meno che mai, democratica, hanno fatto si che essa fosse travolta, sul territorio, dallo tsunami sociale, in sede accademica, fosse imbolsita e venduta ad biologismo, tradendo del tutto la vocazione pineliana. Bruno è rimasto, così, un voce. La voce. Per oltre mezzo secolo ha fatto da solo, titanicamente, un lavoro di fondazione e di collegamento della psichiatria italiana alle sue fonti europee, germaniche e francesi, stabilendo contatti personali con i maggiori Autori della seconda generazione della psichiatria fenomenologica. Le cose non sono andate come sarebbero potute andare, e oggi la psichiatria è ridotta ad una afasia nominum, ad una incapacità di fare relazione, di tagliare per il suo verso l’onda della follia e i dispositivi della cura. Inutile piangere sul latte versato. L’operazione di Monaco, pertanto, è quanto mai necessaria, poiché consegna alla posterità una costellazione di idee radicalmente innovative e di grande valenza fondativa, almeno per quei clinici che vogliano sentirsi all’altezza dei pazienti che incontrano. Ovvero sentirsi competenti a interloquire e ad interagire con loro. L’opera di Monaco ha anche un valore che eccede la possibile ricaduta clinca: quello di restituire al pensiero umano ciò che da esso è venuto, arricchito delle storie, del sangue, del sudore delle vite che questo pensiero ha attraversato, grazie proprio lla mediazione di Bruno. E’ un poco come restituire a Bruno un riconoscimento, quello che dall’accademia non ha avuto. Un riconoscimento che comincia ad arrivare, oggi, da quei cultori del pensiero che sono i pensatori. E Marco Monaco lo è. In un mondo computazionale che ha ridotto la conoscenza umana ad un ambito operazionale, tutto questo non è poco. A partire dall’autunno del 2018 mi sono incontrato varie volte, a Napoli, ai tavolini del Gambrinus, davanti ad un caffè o nel mio reparto di psichiatria, con il giovane Marco, munito di registratore, di quaderni di appunti, di articoli di riviste. E’ stato guardando i suoi occhi voraci, curiosi, appassionati, che ho risentito lo spirito di Bruno, il suo sorriso, la sua passione per il mondo-della-vita. In quei momenti ho capito che questo giovane filosofo avrebbe potuto veicolare meglio di chiunque altro il pensiero di Bruno ad altri giovani. Bruno sarebbe stato felice. Ed io ho fatto il possibile per restituire a Marco, che non lo ha mai incontrato, il senso dell’incontro con Bruno. Questo lavoro certosino di Monaco mostra nel dettaglio che i sintomi, almeno alcuni sintomi, nella clinica psichiatrica, non hanno in sé alcuna dimensione ed alcuna profondità se vengono ridotti solo al loro nome. Perché questi sintomi aprano all’esperienza soggettiva ed intersoggettiva di chi li vive, essi vanno “costitutiti” in una relazione. Ovvero vanno fondati. Il loro stesso rilevamento richiede una particolare modalità di ascolto, di sguardo, di incontro. Questi sintomi si costituiscono in esperienze solo nell’incontro con il clinico preparato ad accoglierli. Altrimenti essi rimangono muti, si trasformano in atti comportamentali, si accendono e si spengono nel silenzio e nell’inesprimibilità del paziente. L’errore “cartesiano” dei manuali diagnostico-statistici sta proprio nel presentare elenchi di sintomi preconfezionati, che appaiono, sulla carta, “chiari e distinti”. Sulla carta, appunto. Ma nell’incontro tutto è informe, caotico, confuso, inespresso, alluso, accennato, lampeggiato, intuito. E’ solo il clinico che, grazie al contatto diretto con il paziente, dipana la matassa. Non c’è una sola pubblicazione scientifica internazionale impattata degli ultimi 40 anni che aiuti a “dipanare” la matassa. Tutti i lavori partono dall’assunto che i sintomi “psichici” sono, nella pratica clinica, chiari e distinti come nelle nomenclature preconfezionate. La scale non fanno altro che forzare il sintomi verso determinati score, che supportano gli esiti, le diagnosi e così via. Tutto l’edificio della cosiddetta psichiatria biologica, dunque, si basa su assunti di partenza non validati da un lavoro di vagliatura e di riconoscimento. Le diagnosi, di fatto, nella pratica, vengono attribuite pressochè random, a seconda dei bisogni o delle risposte farmacologiche. Da questo punto di vista nessuna disciplina, come la psichiatria mainstream attuale, sta costruendo un castello di carte di nessuna validità, e, paradossalmente, con delle credenziali scientifiche. Questo è utile alle carriere accademiche degli psichiatri, alla farmaco economia, non ai pazienti. La loro esperienza rimane tellurica, sommersa, illeggibile. Mi auguro che questa guida o introduzione al pensiero di Bruno possa stimolare il giovane clinico, sia esso psicologo o psichiatra, a costruirsi un percorso ed un linguaggio utili ad affacciarsi sull’abisso, senza esserne risucchiati; a stare nell’assenza di gravità, insieme a chi fluttua nel nulla; a tendere una mano a chi percorre l’ultimo miglio, nella speranza di riportarlo indietro; a guadare, insieme a lui, il fiume dell’oblio. Se sarà cosi, essi si sentiranno meno soli. E allora veramente Bruno non sarà vissuto invano. Allora Bruno sarà anche per loro, come lo è ogni giorno per me, il “compagno segreto”.
Recensione interessante del
Recensione interessante del testo, accompagnata da stralci di interviste che ogni clinico dovrebbe tenere in bacheca, indipendentemente dal suo orientamento teorico. E’ stato un piacere conoscere, seppur mediatamente, Bruno Callieri, di cui approfondirò il pensiero a partire proprio da questi spunti e, mi viene da dire, a partire dall’umanità autentica che viene abbondantemente comunicata allo spettatore già da questi brevi filmati. Sarà stato un grande onore, oltre che un’occasione preziosissima di crescita culturale e personale, lavorare o discutere di persona con lui.