Proprio in quegli anni però proprio a Reggio si andava infoltendo un flusso di immigrati provenienti dalla Calabria, e precisamente da Cutro e dintorni, che in precedenza era diretto verso la Germania, ma che, a seguito del velocissimo processo di trasformazione della città e del boom edilizio che l’aveva caratterizzato, prese a concentrarsi qui, assumendo ben presto alcune caratteristiche tipiche dei processi migratori, quali il ‘passaparola’ che incrementa e concentra il flusso migratorio attutendo, almeno nelle intenzioni, le sofferenze e rendendo meno ampio il gap fra illusioni dell’emigrato e delusioni dell’immigrato. E soprattutto il meccanismo della ‘chiamata’ in base al quale dapprima emigra solo un membro adulto della famiglia ponendo le basi minime che consentono in un secondo momento la chiamata, cioè l’arrivo del resto della famiglia ristretta, e dei parenti.
Seguì verso la metà degli anni ’80 il primo flusso di migranti esterni: provenivano tutti dall’Egitto, si concentrarono quasi esclusivamente nel faticosissimo lavoro negli altiforni, usando praticamente le stesse modalità dei cutresi, ed innescando problemi e sofferenze psicologiche molto simili a quelle che avevamo riscontrato sia nei cutresi, sia in precedenza nelle famiglie dei migranti montanari.
Ma finché il numero degli immigrati esterni non superò grosso modo la fatidica soglia sotto la quale, secondo i sociologi, ancora non emergono come problema, le loro vicissitudini personali e familiari apparivano in tutta evidenza solo agli occhi di noi operatori psichiatrici e psicologici. E lo stesso emergere dell’infezione ‘ndranghetista nel tessuto calabrese venne sottovalutato, se non negato.
Fu negli anni ’90 che esplose il grande flusso migratorio esterno che già nel 2000 vedeva una presenza a Reggio di oltre 100 etnie. Emersero così quasi all’improvviso tutta una serie di problematiche che richiedevano una riflessione, una programmazione e una messa a punto di nuove risposte ai bisogni sia degli immigrati che degli autoctoni non solo da parte di noi psicologi e operatori sanitari del ‘pubblico’, ma anche della scuola, dei social worker, dei Comuni, etc.-
Ciò richiese un supplemento di formazione e di supervisione, che nel nostro caso andò principalmente in direzione sia di Marie Rose Moro, etnonanalista, direttrice del servizio di consultazione di psichiatria transculturale dell'Ospedale Avicenne di Bobigny; sia di Simona Taliani, etnopsicologa, e Roberto Beneduce, etnopsichiatra, entrambi del Centro Franz Fanon di Torino[1].
Si trattava di approntare e sostenere un lavoro di rete, capace di mettere in rapporto, non sempre 'integrale', tutta una rete di reti che in età evolutiva si complica creando una intricatissima camera degli specchi in cui sia i migranti che gli autoctoni, gli adulti e i soggetti in età evolutiva, si possano riflettere in maniera più o meno confidente mettendo a dura prova i propri introietti e le proprie proiezioni; così come il proprio ‘carattere etnico’ ed il proprio ‘inconscio etnico’.
Ho avuto occasione una ventina di anni fa di svolgere per cinque anni accademici attività di docenza presso la Facoltà di psicologia di Trieste. La prima cosa che chiesi agli studenti nel mio primo giorno di docenza fu più o meno questa “ma qui ci sono dei corsi di psicologia dei processi migratori”? Non ce n’erano. E l’esame di Antropologia Culturale, di cui chiesi subito dopo, non era tenuto in gran conto dalle autorità accademiche, almeno in quella facoltà.
Rimasi colpito qualche giorno dopo da un avviso che trovai in bacheca, e che annunciava un seminario di “Psicologia animale”. Ma come? la facoltà di psicologia di una città che è un crocevia di migranti non vedeva ciò che aveva sotto gli occhi? Ma allora a quale mestiere stavano preparando i loro discenti?
Non so cosa accada attualmente a Trieste, ma sicuramente in generale oggi l’attenzione dell’Accademia italiana ai fenomeni migratori è sicuramente molto ampia, e soprattutto si va definendo – come a mio avviso deve essere – sul piano interdisciplinare. Per quanto riguarda gli studi psicologici però manca ancora un legame forte e generalizzato fra lo studio a livello teoretico e la ricerca pratica[2]. E ciò, come sappiamo, si riproduce poi anche nelle scuole di specializzazione in psicoterapia, che spesso escludono la possibilità di seguire intra moenia casi e situazioni problematiche.
Fortunatamente almeno sul problema dei processi migratori le cose si vanno mettendo per il meglio. E ciò a mio avviso è dovuto da una parte al fatto che lo iato fra teoria e prassi è meno profondo di vent’anni fa; dall’altra all’emergere sempre più netto di riflessioni e pratiche incentrate sull’interdisciplinarietà, che vanno concretamente implementando un lavoro di rete, che per noi psicologi e psicoterapeuti è come una medicina che spinge ad affrontare il lavoro con meno sicumera e maggior fiducia nella collaborazione con i colleghi che provengono dalle professioni limitrofe di quanto è stato finora.
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