La tendenza a usare la legge nel campo dei diritti “civili” per definire e imporre moralmente il modo giusto di sentire e di pensare dei cittadini, favorisce una silenziosa divaricazione tra il piano dell’apparenza, dove nulla fa differenza, e un piano nascosto in cui le diversità si irrigidiscono in costituzioni identitarie non comunicanti, inconfessabili a noi stessi. La società occidentale tollerante e progressista e anche molto indifferente. Quando si uniforma al pensiero “main stream” dei comportamenti “politicamente corretti” e quando si rinchiude nel suo orgoglio di civiltà superiore ed escludente.
In Occidente non comprendiamo che il nostro patrimonio culturale si riduce progressivamente in stereotipi obbedienti a logiche commerciali. Poiché queste logiche (convertenti i valori civili in prodotti da vendere) dominano l’intero pianeta, ma, producendo una grandissima iniquità e povertà, lo rendono in gran parte molto recalcitrante ai costumi “liberali”, alla fine l’uniformazione della domanda di consumo produce grandi aree di intolleranza (anche feroce). La stessa tolleranza occidentale poggia in modo molto precario su un substrato bollente di fobie e pregiudizi potenzialmente ingestibili e distruttivi.
Dovremmo rivedere il nostro modo di pensare i diritti civili, ricordando che sono diretta derivazione dei diritti fondamentali: differenza, libertà, parità. La prima cosa di cui sarebbe opportuno tener conto è il modo con cui affrontiamo le fobie: le paure nei confronti di forme esemplari di diversità socioculturale e sessuale che sono la fonte dei nostri sentimenti, pensieri e atti discriminatori. Le fobie nascono dove le differenze restano fuori dall’intesa e dagli scambi, perdono la loro natura attrattiva e si trasformano nella percezione del soggetto fobico in un potenziale pericolo di destabilizzazione del suo sistema di vita. Le loro forme principali nel mondo occidentale sono la ginecofobia, l’omofobia (e la repulsione nei confronti della sessualità queer), la xenofobia e l’islamofobia. Queste espressioni della paura nei confronti dell’alterità, hanno una solida base nella psiche collettiva anche perché fanno storicamente parte della costituzione dei confini della nostra civiltà e hanno una forte funzione identitaria, soprattuto nei momenti del nostro maggiore isolamento mentale e emotivo dal resto del mondo.
Le paure non sono risolvibili con la sola educazione e men che mai possono essere sradicate per legge. Sono peraltro finemente mescolate dentro di noi con i mille pre-giudizi riflettenti i nostri gusti e inclinazioni che da una parte sono un ostacolo per l’esplorazione della realtà e dall’altra parte ci permettono di definire il rapporto con essa. Siamo figli del contesto culturale in cui siamo inseriti e delle nostre scelte personali come pure delle nostre contraddizioni (la nostra libertà deve molto ad esse).
In ognuno di noi c’è una chiusura nei confronti della diversità (che può essere rigida o soggetta a trasformazioni). Se ne siamo consapevoli e intuiamo il danno per noi e per gli altri che ciò può comportare, riusciamo a essere responsabili e rispettare tutti.
La giustizia non è psicologia morale. La legge non può condannare le fobie, né assolverle. Può solo creare le condizioni che le depotenziano, a partire dalla facilitazione di ogni forma di scambio sociale.
Essere omosessuali o islamici non è giusto né ingiusto, è una condizione legittima di vita che va rispettata. Il diritti civili non sono un indennizzo, affermano la pluralità dei modi di costituirsi come cittadini che è garanzia della libertà di tutti. Non si sanziona la fobia, bensì l’aggressione, fisica o verbale, e l’atto discriminatorio (o la loro apologia). La discriminazione lede il principio etico per eccellenza: la parità dei soggetti sul piano del desiderio. La psicologia può spiegare la discriminazione con la paura, non la giustifica.
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