Il post è di quelli ritenuti “freddi” dall’umanista. Perché non tratta i temi “caldi” della clinica – l’empatia, l’amore-odio, l’intersoggettività – di solito sviluppati in modo romanzesco in casi clinici; già nel 1895 Freud si lamentava che si leggessero “come novelle, senza il vero marchio della scientificità”. La mia “freddezza” deriva dal trattare temi astratti, volti a matematizzare la teoria analitica, generalizzando le condizioni di verità, a rischio di perdere in concretezza. Ci vuole coraggio per privilegiare l’astratto sul concreto, con il rischio di isolare i dettagli dal loro contesto storico. Ma senza coraggio non si pensa il nuovo. L’ho appreso dal mio maestro Lacan, che seguo alla lontana.
Ma cosa è vero?
Quid est veritas? chiese a Gesù il prefetto della Giudea, Ponzio Pilato (Gio, 18, 38). E chi poteva saperlo meglio del figlio di Dio, che diceva di essere la via, la verità e la vita? Gesù non abboccò all’amo filosofico del potente di turno – la filosofia è un discorso a servizio del padrone (Hegel) o del servo (Marx) o di entrambi (Husserl e Heidegger) – e non rispose. Per Agostino la risposta era già anagrammata nel latino della domanda: Est vir qui adest. Lo sa bene lo psicanalista: se fai la domanda, sai già la risposta. La verità è l’uomo presente qui. A prescindere dalla valenza religiosa, per noi umani la verità è la presenza dell’umano, cioè dell’altro. Come prescinderne?
La presenza dell’altro caratterizza anche il setting analitico come luogo di verità aperto al soggetto. Ma quale verità? Tutto andrebbe bene se di verità ce ne fosse una di un solo genere, come in fondo presuppone la stessa domanda. Ma se i generi fossero due o più, torneremmo a chiederci quale sia la verità vera. Ci sarebbe da distinguere almeno tra verità narrativa, da con-prendere (be-greifen), e verità esplicativa che spiega (erklären), la prima propria delle scienze umane, vitaliste, la seconda delle naturali, materialiste, senza ovviamente pretendere la supremazia di una forma di verità sull’altra.
Anticamente il problema non si poneva: la verità era una sola e narrata storicamente; per il giurista Vico, verum et factum convertuntur. In fondo, il giudice giudica sui fatti. È l’adaequatio rei et intellectus (omoiosis) a raccontare la verità della vita. La verità matematica, adeguata a sé stessa, come due più due fa quattro, sfuggì ai Greci, che non avevano i numeri; infatti, non ebbero lo zero, quindi niente equazioni, e considerarono l’uno ciò che non ha parti,[1] non un numero ma un filosofema, inerente all’essere dell’ente. Gli Elementi di Euclide sono la pregevole antologia di verità esplicative di un particolare spazio – parabolico o a curvatura nulla, cioè piatto – dove vale il teorema di Pitagora. Sulla Terra, che ha curvatura positiva, non vale Pitagora. Euclide utilizzò un frammento di logica aristotelica nelle Nozioni comuni, tra cui l’VIII che fonda il ragionare finitista sul tutto superiore alla parte. I suoi teoremi e definizioni risolvono problemi di disegno con riga e compasso. Quasi mai sono in forma moderna, secondo lo schema quantificato: “per ogni x esiste un y che soddisfa una certa proprietà P”; gli antichi non conoscevano le variabili x e y da quantificare. In “tutti gli uomini sono mortali”, gli “uomini” non designano una variabile ma un soggetto. Una scelta infelice che in logica tenne campo fino a Boole e Frege. Le variabili produssero l’afanisi moderna del soggetto della scienza. Tuttavia, Euclide riuscì a dimostrare che di numeri primi ce ne n’è sempre uno più grande; non osò dirli infiniti.
Gli antichi usarono la logica aristotelica nelle loro ricerche storiche. Miravano a individuare le fonti di verità, con l’intento di risolvere vexatae questiones e individuare il “vero” sviluppo della verità secondo una certa “narrazione”, magari gradita al potere. Cos’è una narrazione? È l’applicazione consecutiva del principio di ragion sufficiente a un processo della vita, per cui a una causa segue l’effetto, che a sua volta causa l’effetto successivo, secondo schematismi imposti dal senso comune, basato su essenze. Semplice, no? Addirittura lineare. Il presupposto necessario della narrazione è che l’individuazione delle cause si svolga in un numero finito di passi e si concluda con la causa prima. Il principio di ragion sufficiente esclude di fatto l’infinito; se la catena eziologica fosse infinita non si raggiungerebbe mai la causa prima e il progetto cognitivo fallirebbe. La narrazione non narra l’infinito.
Noto in proposito un dato storico paradossale. A parte i miti, che sono narrazioni religiose, deliberatamente illusorie, codificate in antichi testamenti (storie testimoniate da presbiteri) e riciclate in molte psicoterapie, le narrazioni antiche sono quasi sempre storiche. Con poche eccezioni, anticamente non esisteva la narrazione romanzesca. Escludendo l’Odissea, gli amori di Dafne e Cloe e il Satyricon, l’antica narrazione laica non amava l’esercizio di fantasia; fu sempre oggettiva e diacronica, dicevo storica. La narrazione fantastica esplose – è il caso di dire – in epoca scientifica con i grandi romanzi francesi (Gargantua e Pantagruel) e spagnoli (Don Chisciotte), per non parlare dell’immensa produzione teatrale iniziata con le favole di Shakespeare, Calderon e Racine. Oggi i romanzieri si chiamano scrittori, che hanno rubato il mestiere agli storici. La letteratura narrativa occupa un intero piano della libreria Feltrinelli; la scienza sta in un solo scaffale. Di fatto la verità romanzesca controbilancia l’altra modalità di presentazione della verità, sincronica prima che diacronica, la modalità scientifica galileiana, che chiamo modalità espositiva o esplicativa.
Così intendo la modalità espressiva della scienza moderna, inaugurata da Galilei. La scienza galileiana formula modelli. Un modello del mondo è un insieme di enunciati intorno al mondo, supposti veri e soggetti a confutazione, essendo confermati solo par provision (Cartesio). Concettualmente un modello presenta lo stato di cose del mondo. Il mondo è tutto ciò che accade, diceva Wittgenstein nella prima riga del suo Tractatus. Secondo la definizione semantica di Chang e Keisler[2] un modello è un sottoinsieme di enunciati di un certo linguaggio. Tra questi ve ne possono essere di controintuitivi per la mentalità storicista, perché non vitalistici. Paradigmatico è in Galilei il moto inerziale, caratterizzato da un vettore velocità costante in direzione, senso e modulo in assenza di cause, cioè di forze acceleranti; il principio d’inerzia fa decadere il principio di ragion sufficiente, dove a ogni effetto è anteposta una causa.
Non entro in merito ai bizzarri modelli quantistici, che presentano fenomeni assurdi come l’entanglement, quasi che lo spazio e il tempo non esistessero. Einstein ne parlava come “inquietante azione a distanza”. Non ammetteva che due particelle conservassero proprietà caratteristiche, ignote prima della misura, a distanza di tempo e di spazio, apparentemente senza interagire, cioè senza trasmettere informazioni. Topologicamente parlando, la meccanica quantistica adotta una pseudometrica, cioè una metrica dove la distanza può essere nulla anche tra punti distinti (e distanti) dello spazio. È ovvio che senza spazio e senza tempo non si dà causalità, quindi non si dà storia. Hegel, addio. Senza tempo anche l’essere vacilla. Addio anche a te, caro Heidegger, che pensi che la scienza non pensi. La scienza pensa una verità diversa dalla tua rivelazione che conferma l’essere: Bewährung in Heidegger ma non in Freud, che usa sistematicamente Bestätigung, intendendo la conferma dei dati di fatto.
Oggi i fisici parlano di spazio e di tempo come di proprietà emergenti dalla materia. Ciò fa delle categorie spazio-tempo delle proprietà materiali co-evolventi secondo certe interazioni, per esempio quelle che presuppongono costante la velocità della luce, non trascendentali né autonome alla maniera di Kant o del senso comune. Non siamo lontani dalla concezione freudiana dell’inconscio, senza spazio né tempo. A ragione Lacan parlava di statuto pre-ontico dell’inconscio. L’essere dell’inconscio si raggiunge al futuro anteriore, il tempo dell’etica, secondo il paradigma freudiano del wo Es war, soll Ich werden, “Io devo prender il posto dell’Es”.
La verità esplicativa della scienza è figlia dell’appartenenza: un enunciato è vero se appartiene a un modello coerente; non è necessario che racconti la verità ontologica dei fatti, che possono essere solo supposti. Il punto è duro da accettare per la mentalità umanista, tanto più se è matematicamente coerente. Lo scontro tra i due generi di verità, narrativa ed esplicativa, fu celebrato nel processo a Galilei del 1633, che non ebbe né vincitori né vinti. Oggi la verità esplicativa dell’appartenenza di un elemento a un insieme è un fatto storicamente acquisito: la teoria degli insiemi cominciò molto prima, quasi tre secoli prima di Cantor, quando mise in secondo piano la verità storica.
C’è di più. La storia non appartiene al singolo modello, che non spiega mai tutto ii mondo in modo conclusivo. Dal punto di vista ontologico un modello è un sottoinsieme dell’insieme degli elementi del mondo reale, soggetti a certe interazioni. La storia è l’ambiente dove i singoli modelli del mondo interagiscono ed evolvono. A differenza dell’antica la scienza moderna evolve. I diversi modelli non sono statici: interagiscono tra loro, mutano e si sviluppano. Oggi assistiamo all’interazione senza esclusione di colpi tra teoria della relatività e meccanica quantistica, da cui uscirà una scienza diversa da quella nota. La teoria evoluzionistica darwiniana non è più quella originale del “lungo ragionamento” di Darwin del 1859, arricchita dalla genetica e dalla teoria dei sistemi. Sessant’anni fa, quando studiavo io, non si parlava di biodiversità e l’inquinamento planetario non era ancora riconosciuto.
E la psicanalisi?
La psicanalisi nacque vecchia da un Freud ippocratico, quindi vincolato alla verità anamnestica, cioè al racconto psicopatologico del paziente, regolato dal principio di ragion sufficiente. Chi con le sue sedute brevi – “Ho fatto un sogno”. “Torni domani” –, interrotte sul più bello, ruppe con lo schema narrativo in psicanalisi fu Lacan, ma non pare abbia fatto presa, tanta è la forza della narrazione che spinge a imbastire romanzi familiari delle nevrosi, inchiodando l’analista alla poltrona con l’obbligo di ascoltare tutta la recita del paziente. Le solite vignette satiriche sul setting analitico raffigurano l’analista che prende appunti alle spalle del paziente, per fissarne la storia “oggettiva” come fa il medico in clinica medica, pratica sconsigliata dallo stesso Freud, perché blocca le associazioni inconsce dell’analista.
Demedicalizzare la psicanalisi è il passo per uscire dalla verità narrativa, dominante nel vitalismo, e muovere i primi passi verso la verità esplicativa materiale, cioè scientifica. L’operazione scientifica in psicanalisi non è facile perché non tocca il singolo analista ma il collettivo dell’intera compagine degli psicanalisti, oggi irreggimentata in scuole, responsabili della loro formazione. In concreto la mutazione scientifica mette a rischio l’esercizio della professione, una tecnica riconosciuta dallo Stato. Occorre che il collettivo psicanalitico cambi mentalità epistemica, passando dall’opzione aristotelica del principio di ragion sufficiente, che a ogni effetto attribuisce una causa, alla mentalità galileiana che sul mondo dell’analizzante costruisce modelli esplicativi, magari non fissi e in continua evoluzione. Insomma, sto parlando di analisi interminabile, posto che quella narrativa prima o poi termini.
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