Nel tuo nulla spero di trovare il Tutto
Faust
Faust
Un uomo si cerca il cuore con un coltello da caccia conficcato nel petto. Così, senza preavviso. La moglie lo vede alzarsi dal letto, prima dell’alba, ed entrare nel bagno. Un altro si allontana da casa, e vaga giorni per Roma, fintantoché non si getta da un ponte. Diverse donne, una dopo l’altra, giacciono, come l’Ophelia di Millais, sulle barelle dell’OBI, in attesa di essere svelenate. Una donna che manca da casa viene trovata aggrappata alla scogliera. Due donne giungono contorte ed arse dentro dal fuoco dei caustici che hanno ingerito. Una viene dal carcere, l'altra da una delle nostre isole, con l'eliambulanza. Un uomo si allontana in macchina in una zona poco praticata e si avvelena. In una sola notte la superficie del lago di Averno, l’antica porta dell’Inferno pagano, si è tinta improvvisamente di rosso. Rosso come il sangue. La luce dell’alba irrompe, così, da giorni, sulle acque mosse e vermiglie del lago. Negli esigui spazi dell’SPDC lasciatici dall’emergenza COVID-19, che ci ha requisito il reparto e che ancora non ce lo ha restituito, si avvicendano e si accalcano i suicidi. Arrivano alla spicciolata, uno dopo l’altro, uomini e donne, più donne che uomini, gli uomini più violenti delle donne. Il suicidio, ovvero l’ultima ora, “l’ora che non ha sorelle” di Paul Celan, consacra ancora una differenza di genere. La furia di un demone, del demone meridiano, il demone della luce di cui parlava Starobinski, ha fatto, tra marzo ed aprile, la sua irruzione sugli umani. La furia contro se stessi si è ridestata. Ci si taglia con foga, seguendo la linea delle vene con irrefrenabile impulso; si assumono farmaci, i peggiori, i più disparati, attendendo la fine sulle acque del grande sonno; si vaga sugli scogli imbambolati dalla voce delle onde. Le ambulanze del 118 raccattano dovunque e portano, a sirene spiegate. Quando le sento arrivare, i loro sibili si convertono, nella mia mente, nelle note del “Tristano e Isotta”, che Lars von Trier mise come ouverture al suo Melancholia. Perché? Le nostre categorie diagnostiche saltano: alcuni di questi aspiranti suicidi non sono mai stati visti, sono donne ed uomini sconosciuti. Dalla vita pressoché normale. Esseri umani che fino ad un minuto prima vivevano al loro esistenza anonima nel flusso del mondo, pervasi dalla loro comune infelicità esistenziale. Altri sono bene noti alla rete territoriale, ma tanto noti da diventare ovvi, fino a che il furor non si ridesta dentro di loro, proprio come il mostro che esce dalle acque torbide, o come il pianeta Melancholia che collide con la terra. Suicidi senza storia, suicidi senza movente: tutti. La nostra macchina ospedaliera risponde efficiente : 118-PS-OBI-SPDC. In questa impronunciabile ridda numeri e di lettere, mi capita di incontrare i loro occhi senza sguardo, gli occhi delle statue, sperando che, dopo la catastrofe che si è consumata, si riaccenda una fiamma di vita. Avverto l’inutilità di tutte le nostre categorie nosografiche e psicologiche. L’illusione protocollare e prescrittiva che esse contengono. Mi omologo a compilare cartelle e caselle con i codici convenuti. Sento invece, ctonio, tellurico, acquatico, lunare, sordo, secco, nero, vischioso, infiammabile e cinereo: l’umore. Il loro umore. Che cos’è questo umore? E’ qualcosa che sta dentro o qualcosa che appartiene al fuori? Che cos’è quest’umore: è dell’uomo o è del mondo? Da humus, che significa terra umida, fluido viscoso, da cui, non a caso, hum(an)us. Cos’è la carne viva se non un impasto di terra, di acqua, di vento e di luce. Almeno così tutte le antropogonie raccontano. Forse nel fondale limaccioso e adesso rosso torbido di questo mitico lago d’Averno, su cui l’ ospedale si affaccia, c’è più verità che nei neurotrasmettitori. Il vecchio concetto della psicopatologia clinica di Heidelberg, il “fondo”, quello che Schneider chiamava Untergrund, richiama molto, per analogia, il fondale del lago. Il fondo oscuro, imperscrutabile, limaccioso, informe, lo chiamerebbe Stanghellini. Il deposito della mota e il nido dei mostri. E’ li dove il mio sguardo non si può spingere forse la verità di questo amore per la morte, di questa captazione improvvisa, fulminea, irresistibile, di questo richiamo di un altrove. I tedeschi, per quella vena romantica che li contrassegna, pur nel loro razionalismo pragmatico, la chiamavano, con termine assai evocativo, Stimmung. Vinicio, l’uomo che a Roma si è gettato da un ponte, ora giace con le gambe e le vertebre fratturate nel letto dell’SPDC, ed appare sereno. Ciò che doveva essere fatto è stato fatto. Tra l’inevitabilità del delirio e l’irrimediabilità della melanconia. l’Altro non ha senso. Di altro non c’è senso. Le gemme adesso rompono i rami degli alberi, e le campagne sono tutte un profluvio di rosa, di lilla, di azzurro. Qui, a Sud del mondo, si annuncia quella che la gente per antonomasia chiama “la stagione”. L’ora di mezzogiorno è proprio quella del demone e dell’acedia esasperata. E’ l’ora in cui la luce trionfante incita l’attacco del suo avversario, così scriveva Starobinski ne “L’inchiostro della malinconia”. E’ la trappola di cristallo che improvvisamente si frantuma. Il confronto finale tra la tenebra e la luce attraversa, al di là di loro, i corpi di questi uomini e di queste donne, come un campo di forze, magnetiche, elettriche, magiche. E’ la natura, la greca Physis, che si risveglia dal letargo del ghiaccio. La vita che mormora e che si confronta con la morte, Proserpina che esce dall’Ade. Per gli antichi, ed anche per Tellenbach, tutto questo era collegato. Tutto era connesso con tutto. Tellenbach in “Malinconia” lo chiama endo-cosmo-genesi. Quanto è stupida e povera la psichiatria attuale (e noi con lei) a fare i quattro conti della serva con due numeri di neurobiologia, due concetti di sociologia e due di psicologia. I cigni, gli stessi di Baudelaire, guardano smarriti la superficie rossa dell’Averno, la guardano come uno spazio interdetto. Ade, pur sapendo che la luce è rinata, non si rassegna a lasciar andare Proserpina.
Caro Gilberto, hai scritto
Caro Gilberto, hai scritto dei disperanti e misteriosi tentativi di suicido, sangue e veneficio. Ma, questa volta, non avevi in mente i nostri, i tuoi pazienti. Negli occhi hai la guerra, il sangue della guerra, il mistero finale della specie sapiens sapiens, l’humus limaccioso che emerge sulla superficie del lago di Averno. Ci dici che questa è la materia costitutiva del nostro lavoro. E quando le scene che vediamo tutti i giorni ci obbligano a domande così radicali, il tuo grido è uno squarcio nella luce che acceca: dove stanno i traumi? quale è la pasta del trauma? Ci basta l’EMDR, il litio, etc. quando siamo interrogati da questa radicalità riguardante l’essenza della natura umana? E allora mi sembra più chiaro il tuo insistere, in questa fase del tuo viaggio di conoscenza, sulla fenomenologia (psicopatologia) del sentire, sull’accomunamento basico che permetterà (forse) l’emergere di frammenti eidetici. In questo mese il mantra condiviso ( quale lamento di un coro dolente) è “mai avremmo pensato di vivere una guerra in Europa!” Mi permetto riformulare, alla luce del tuo urlo, : “Mai avrei pensato di dovermi riconfrontare con questa terribile consapevolezza sulla nostra humanitas”. Sarebbe come dire che il lago percorso di rosso, posto a esergo, per me ha rimandato immediatamente al lago rosso di Tovel, ai piedi delle dolomiti di Brenta, lago rosso che ho ben conosciuto nella mia infanzia. Ero sicuro che sarebbe stato sempre quel lago, romantico e misterioso nel suo diventare rosso (per microrganismi ormai scomparsi). E poi, in una lacerazione drammatica che squarcia il Velo del Tempio, diventa il lago di sangue dell’Averno. E noi psi riusciremo ad essere lì dove il tentativo di suicido dell’uomo collassa su di noi, oggi molto più soli dato l’indebolimento forte dei codici di comunità e accomunamento? Grazie per avermi permesso un passo più in là in una domanda che mi inquieta tanto oggi: trauma da lockdown, trauma dal guardare e sapere ciò che lì accade, stesso lemma.. e poi?
Grazie Corrado, mi aiuti
Grazie Corrado, mi aiuti sempre a capire. A sentire. E’ come dici tu. Noi psy non possiamo non vedere, non possiamo non sapere, non possiamo non soffrire. Non possiamo non tentare di condividere ciò che, come tu dici, ci cade addosso : il cascame umano. Cio’ di cui ci imbrattiamo, andando per dove andiamo, il fondale limaccioso. Che forse oggi non ci illudiamo più di illuminare “a giorno”, con lo scandaglio della ragione. Sarebbe tanto se riuscissimo ad accettare ed a condividere l’idea che c’è. Che tutto questo, e anche altro, è l’uomo. Ma il tempo passa, la storia si ripete, la gente vuole la leggerezza. Dovunque ti giri è una festa. E’ sempre sabato sera. Il tuo scritto mi aiuta a non sentirmi un viandante solitario, un guerriero stanco, aquila della notte, un bianco convertito alla terra, avviato al cimitero destinato alle riserve indiane. Siamo sempre più di uno a guardare quel lago tinto di rosso. Ecco la gioia di incontrarti. Anche quando pensiamo di essere soli. E quel lago è dovunque. Dovunque siamo noi. Ti abbraccio forte.