Giovanni De Plato, già professore di psichiatria a Bologna, ha scritto, sotto forma di romanzo, un libro sul rapporto tra la creatività e il dolore: “Vincent Van Gogh: il giallo della follia”. Il romanzo, basato su materiale d’archivio accuratamente raccolto, è un dialogo tra il filosofo Karl Jaspers, autore di “Genio e follia: Strindberg e Van Gogh”, e un suo immaginario allievo psichiatra, Emil Moreno.
Moreno contesta con vigore la diagnosi di “verosimile schizofrenia” che Jaspers ha fatto di van Gogh e anche la sua correlazione tra genio creativo e follia. Di Van Gogh si sono fatte varie diagnosi durante la sua vita e dopo: schizofrenia, bipolarità, mania allucinatoria, epilessia. De Plato /Moreno si dissocia: Van Gogh ha sofferto di dipendenza da alcool, caffè e fumo, di sifilide, di labirintite, il che spiegherebbe le sue alterazioni di coscienza, ma soprattutto di disperazione, il che spiegherebbe il taglio dell’orecchio e il suicidio. In nessun caso potrebbe essere considerato un “malato psichiatrico”. La sua sarebbe l’opera di una persona sofferta, ma sana.
Della propria sofferenza il pittore parla con grande lucidità in una sua lettera al fratello Theo, scritta nel luglio 1880 e riportata nel libro: “E quindi invece di abbandonarmi alla disperazione, ho optato per la malinconia attiva, per quel tanto che mi consentiva l’energia, in altre parole ho preferito la malinconia che supera, che aspira e che cerca a quell’altra che, cupa e stagnante, dispera.”
Van Gogh coglie perfettamente l’esistenza di due forme di sofferenza melanconica, della perdita, mutilazione dell’altro come parte di sé che lo costituisce come oggetto estraneo, separato. La prima è disperazione calda, capace di transitare nella speranza: senso intenso di mancanza, passione che sanguina e, sanguinando, spinge il soggetto a andare oltre il proprio centro di gravità, a cercare attivamente l’oggetto perduto oltre lo spazio della separazione che l’ha reso distante, indifferente. La seconda è depressione, disperazione fredda, inerzia che soffoca, acqua melmosa, stagnante in cui annega la luce della vita.
In un altro passo della lettera citata, Van Gogh parla della solitudine (a partire dalla propria) associandola alla distrazione dei passanti: “Uno ha un grande fuoco nel suo cuore e nessuno viene mai a scaldarcisi vicino e i passanti non vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per la loro strada. E ora che fare, mantenere quel fuoco interno, attendere pazientemente eppur con tanta impazienza, attendere il momento in cui qualcuno vorrà sedersi davanti, e magari fermarsi?”
C’è un grande fuoco nel cuore di ogni artista, del grande artista capace di scoprire i passaggi segreti che rivelano alla nostra vista il mondo e del piccolo artista capace di cogliere un’angolazione nuova che alloggia in ognuno di noi. Questo fuoco resiste, oltre la morte di chi l’ha ospitato mantenendolo vivo, al “viavai frenetico”, di cui parla Kavafis, al “troppo commercio con la gente”, in cui sciupiamo la nostra vita. L’arte di Van Gogh è fatta di colori e di forme che tolgono dall’oblio i luoghi di vita più usurati dallo sguardo indifferente e li rendono espressivi e significativi. Ci invitano a abitarli con le nostre emozioni e i nostri pensieri, a fermarsi per scoprire un respiro inedito del nostro corpo, una musicalità nuova della nostra anima.
Non è la pazzia supposta o la sofferenza certa che hanno fatto di Van Gogh un grande pittore. De Plato ha ragione nel dire che la creatività è espressione di sanità e non di patologia. Se la follia può coesistere con una grande capacità artistica è perché non è affatto incompatibile con l’essere autenticamente umani e vivi. Il talento creativo affonda le sue radici nel fondo inconoscibile di una percezione trasformativa della vita, intensamente sensibile e esposta al dolore.
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