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La ricchezza di pochi fa il male di tutti

21 Ago 22

A cura di Sarantis Thanopulos

La concentrazione attuale della ricchezza nelle mani degli oligarchi di tutto il pianeta è a un livello maggiore rispetto a quello dell’epoca dei grandi predatori capitalisti tra la fine del diciannovesimo e la prima parte del ventesimo secolo. A partire dagli anni della deregulation, sponsorizzata politicamente da Reagan e Thatcher – i due celebri distruttori dei legami sociali, culturali e politici considerati statisti – la democrazia ha rinunciato progressivamente alla sua più importante funzione e legittimazione: la redistribuzione della ricchezza, la lotta contro le iniquità e la regolazione degli scambi. 

La predazione dei beni comuni nei nostri giorni non è solo un’immane violenza. E’ soprattutto un rischio concreto per la sopravvivenza della specie umana. Poiché percepiamo l’evidenza di ogni grave pericolo che ci inquieta in termini di “catastrofismo” (di modo che siamo lesti a spostare altrove il nostro sguardo), non ci è sufficientemente chiaro che siamo ridotti a dover lottare non per la libertà e la giustizia, ma per non sparire dalla terra. Certo, se non creiamo una società giusta spariremo, ma è importante capire che la trasformazione della società in senso paritario e inclusivo, non è più un ideale da raggiungere in un futuro imprecisato: è diventata una dura necessità che non ammette dilazioni. A furia di obliare l’appagamento dei nostri desideri -che richiede tempo sufficiente per creare relazioni affettive, erotiche e culturali tra di noi e renderle feconde e appaganti (da cos’altro possiamo ricavare piacere e significato per la nostra vita?)- siamo oppressi da una frustrazione permanente che ci rende ottusi e di cui non sappiamo liberarci. Sta a noi curare la frustrazione eliminando la causa della sua produzione o continuare ad affidarci al mercato della sedazione e perire obnubilati. 

La concentrazione della ricchezza è il fattore principale della frustrazione del desiderio e della ragione che minaccia il nostro destino. La globalizzazione dei mercati l’ha favorita enormemente. Alle infinite possibilità di espansione della speculazione finanziaria non corrispondono capacità politiche di regolazione adeguate, perché non esiste una globalizzazione politica basata sui comuni interessi degli esseri umani. Frutto di un’organizzazione economica selvaggia, la ricchezza smisurata di pochissimi ha un enorme potere omologante sul modo di vivere di tutti: uniforma silenziosamente la psiche collettiva alla psicologia dei plutocrati. L’accumulo illimitato di beni è totalmente dissociato da qualsiasi beneficio materiale o psichico a cui chi ne è proprietario possa aspirare. Privo di ogni significato di “mezzo” questo accumulo è “fine” in se stesso. Chi lo insegue è oltre l’onnipotenza narcisistica e la sete di un potere decisionale diretto o indiretto sulla vita degli altri. Ci trascina nel campo di un’alienazione senza argini in cui la performance (il sempre di più, la rincorsa folle della quantità usata come antidepressivo per far fronte a un’esistenza senza qualità, insensata) diventa la regola psichica dominante. 

Il mondo in cui viviamo non è governato da nessuno e gli automi che depredano il nostro presente e il nostro futuro (avendoci tolto memoria e desiderio) lo stanno rendendo ogni giorno più ingovernabile. La distruzione della natura, la povertà massiccia della popolazione mondiale, la precarietà delle relazioni private e pubbliche che non risparmia nessuno, le guerre sempre più vicine a una catastrofe irreparabile globale, parlano chiaramente di un’inversione del cammino dell’umanità che va di pari passo con il trionfo della plutocrazia.  

La democrazia non è ancora un guscio vuoto e il suo potenziale di reazione e di presa sulle coscienze resta forte. Ma la visione d’insieme dell’interesse comune di cui solo essa è capace ha un nemico mortale nella plutocrazia. A questo parassita deve togliere la deregulation, il suo terreno di cultura.

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