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IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI – FENOMENOLOGIA CRITICA DELLA “RECOVERY”

31 Ago 22

A cura di Gilberto Dipetta

La psichiatria di Comunità o, meglio, la salute mentale di Comunità, in Italia, fatte salve le debite eccezioni, dopo aver vagato per alcuni lustri sulle glorie dei muri abbattuti e/o alla deriva di un sociologismo d’accatto, che non è riuscito a contrapporre nulla di valido al modello biomedico, sembra aver ritrovato vitalità coagulandosi attorno al “paradigma” (tutto anglosassone), della “recovery” o del “recovery”: un termine che, al contrario della condensazione semantica dei lemmi inglesi, può significare tutto e, proprio per questo, può significare nulla. In compenso tale “paradigma”, cresciuto negli ultimi venti anni fino al punto da diventare una sorta di marchio di qualità del Servizio che vi si ispira (non si capisce però mai bene con quali modalità) sembra essere “bipartisan”, nel senso che mette ecumenicamente d’accordo tutti i paradigmi in conflitto, poiché non entra nel merito della natura della malattia mentale e delle procedure mediche di trattamento della stessa. Va detto che esso scavalca anche le diatribe tra i vari modelli riabilitativi “tecnici” e taglia il nodo neomanicomiale della residenzialità, indicando nella vita indipendente e nell’autonomia abitativa, nonostante gli esiti o gli stadi della malattia, i suoi punti forti. A prescindere dall’intensità dei sintomi residui questo approccio si centra sulla riaccensione della vitalità del paziente, sulla ripresa della sua “agentività”, e sul soddisfacimento dei suoi bisogni soggettivi, attraverso il coinvolgimento “massivo” del tessuto sociale oltre che di quello sanitario.

Oltretutto, nonostante soffra dello stesso dramma di tutti gli approcci “relazional-soggettivi”, ovvero la scarsa misurabilità e dimostrabilità in termini di evidenze basate su indicatori oggettivi, la recovery gode di citazioni su autorevoli riviste internazionali, che la prescrivono o la dànno per scontata nell’ambito del topic preso di volta in volta in esame. Preciso che chi scrive si muove da una prospettiva attualmente del tutto marginalizzata, che è quella della psichiatria fenomenologica. Pertanto le considerazioni che seguono lasceranno il tempo che trovano. Il lettore benevolo, avvertito di ciò, potrebbe anche fermarsi qui. Ma l’attitudine fenomenologica rimane, anche dentro il clinico più assorbito dall’azione, come un insopprimibile dispositivo di pensiero critico. Pertanto risulta difficile entusiasmarsi per gli slogan correnti, anche se vengono dalla parte buona. Si dà il caso che la fenomenologia, dopo aver costituito l’ossatura teorica del pensiero basagliano, è stata dalla stessa psichiatria post-basagliana deposta come un sudario, spacciata per impaludamento filosofico che poco tornava utile alla magnifiche sorti e progressive dello slancio democratico. Analoga sorte è stata riservata al pensiero psicoanalitico o psicodinamico. Purtroppo l’essersi alleggeriti di questi dispositivi non ha giovato alla costruzione di un paradigma di comprensione e di cura dei mental disorder solidamente fondato, tant’è che l’allora coevo e nascente paradigma biomedico ha finito per diventare l’unica arma di attacco e l’unico scudo difensivo dei fantaccini-psichiatri snidati dalle fortezze manicomiali e mandati allo sbaraglio al massacro territoriale. Fino ad esaurire, il paradigma biomedico, esso stesso la sua corsa, divenendo oggi da miracolo neurobiologico a “palliativo necessario” in favore della recovery. E’ interessante quindi che la recovery rappresenti il punto di confluenza e di ripartenza di due orientamenti che si sono opposti fino allo sfinimento, quello sociale e quello bio-medicale, sfinimento dettato dall’evidenza, sotto gli occhi di tutti, che entrambi, assolutizzati, si sono rivelati fallimentari. Ricordo un testo del 2003, pubblicato da Bollati Boringhieri, che si chiama “Fort Apache: storie e appunti di uno psichiatra qualsiasi”, di Stefano Catellani, che descriveva il clima di assedio in un CSM, paragonandolo al cinematograficamente sfruttato avamposto sulla frontiera del West assediato dai nativi. E’ chiaro che in un clima simile il paziente è vissuto come un "nemico" che ti circonda e ti opprime quotidianamente e i farmaci diventano le pallottole con cui difendersi. Ma non vorrei passare, qui, per una Cassandra al maschile, o per un Cato censor laudator temporis acti. Vorrei piuttosto solo limitarmi, sine ira et studio, a vedere cosa regge di questo mantra della recovery (o del recovery) al filo del rasoio fenomenologico. Intanto è il caso di sottolineare che proprio il dispositivo fenomenologico per eccellenza, l’ epochè, ovvero la sospensione del giudizio, è alla base dell’assioma basagliano “sospendiamo la malattia mentale”. Questo giova ricordarlo, poiché sembrerebbe che i sostenitori della recovery, ponendo l’enfasi sulla “vita oltre la malattia” ricorrano, senza dichiararlo (come è tipico di chi ignora la filosofia ripeterne maccheronicamente i passi), allo stesso dispositivo concettuale di sospensione.




Nel testo “Recovery: nuovi paradigmi per la salute mentale”, del 2019, di Maone e D’Avanzo, scritto a più mani e molto bene, il termine “epochè” non viene citato neanche una volta, eppure sembra che tutto il concetto di “vivere al di là della malattia e della guarigione” sia proprio basato sul dispositivo concettuale dell’epochè fenomenologica. Infatti (se ho capito bene), i sostenitori della recovery dicono : “C’è altro oltre la malattia, non è importante la totale risoluzione dei sintomi, ma la vita (soggettiva ed intersoggettiva) dei pazienti, che, pertanto, può essere approcciata e rivitalizzata anche, e soprattutto, da una sponda non clinica, essendo lo sguardo del clinico piuttosto fossilizzato sulla malattia”. Trascuro qui di soffermarmi sulle implicazioni di ciò che intendiamo per soggettività ed intersoggettività, su cui la fenomenologia si interroga dal suo nascere, ed anche sulla nozione di vita o di mondo-della-vita. Naturalmente non posso fare a meno di notare che l’utilizzo disinvolto, ovvero privo di un dispiegamento strutturale e dinamico, di questi termini, rischia di farne parole passe-partout che tendono a perdere con l’uso (improprio) ogni carica di lancio, finendo in una inerzia priva di significato e dunque di forza motrice. Analoghe considerazioni vanno alla disinvoltura con cui viene utilizzato il termine “esperienza” nella letteratura concernente il paradigma della recovery. L’esperienza vissuta, da Dilthey ad Husserl a Jaspers, in tedesco “Erlebnis”, dunque mal tradotto come vissuto (in realtà è “ciò che io sto provando”), richiede una sensibilità, una capacità di essere colta, costituita, messa in forma, provata, di risonanza, nonché linguistica che è lungi dalla dinamica di sopravvivenza (azione-reazione) tipica del senso comune. La dinamica di sopravvivenza del senso comune (preriflessiva) è un gioco relazionale rapido, accennato, lumeggiato, veloce, che insegue o precede l’azione. E questa dimensione silenziosa e fondamentale sembra essere il maggiore vulnus dei nostri pazienti gravi. Essa ha origine dalla vita nelle foreste, dove intuire l’altro (animale) rispondendo o anticipando con il movimento (lotta o fuga) i suoi schemi motori, significava avere salva la vita. Ciò che accade ordinariamente all’istante tra gli umani non ha per nulla il sapore dell’esperienza vissuta. Ne costituisce, piuttosto, una base imprescindibile. Perché un’esperienza si definisca “vissuta”, essa necessita di un minimo di decantazione, di tempo di dimezzamento, di assaporamento. Non è un caso che tutta la neurofisiopatologia dei mirror neurons ha per base le cellule piramidali della corteccia motoria, ovvero si tratta di un’empatia appena accennata che prepara, come dicevo, alla reazione rapida (ancora prima di capire), e non è affatto in grado di dimostrare le basi biologiche della “risonanza” vissuta. Un altro concetto sbandierato dai “ricoveristi” è che il sé arcaico o minimal self del paziente deve essere messo in immersione ed in esposizione al senso comune del sociale perché possa rimaneggiarsi, cioè a full contact con la vita vera, non con gli schemi della riabilitazione, perché il paziente possa sentirsi persona veramente in grado di autodeterminarsi. Come se bastasse mettere uno che ha difficoltà a deambulare in un affollato corso di passeggiatori, affinchè quasi per induzione mimetica questi cominci a camminare. Certo il paragone è pesante. Ma è noto a tutti come la riabilitazione nel campo psy sia diventata un clone della riabilitazione motoria. Del resto nel termine “disabilità” ci sta tutta (e solo) la dimensione motoria. Non credo che il sociale e il senso comune siano “la piscina di Lourdes”. Dopodichè, secondo i "ricoveristi" il paziente deve essere messo in condizioni di fare ciò che gli piace o ciò che vuole. Come lo vuole (Binswanger aveva parlato, non a caso, ma su basi molto diverse, di rintracciare il “progetto di mondo” originario del paziente, benché mancato, strambo, distorto etc). Mettere il paziente in condizione di partire da ciò che vuole sembra un riformulazione del vecchio adagio “i matti vanno acconsentiti”. Dove cade la possibilità di una dialettica contropolare cade anche il rispetto per l’altro. Si entra in modalità : ti tratto come un bambino, come un matto etc. Qui vengono trascurate palesemente alcune cose. La prima è che, storicamente, la psichiatria nasce (guarda caso) proprio quando l’alienato è già stato rifiutato dal sociale, anzi, a rigor di termini, la psichiatria nasce per “liberare” e “farsi carico” dell’alienato già destinato ai ceppi e, prima ancora, chiuso e spedito alla deriva sulle navi e, prima ancora, arso vivo sul fuoco. Dunque si trascura che se non esistessero gli altri, non esisterebbe la schizofrenia, ovvero che il crollo del paziente è frutto del soverchiamento mondano sulla sua vulnerabilità (che permane al di sotto del guscio protettivo dei sintomi). Questa è una precisazione che sembra dimenticata. Come se il sociale fosse dotato “di per sé” di una carica terapeutica, solo perché noialtri tutti vi siamo immersi. Il sociale è, invece, spietato, è stigmatizzante, è patogeno. Il sociale che i nostri pazienti incontrano fuori dalle istituzioni è un sociale respingente, per niente inclusivo. Se non attraverso la difficile mediazione sociosanitaria. Non ci dimentichiamo che il sociale è patogeno per i soggetti non connotati (ancora) psichiatricamente, basti pensare ai suicidi tra gli adolescenti (o ai femminicidi). Il lavoro di ricostituzione o ricostruzione del sé danneggiato nei mental disorder è, piuttosto, un lavoro di fino o, quantomeno, l’associazione di un lavoro di fino ad un lavoro grossolano o di massa. Il sé psicotico è senza pelle (Anzieu), è un sé anoressico, che non può essere abbuffato da un binge di stimoli. Evidentemente esso non ha le piattaforme enzimatiche per metabolizzare l’abbondanza percettiva e la naturalezza del senso comune. Il “ritiro” che, come è noto, precede e segue lo scoppio psicotico, fino a diventarne la struttura modale stabile, rappresenta una condizione di adattamento e di sopravvivenza ad un mondo i cui suoni, odori, sapori, notizie vengono percepiti dal paziente in maniera assordante, intrusiva, persecutoria. Affermare che questi sono sintomi al di là dei quali bisogna vivere, correndo il rischio dell’impatto con il reale, può apparire come una scorciatoia affascinante e rapida, ma è una scorciatoia che, a dispetto della sua presunta semplificazione, passa sopra un abisso, l’abisso è quello della precipitazione del paziente nel collasso della sua struttura psichica ed esistenziale. Certo, la terapia farmacologica alza abbastanza la soglia di infiammabilità (di precipitabilità), ma di per sé la terapia farmacologica non è in condizioni di agire per causas, ovvero di andare a riplasmare il sé danneggiato. Nè è pensabile che la vicina di casa possa riuscirci con le tenaglie e il martello, con il sale e con il pepe, laddove non è detto che riesca il laser o il microtomo di un lavoro terapeutico mirato e personalizzato. Quando Basaglia pensava di restituire i pazienti al mondo, immaginava una cotrasformazione di pazienti e del mondo. Era chiaro che il reinserimento della follia nella storia aveva il senso di una provocazione alla ragione, perché essa riconoscesse nella follia la sua parte contropolare e non aliena. Questa sintesi dialettica avrebbe evitato alla follia di coagularsi in malattia incurabile e alla ragione di isterilirsi in calcolo disumano. Il progetto rivoluzionario era magnifico, per quanto si è rivelato utopico. Quella fase calda di metamorfosi globale, ad ogni modo, è andata via con lo spirito del tempo. In una società libertaria e competitiva, individualista e calcolatrice, irretita dall’innervazione informatica, come è quella attuale, nessuno ha più interesse a cambiare niente. Solo a sopravvivere e a prevalere. Non abbiamo alcun elemento, in altri termini, per poter dire che la vicina di casa cambia il suo stile di esistenza perché ha degli psicotici nel gruppoappartamento di fronte. La stessa sensazione si prova leggendo tutte le direttive ministeriali volte a dare le dritte sui nuovi modelli organizzativi integrati di presa in carico che mirano all’inclusione sociale, al coinvolgimento diretto, etc, nei quali abbondano i termini di soggetto, persona, individuo, ambiente, senza che venga spesa una parola per definirli (per costituirli). A chi ha praticato la letteratura fenomenologica e psicoanalitica, ed ha esperienza di psicoterapia (personale soprattutto), è più chiaro che la nozione di soggetto o, meglio di soggettività, va costituita rischiosamente ogni volta. Scrivere o sbandierare la parola “soggettività” senza un duro esercizio di costituzione della stessa, ovvero senza una teoria che ne identifichi la struttura modale e trascendentale, che faccia capire che la soggettività tutto è tranne che una cosa scontata, significa che la soggettività sfugge, si fa evanescente come un fantasma. La soggettività, infatti, tanto per essere chiari, non si identifica ipso facto con il soggetto in carne ed ossa. Il soggetto concreto non è che un oggetto tra gli oggetti del mondo, cioè una cosa, una provvisoria incarnazione di ruolo, e tale rimane, facile da spazzare via, senza una visione strutturale, dinamica e trascendentale che ne costituisca e riconosca la soggettività, fondandola sui suoi apriori corporei, spaziotemporali, mondani ed intersoggettivi. Non è una roba, questa, da care giver, da stakeholder  da vicina di casa o da uomini di buona volontà. Queste dimensioni invisibili, poco misurabili, cionondimeno “tangibili” possono accadere solo in una relazione intersoggettiva, poi che se ne conoscono i fondamenti, ovvero quando almeno uno dei due (nel caso del rapporto terapeuta-paziente) sia formato ed educato a cogliere le linee della trama di fondo che appare sgranata e lacerata. Qualunque approccio che millanti un rispetto per la persona o per il soggetto, e che non sia in grado di costituire, in termini affettivi e linguistici, ovvero semantici, la soggettività dello stesso, finisce per porsi, scaricato l’entusiasmo di partenza, nei confronti del soggetto come di fronte ad un oggetto. Prova ne è il fatto che in mezzo secolo, con tutte le buone intenzioni di partenza, abbiamo sostituito la macromanicomialità monumentale con la micromanicomialità diffusa, perdendo completamente la partita dell’inclusione sociale. Da questo punto di vista cala a pennello la critica di Benedetto Saraceno agli psichiatri cosiddetti “buoni”, cioè a quelli che non legano, come facevano (o come fanno) i “cattivi”, i quali psichiatri buoni, però, finiscono per essere direttivi e manipolativi del soggetto-paziente (oggetto) allo stesso modo dei cattivi, poiché essi sanno ciò che è bene o ciò che è male per lui, e dunque anch’essi, in definitiva, alla stregua dei cattivi, passano sopra la sua soggettività. La recovery inoltre, a ben vedere, effettua uno spostamento in avanti della “messa fra parentesi” basagliana. Se Basaglia metteva tra parentesi la malattia, i sostenitori della recovery, invece, dànno la malattia per scontata, la accettano, non ne stanno più a discutere. I malati mentali sono malati e basta. Il passo avanti che fanno è quello mettere tra parentesi, piuttosto, la questione della guarigione. La guarigione non è, da questa prospettiva, il gold standard dei trattamenti. Con o senza i sintomi, bisogna riprendersi (recovery) la vita. Poco importa essere ancora allucinati o deliranti. E sembrano compiere, i ricoveristi, grazie a questa messa in parentesi della guarigione, un vero e proprio aggiramento della clinica. Da un lato questo gli è possibile perché la clinica stessa è ormai un cadavere, svuotata della psicopatologia e ridotta a secca nosografia da mezzo secolo di DSM I-5 TR. Così come la pelle avvizzita lasciata da un serpente in muta viene dallo stesso scalzata. Quasi come se il paziente potesse accedere a diritti, soddisfazione personale, empowerment ed altro, sgusciato fuori nudo dal secco ed asfittico involucro nosografico, ritrovando la propria vitalità nell’azione sociale. Da un’altra parte, però, il rischio di far rientrare dalla finestra ciò che si caccia dalla porta è palese. Nel dispositivo fenomenologico dell’epochè, infatti, la stessa ha un carattere transitorio ed intermittente. Ovvero è un lampo nella notte, che consente di cogliere e essenze ostruite dal buio. Non togliere la parentesi messa (lo stesso “errore” di Basaglia) significa lasciare una luce accesa sul fenomeno, così intensa da sortire lo stesso effetto opposto di una notte in cui tutte le vacche sono nere. Per l’approccio fenomenologico-dinamico i sintomi, altro che spoglia secca del serpente in muta, sono epifenomeni frutto di un processo primario le cui radici si perdono nell’endogeno (nell’impersonale biologico) e le cui ramificazioni sono il frutto di una reattività secondaria (soggettiva, individuale storica) all’irruzione dell’endogeno, Come si può aggirare tutto questo, lasciandolo ad una bieca neutralizzazione chemioterapica (allo stato l’unico trattamento riservato ai mental disorder), senza pensare che questa operazione sia scevra quantomeno di un pesante effetto rebound? Come pensare che la cronicità psichiatrica sia uguale o sovrapponibile alla cronicità diabetica o alla cronicità vasculopatica o autoimmune o nefropatica? Nelle quali i pazienti vivono, in qualche modo, nonostante la cronicità della malattia, perché hanno integri i presupposti trascendentali che fondano il senso comune? Ha veramente un senso la domanda : “Che vita ha il paziente al di là dei sintomi?”. Come se il paziente “avesse” i sintomi e non “fosse”, piuttosto, i suoi sintomi. Ripeto : da una parte l’attenzione attuale alla recovery è salutare e benvenuta, in quanto testimonia della curiosità umana (e della speranza) volta a scavalcare l’ingombro sterico della baraccopoli nosografica degli algoritmi correnti, per cogliere l’intattezza di un paesaggio naturale, da un’altra parte, tuttavia, essa appare come una mossa improntata ad un velleitario neglect, ovvero ad una anosognosia quanto meno pericolosa (la parentesi lasciata aperta). Nonché al disconoscimento di un inaggirabile radicale di “alienazione” e di “insensatezza” che la follia, che lo vogliamo o no, porta dentro di sé. I pazienti, lungi dall’avere ognuno una vita propria, rischiano così, persa la differenziazione psicopatologica, di finire in un calderone di anime prave, imbalsamate dai trattamenti chemio, intorno alle quali allestire la festa della vita, per consentirgli di prendere parte ad un banchetto tenuto da clown e saltimbanchi e personaggi abborracciati (per carità…tutto è meglio degli psichiatri, brutta gente..) che possa fargli bene a prescindere (a partire dalla famiglia “patogena”), solo perché il tutto è azione sociale, forza di trascinamento, indice della loro soddisfazione al di la del sintomo. Stupisce, infine, che la psichiatria italiana, distintasi nel mondo per aver gettato il cuore oltre l’ostacolo (Basaglia è molto ma molto più avanti di Pinel, di Tuke, di Conolly, di Jones, anche messi tutti insieme), debba prendere lezioni dalla psichiatria anglosassone, che conserva i manicomi e poi si diverte nel sagomare operazioni a basso costo (perchè gli psichiatri vengono lautamente pagati in quei Paesi, i loro percorsi formativi sono lunghi e pertanto non possono essere sciupati per parlare con i pazienti o per perdere tempo con moltissimi pazienti in carico). Nelle quali operazioni gestite dai social worker di turno o dal case manager il vicino di casa, l’uomo delle pulizie, il parente o l’amico in fondo, è quasi meglio dello psichiatra, proprio perché non ha uno sguardo stigmatizzante, chiacchiera e fa sentire il paziente “normale”. Ma. Soprattutto, costa poco. Nel senso che, ignorando le determinanti, la patomorfosi ed il decorso della patologia, tratta il paziente come persona e non come malato (ma fino a quando?). Tutto questo mi pare, francamente, illusorio, velleitario, ancora una volta giocato sulla pelle dei pazienti, che vengono “forzati” ad essere come tutti, quando, purtroppo o per fortuna, non lo sono. Sembra, in un mondo che finalmente appare meglio disposto ad accettare tutte le alterità possibili, tutti i diversamente possibili, proprio la diversità psichiatrica non si riesca ancora ad accettare. Mi sembra, abbracciando a volo gli ultimi due secoli, che dopo aver sottratto i pazienti alla gogna del mondo, oggi noi, proprio noi psichiatri, di fatto incapaci di farcene carico, di rispondere agli interrogativi sanguinosi che le loro domande aprono, li restituiamo al mondo pretrattati, precotti, potati, messi in condizioni di primum non nocere. E diciamo che così è meglio che tenerli nelle nostre strutture (perché vogliamo interrompere il mercato che si fa sulla loro pelle). E tutto questo lo chiamiamo “recovery”. In una cosa siamo bravi : a ridefinire con paradigmi trendy il nostro fallimento. Il prossimo passo può essere una recovery della psichiatria, ovvero un generale “rompete le righe”, “tutti a casa”, “abbiamo scherzato”. Del resto il crescente potere dato ad associazioni di familiari e di pazienti (quali pazienti? Quelli che scrivono le autoesperienze di malattia e poi si laureano in psicologia?!), dove non vi sia una solida intermediazione psy, non fa altro che riconsegnare “gli agnelli al lupo”, con impersonazioni reciproche e mutevoli di volta in volta. Ecco, il silenzio degli innocenti che passa, ancora una volta, per il sacrificio degli innocenti. I veri matti non si ribellano, non decidono, non hanno agentività, al di là delle nostre entusiastiche proiezioni. E la follia è compatibile fino ad un certo punto con la vita ordinaria, del senso comune. La psichiatria come esperimento della storia occidentale, in fondo, finisce con l’arresto della storia dell’Occidente. Continuare a formare, oggi, dei medici specialisti a bassissima tecnologia e ad altissime competenze relazionali, come gli psichiatri, non conviene più, visto che si trova un modo, una volta “precotti” in maniera standard i pazienti, di farli spupazzare dalla gente, come gusci più o meno svuotati, in fondo, alla fine, anche simpatici. Ma forse, a ben pensarci, anche la follia è migrata altrove. Magari dove neppure ce lo possiamo immaginare. Certo in un posto non troppo lontano dal mondo in cui abitiamo. O dal corpo che siamo.

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