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IL fanciullo, il delirio dei potenti e l’averla di Saba

19 Nov 22

A cura di Sabino Nanni

Nella sezione del Canzoniere “Uccelli”, Umberto Saba illustra le proprie sensazioni e le proprie fantasie in rapporto ai diversi volatili. Ciascuna di queste poesie descrive metaforicamente diversi rapporti umani. Ecco cosa ci dice ne “Il fanciullo e l’averla”:

 
S’innamorò un fanciullo di un’averla.
Vago del nuovo – interessate udiva
di lei, dal cacciatore, meraviglie –
quante promesse fece per averla!
 
L’ebbe; e all’istante l’obliò. La trista
nella sua gabbia alla finestra appesa,
piangeva sola e in silenzio, del cielo
lontano irraggiungibile alla vista.
 
Si ricordò di lei solo quel giorno
che, per noia o malvagio animo, volle
stringerla in pugno. La quasi rapace
gli fece male e s’involò. Quel giorno,
 
per quel male l’amò senza ritorno.

 

        È qui illustrato un atteggiamento tipico del fanciullo, e del fanciullo che c’è in ciascuno di noi: quando può, regredisce a quella fase in cui gli altri non sono percepiti come dotati di una propria esistenza autonoma, di un’effettiva realtà; essi sono solo un “fascio di proiezioni” (Winnicott, Ogden) la cui ragion d’essere è unicamente quella di soddisfare i desideri del piccolo. Appagati il desiderio di possesso e la curiosità, per il bambino l’averla diviene come un oggetto inanimato che non serve più, e di cui ci si può dimenticare. Solo quando per noia o per malvagità gli usa violenza, il fanciullo riscopre, o scopre per la prima volta, l’esistenza autonoma del volatile e, con essa, il desiderio di libertà dell’uccellino e la sofferenza per esserne stato privato. L’averla, infatti, dimostra in modo tangibile di sapersi difendere, di saper contrapporre la sua violenza alla violenza subìta, di non aver perso il desiderio di volar via, d’essere viva. Come avviene in tante relazioni fra esseri umani, il fanciullo inizia ad accorgersi della realtà del piccolo animale e ad amarlo solo nel momento in cui, entrato in un vero rapporto con lui, lo perde, e per sempre.  
        Non tutti gli esseri umani vivono la stessa esperienza maturativa del fanciullo di Saba: come dicevo più sopra, il fanciullo che c’è in noi ci porta “appena possiamo” a regredire a quell’antica fase della vita in cui il mondo era vissuto come un prolungamento di noi stessi, docile ai nostri comandi. Tale possibilità di regredire si offre a certi esseri umani che dispongono di un immenso potere economico e politico che nessuno riesce a contrastare. Anche i vani tentativi di ribellarsi di chi è sotto il giogo di costoro vengono soffocati grazie ai loro potenti mezzi. Questi vengono messi in moto dalla reazione emotiva con cui, in tali soggetti regrediti, viene preservato lo “universo narcisistico” in cui vivono: è la “rabbia narcisistica” (Kohut) con cui il soggetto tende ad annientare, come se non fosse mai esistito e non avesse il diritto di esistere, qualunque essere, persona o cosa che, per la sua natura, si discosti dalle aspettative onnipotenti del soggetto.
        È vana speranza pensare che possano recedere spontaneamente il delirio d’onnipotenza e l’incapacità di riconoscere la realtà degli altri di costoro. Questi “tiranni pazzi” continueranno ad essere tali finché il loro potere sarà incontrastato e finché la loro “rabbia narcisistica” sarà in grado d’annientare ogni ostacolo. Solo un’esperienza equivalente alla dolorosa “beccata dell’averla” della poesia di Saba potrà metterli in crisi. Ciò, tuttavia, non dipende da loro, ma da noi tutti, se vogliamo difendere la nostra libertà e fare in modo che la salute mentale prevalga sui disegni malati di quei potenti

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