Come era prevedibile, ma non augurabile, il nuovo governo dà prova di una banalità di pensiero allarmante. Il pensiero che lo guida può essere riassunto in tre parole: identità, ordine, confini. In tempi di grandissima precarietà e fragilità sociale la banalità paga in termini di consenso (fino a un certo punto), ma ha effetti molto negativi sulla reale capacità di governare.
Le rivendicazioni identitarie portano sempre a conflitti molto divisivi potenzialmente catastrofici. Il ripetersi delle tragedie non insegna niente. L’identità è inseparabile dall’intesa con altre identità con cui si co-costituisce: prende forma nel gioco delle differenze.
E’ espressione di libertà e mette insieme due forme di particolarità: la particolarità del nostro modo di essere e la particolarità delle nostre esperienze resa possibile dalla differenza dell’altro. Quando si dice di qualcuno che non ha una chiara identità, si vuole dire che non entra mai veramente in gioco con gli altri. L’identità ha a che fare con la capacità di stabilire relazioni personali che impegnano diverse inclinazioni nel modo di essere, che non possono vivere ed esprimersi l’una indipendentemente dall’altra. L’identità è l’originalità, non è una costituzione a priori del nostro sentire, pensare e agire.
Gli italiani (come ogni popolo) hanno diverse cose in comune che li costituiscono come comunità nazionale: le loro “tipicità”, i loro manierismi, le loro sensibilità, le loro passioni e i loro pregiudizi. La loro percezione di sé non è univoca (né potrebbe esserlo), ma respirano negli stessi luoghi, nelle stesse atmosfere e nella stessa storia (anche quando sono nati altrove). Ciò li lega tra di loro. La pretesa del governo di stabilire cos’è il “vero” italiano crea una non identità, un fantasma di identità, un guscio vuoto pronto a diventare prigione. Gli italiani, più di altri popoli, possono prosperare solo in mezzo agli altri (è una fortuna poco considerata).
Il decreto anti-rave, che mina la libertà costituzionale di manifestare, ha come suo bersaglio apparente un fenomeno poco incidente sull’ordine pubblico, per il quale ci sono già i dispositivi legali per affrontarlo. È un decreto insensato sul piano reale che trova la sua vera motivazione nella volontà di affermare un ordine astratto nell’organizzazione della nostra vita, nella pretesa di renderla prevedibile, chiuderla in schemi riproducibili, ripetitivi. È espressione di una paura inconscia del vivere, della sua complessità, delle sue contraddizioni, dei suoi conflitti. L’ordine come fine di sé stesso ha come nemico principale la realtà e come suo alleato la morte delle emozioni.
La “difesa dei confini” è uno slogan che denota presunzione e ignoranza. Il soccorso obbligatorio delle persone in pericolo di vita nel mare (imposto dalle leggi internazionali e dalla nostra Costituzione) nulla ha a che fare con i confini e con i paesi confinanti l’Italia è in rapporti decennali di pace. Più in generale l’invocazione dei confini in epoca di globalizzazione selvaggia e di fenomeni migratori epocali è velleitaria: ciò che si accompagna alla porta rientra regolarmente dalla finestra. Le spese della retorica le fanno decine di migliaia di morti. A furia di gridare al lupo, invocando lo spettro dei barbari, il conflitto vero esploderà in Europa tra i vari sovranismi a buon mercato.
In tempi bui, è di vitale importanza sognare di nuovo il nostro rapporto con la realtà, immaginare spazi e prospettive che ampliano, arricchiscono e rendono più intense le nostre relazioni di scambio, aumentando la nostra capacità di condivisione e collaborazione. Quando l’immaginazione manca, perché inventiamo un passato mai esistito (la verginità sacra e inviolabile della nostra dimora identitaria) come modello del futuro, i conti da pagare sono salati. Governare richiede immaginazione, diversamente ci si scontra con i muri che la propria cecità ha alzati.
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