pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un' acqua in cammino.
Antonia Pozzi
In genere le lettere le lasciano i suicidi.
Tu non hai lasciato niente. Mi rimangono i tuoi messaggi su Whatsapp. L’ultimo :“Come stai?” mio di stanotte, a cui non potevi già rispondere più. Non ti ho presa sul serio. Ma nenache me lo avevi mai detto. Altre volte ti eri sentita impazzire. Ci ironizzavamo, ormai, sulla tua presunta follia. Tra menzogne, fantasie, realtà, sapevamo che la tua “follia” non era che una brutta nube di passaggio. Uno, tra gli stati di coscienza, tanti, che attraversavi. Ma poi c’era sempre dell’altro. Ho anche la tua voce registrata, con quel tuo accento “un po’ così”. Quel tuo italiano con le parole scandite e staccate. Quasi da straniera. Ogni tanto me lo sento. Mi interrogo su cosa non ho capito. Su cosa mi è sfuggito. Su cosa volevi dirmi che non mi hai detto. E mi rileggo anche i tuoi messaggi, dove raccontavi le ombre che ti cingevano come una che le dominava. Come una che mentre soccombe in una coscienza ne trova poi un’altra. Scopro così che inseguendoti tra le tue discontinuità non so niente delle tua realtà. Della tua famiglia. Di chi eri veramente. Se sei mai veramente stata qualcuno. O non piuttosto una creatura nel mondo che non era del mondo. La voce un po’ roca e rassegnata di tua madre, che mi chiama la sera prima del tuo ultimo volo, per dirmi che avevi difficoltà a dormire. Le gocce che le dico di darti, Mi chiedo se te ne avessi date di più? Eri bella, magra e alta, come un canna al vento della vita, che si piegava senza mai spezzarsi. Ero di guardia stanotte quando ho letto la notizia sul trafiletto che mi aveva inviato la tua psicologa. Un tormento, durato fino all’alba. Anche se non ho mai pensato che potevi ucciderti, dopo aver letto della ragazza di trentanni caduta da un balcone, come la tua psicologa, stranamente ho subito pensato a te. Dopo che ho controllato il tuo indirizzo sulla cartella del DH mi è mancato il respiro. Era proprio quello indicato dal giornale. Ci hai smarcati entrambi. Poi all’alba ho telefonato a quel tuo amico che mi avevi inviato come paziente. Mi ha detto che non c’eri più. Siete stati in contatto tutta la notte. Fino alle cinque, non hai voluto che lui ti raggiungesse. In mattinata era troppo tardi. Hai voluto guardarti l’ultimo sole. Uno come me, con trentanni di psichiatria addosso. Che credeva di essere rotto a tutto. Tutti i libri letti. Tutti i pazienti perduti. Ma non tu. Tutti ma non tu. E rimanere così, tra il senso di fallimento e l’accettazione. Tra il daimon e il destino. E dover ricominciare daccapo. Dopo la guardia di stanotte, pressoché insonne, tra Orsola che è arrivata in PS dopo aver ingerito un scatolo di cardioaspirine, delusa dall’ennesimo perduto amore, e Roberto che è tornato delirante, dopo aver distrutto la casa, e che ho dovuto ricoverare, sempre con la croce di te nel cuore, stamane sono andato in carcere. Avevo bisogno del gruppo. Le prigioniere mi hanno contenuto. C’era Nadia. Io ho raccontato a tutte che tu non c’eri più, che mi avevi lasciato così. E ognuna di loro ha raccontato il proprio arto fantasma. Il padre sparato, il marito suicida, il figlio morto. E i tentativi di suicidio di cui ognuna porta il pentagramma scolpito sulla pelle. E ho chiamato Nadia al centro. Le ho chiesto di girarsi di spalle. Aveva i capelli come i tuoi, lunghi e castani. Avrei potuto essere tuo padre. Sono stato il tuo medico. Ma come si fa a trattenere chi vuole andarsene sulla riva della vita? Ho avuto bisogno di fare una carezza a Nadia, ha sussultato quando le ho toccato i capelli. Quando le ho detto addio. L'addio che non ho potuto dire a te. Poi ci siamo abbracciati. E’ stato un modo per trattenerti, un istante in più, prima di dileguarti nell'ombra, sulla soglia di un congedo. Oggi è giovedì. Lunedì ti ho visto l’ultima volta. Quando te ne sei andata ti ho abbracciato. Era quello il nostro congedo. Non ti avevo mai abbracciato. Era come se le braccia mi tornassero al petto. Ho sentito tutta la tua fragilità. Ma ho sentito che ce la potevi fare. E in quel momento era vero. Anche tu mi avevi scritto che rimanevi aggrappata ad un filo, per noi che vedevamo in te cose che non c’erano. Perché non potevi tradirci. Poi sei diventata un’altra. Sei passata oltre. Perché sei rimasta cinque minuti in più nella coscienza di quell’altra? Perché anche questa volta l’altra coscienza non ti ha portato via? Avevi l’età di Sylvia Plath. Rientrato a casa ho sentito che era calato il freddo. Ho pensato a te come Prosepina, che di questi tempi tornava negli inferi, tra le braccia di Plutone. Mi sono addormentato, aspettando la primavera. E’ stato bello incontrarti. Di questo ti ringrazio. Scusami, se non sono riuscito a trattenerti. Ho capito che non ce l’avevi con nessuno. Ma che nessuno poteva obbligarti a vivere. Non ti dimenticherò. Arrivederci negli occhi, nella voce, nei capelli di un’altra te che, presto incontrerò. Con la quale spero che mi andrà meglio. E se sarà così tu, pur non salvando te stessa, sarai accanto a me per salvare un’altra. Lo so che questo mestiere è tremendo. Ma ormai non so fare più niente altro. Tengo insieme, come un mucchietto di fiori di campo, le vite che tu e quelli come te mi avete lasciato, legate allo spago della mia memoria. Addio Maria.
Ho letto questa lettera
Ho letto questa lettera subito, appena scritta da Gilberto. Mi succede di provare a dialogare con Gilberto, subito, tramite lo spazio dei Commenti. Questa volta avrei voluto solo abbracciarlo e lasciar cadere i tanti misteri entro la lettera. Piano piano la lettera ha assunto un altro significato, significato con una universalità per noi psichiatri “trascendentale”. Ecco, questa lettera è una preghiera, va meditata e recitata sull’orizzonte trascendentale sacro del destino umano. Quando siamo stanchi, scoraggiati, incazzati, sconfitti, cerchiamo un nostro luogo e recitiamola sentendoci in una comunità, la nostra, che ha comunque bisogno del Sacro per sopravvivere ed aiutare a vivere.
Grazie, Gilberto,
Corrado