Titolo: Bisognava provarci. Parma e la malattia mentale: dal manicomio ai servizi psichiatrici territoriali
Autori: Valerio Cervetti, Ilaria Gandolfi e Paola Gennari
Editore: Grafiche Step
Anno: 2019
Pagine: 430
Prezzo: € 20.00
Titolo: La relazione che cura. Le voci della salute mentale a Parma
Curatori: Donatella Carpanese e Laura Ugolotti
Editore: Grafiche Step
Anno: 2021
Pagine: 286
Prezzo: € 20.00
È stata decisamente una bella sorpresa leggere i due libri che Fondazione Progetto Itaca di Parma ha pubblicato con Grafiche Step sull’evoluzione della salute mentale nella città emiliana.
Nel primo di essi, Bisognava provarci. Parma e la malattia mentale: dal manicomio ai servizi psichiatrici territoriali, pubblicato nel 2019, Valerio Cervetti, Ilaria Gandolfi e Paola Gennari ricostruiscono la storia del manicomio a Colorno, presso Parma, dall’apertura alla chiusura.
Il volume si apre con una introduzione nella quale Pietro Pellegrini, direttore del dipartimento di Parma, insiste sull’importanza della costruzione di una memoria collettiva in un momento di difficoltà dei servizi, sui quali pesano forse più di prima comprensibili aspirazioni e urgenze di miglioramento della sintomatologia e della qualità della vita da un lato, e istanze di identificazione e di controllo del diverso, di chi crea con la sua sola presenza disordine, dall’altro.
Prosegue Valerio Cervetti scrivendo la storia del manicomio di Colorno e della psichiatria in provincia di Parma a partire da un documento del 1388. Poi la prima casa dei pazzi nell’ultimo decennio del XVIII secolo, un secondo edificio trent’anni dopo in un ex convento e infine – a partire dal 1873 – l’ex reggia di Maria Luigia a Colorno.
Anche in quel di Colorno si affrontano i problemi del manicomio di quegli anni. Ad esempio il rapporto tra direttore medico ed economo, risolto in questo caso a favore del secondo che si trova collocato sullo stesso piano del primo, almeno fino alla legge 36 del 1904. O i timori del direttore Lorenzo Monti di vedere il manicomio divenire ricettacolo indiscriminato di poveri non alienati e ricevere soggetti ricoverati in manicomio senza ragione. E l’inesorabile progredire del numero dei ricoverati, anno dopo anno; si tratta degli stessi problemi cha abbiamo documentato anni fa, con Emilio Maura, per i manicomi genovesi.
Poi, ancora, la Grande Guerra, la follia della trincea e la sua documentazione in un’istituzione lontana dal fronte come appunto è Colorno, da parte della storica Ilaria La Fata, che è intervistata nel volume a proposito del suo bel libro Follie di guerra. Intanto, con la direzione di Ferdinando Ugolotti, si apre il nuovo secolo con il progressivo orientamento organicista della psichiatria, il distacco dei manicomi dalle Cliniche universitarie, l’egemonia della neurologia sulla psichiatria. La crescita dei ricoveri in manicomio seguita all’avvento del fascismo, ma non interrottasi dopo la sua fine, poi la guerra e il dopoguerra, quando la direzione dell’ospedale psichiatrico è assunta da Luigi Tomasi e lo sgomento che prova al suo arrivo nel 1948 di fronte alle condizioni igieniche nelle quali si imbatte. Uno sgomento che – avrebbe notato Ferruccio Giacanelli anni dopo – non arriva però a estendersi alla condizione dei ricoverati.
Le relazioni stilate dal direttore Tomasi colgono molti problemi dell’Ospedale psichiatrico del dopoguerra, ma non sanno intravedere soluzioni; intanto, il numero degli internati passa da poco oltre 600 che trova al suo arrivo a oltre un migliaio quando lascia, vent’anni dopo.
È vero che tra il dopoguerra e l’inzio degli anni ’60 nella cultura italiana ha luogo quella svolta che Valeria Paola Babini ha ben documentato nel volume Liberi tutti, ma quando a partire dal 1964 si abbatte su Colorno quel ciclone che ha nome Mario Tommasini a Parma la situazione è quella.
Nato nel 1928 e cresciuto nella Resistenza e nelle sezioni del PCI parmigiano del dopoguerra, è letturista del gas e ha fatto solo la V elementare quando, nel 1964, entra la prima volta a Colorno e ne ha un impatto sconvolgente; poco dopo diviene assessore provinciale ai trasporti con delega all’ospedale psichiatrico.
È lo stesso anno nel quale Basaglia espone a Londra il suo progetto di distruzione dell’ospedale psichiatrico e quello nel quale si svolge a Bologna il convegno, Processo al manicomio, nel quale si confrontano le posizioni di chi vorrebbe migliorarlo e di chi vorrebbe distruggerlo. Quanto al programma di Tommasini è chiaro da subito, svuotare il più possibile l’ospedale psichiatrico e riportare le persone a casa, dove gli pare naturale che stiano; una casa che, l’autore commenta, fa riferimento al borgo, al quartiere. Che è la dimensione più adeguata, cosa su cui in molti oggi concordano, per le pratiche della salute mentale.
Non è un obiettivo facile né pacifico da conseguire, ma Tommasini incontra alleati fuori e dentro il Partito. Tra altri, a Parma trova nel partito Ercole Ghiozzi e Fabio Visinitini all’Università, Mario Cennamo e Gian Franco Minguzzi a Bologna. Non mancano però neppure i nemici.
Nell’estate 1965 ha luogo il suo primo incontro con Franco Basaglia, poi la visita a Gorizia, la scoperta di un ospedale psichiatrico diverso. Inizia una serie di scambi tra Parma e Gorizia, uno dei cui esiti sarà la pubblicazione nel 1967, da parte dell’Amministrazione provinciale di Parma, del primo volume che rende conto dell’esperienza goriziana, e proprio dell’incontro con i colleghi di Colorno, Che cos’è la psichiatria? (vai al link per il commento al volume).
Nella primavera del ’68 gli infermieri di Colorno sfilano per la strada di Parma vestendo per protesta camicie di forza e mimando il gesto della “strozzina” perché un aumento del personale possa rendere la psichiatria meno violenta. Occorreva però dare un’accellerata, mentre già soffiava impetuoso il vento del ’68, e sono molto emozionanti le pagine nelle quali vengono ricordati i quaranta giorni dell’occupazione dell’ospedale psichiatrico da parte degli studenti di medicina dell’Università, ispirata dallo stesso Tommasini e da personale dell’ospedale, a partire dal medico Antonio Slavich che nel frattempo si era trasferito da Gorizia a Parma, sia in rapporto forse con i problemi che in quel momento attraversava l’esperienza goriziana che per preparare il trasferimento dello stesso Basaglia a Parma, cui Tommasini e Fabio Visentini stavano lavorando.
È il momento della legge Mariotti che favorisce i progetti del vulcanico Tommasini con la nascita dei primi laboratori in città che preparano l’esperienza della fattoria di Vigheffio. L’occupazione non ha conseguito come risultato le dimissioni del direttore Tomasi, ma di lì a poco il suo collocamento a riposo permette l’arrivo come direttore di Franco Basaglia a decorrere dal 1 settembre 1970.
La presenza di Basaglia a Parma come è noto fu breve, già nel 1971 si sposta a Trieste: ma il segno che ha lasciato è stato ugualmente importante. Per proporre un orientamento certo comune ma non del tutto uguale a quello di Tommasini, in particolare nel sostenere l’importanza del lavoro all’interno dell’ospedale psichiatrico come primum movens del cambiamento. Per esprimere valutazioni che ritornano negli anni successivi nelle parole di molti degli operatori che proseguono il lavoro parmigiano e, come conferma Maria Bocchi che successe a Tommasini nell’assessorato, per dare il colpo d’ala necessario a smuovere le acque e dare una energica spinta. Per dare visibilità all’esperienza parmigiana, che con la sua presenza esce dalla dimensione locale.
Nel maggio 1980, Cervetti riporta, Enrico Berlinguer, segretario del secondo partito italiano, visita la fattoria di Vigheffio, al cui funzionamento in quel decennio il libro dedica un’interessantissima e dovuta ricostruzione, punto di eccellenza e simbolo dell’esperienza di Tommasini e commenta di aver incontrato: «un’atmosfera di autentica umanità, di veri rapporti umani che la Fattoria di Vigheffio è riuscita a creare… lavorando sul terreno del risveglio e dello sviluppo dell’umanità di ciascuno. .. che è nostro compito, obiettivo di tutta la nostra lotta, valorizzare pienamente». E ancora: «non bisogna aspettare il socialismo per promuovere iniziative di questo tipo», anche se «queste iniziative si collocano nella visione che noi abbiamo di quello che dovrebbe essere il socialismo nel nostro Paese».
Vigheffio accompagna l’evoluzione dei servizi dell’Emilia Romagna nel corso dei quarant’anni che hano fatto seguito alla legge, aiutando generazioni di operatori e di pazienti a intercettare i problemi della residenzialità, del sostegno all’abitare e dell’inserrimento lavorativo, offrendo in tutti questi campi spunti interessanti sui quali riflettere nell’intervista ad Alberto Mezzadri e Annalisa Resta.
Negli anni ’70, Basaglia e Parma proseguono ciascuno la sua strada nella stessa direzione, ed estremamente attuale mi pare un intervento di Basaglia su L’unità del 14 settembre 1976 che Cervetti riporta, dove leggiamo a proposito della formazione degli operatori:
«Non è certo sufficiente la recente disposizione di legge che pone la psichiatria come materia fondarnentale di insegnarnento, se tale insegnamento non si svolgerà nei luoghi dove viene gestito l’internato psichiatrico. La costituzione di nuove cattedre all’interno della rnedesima logica universitaria, non potrà altrimenti che continuare a formare tecnici addestrati a giocare con le teorie ed incapaci di rnisurarsi con la realtà drammatica dei manicomi e la gestione delle istituzioni pubbliche resterebbe una gestione burocratica della emarginazione sociale a cui la scienza dà il suo avallo. Dobbiarno perciò pretendere che l’insegnarnento riesca a creare tecnici capaci di cornprendere i meccanisrni che impediscono loro di vedere i reali problemi della vita al di là di un concetto ideologico di salute e malattia. È per questo che Psichiatria Democratica al suo congresso invita ad un sereno democratico confronto l’Università: perché non vuole che ancora una volta la psichiatria si trasformi in una catastrofe sanitaria».
Quanto a Tommasini, ormai lontano dalla psichiatria e impegnato con altrettanto entusiasmo in altri progetti di liberazione non nasconde la propria delusione sulla piega che la salute mentale in Italia ha preso negli anni ’80 e ’90, intervenendo nel 1997: «Non accetto che mi sia detto che voglio fare polemica: la verità è che a questo punto si devono affrontare i problemi della psichiatria come problema culturale e di libertà e non solo di costi».
Considerazioni non diverse da quelle di Ferruccio Giacanelli, che fu chiamato dall’esperienza pioneristica di Perugia a dirigere Colorno dopo la partenza di Basaglia, il quale scrsse: «l’egemonia dei nuovi modelli teorici non va certo nella direzione di quelle che erano state le linee di forza della psichiatria così faticosamente costruita, come a Colorno, a partire dalla battaglia antimanicomiale».
La seconda metà del volume è costituita da una serie di interviste ai protagonisti dei fatti da parte di Ilaria Gandolfi. Come quella a Tiziana Belli, che fu segretaria di Basaglia durante il periodo parmense e lo ricorda così: «Ho auto la fortuna di vederlo nel suo ruolo e anche fuori, posso dire che aveva doti umane fortissime». Quanto all’impatto che il suo arrivo ebbe sul personale di Colorno: «Fu molto contraddittorio, nel personale c’erano divisioni e schieramenti. Era facile capire quale fosse l’atteggiamento di una persona nei confronti della nuova direzione, bastava osservare come si comportava alle riunioni del mattino. Ogni reparto mandava un infermiere che riferiva sugli avvenimenti della giornata precedente e sui progetti per quella attuale; mettiamo che uno di questi dicesse: “Tizia ieri è stata molto agitata”. Basaglia subito chiedeva: “Ma perché era agitata?”. E lì già si vedeva da che parte stava quell’altro: c’era chi si limitava a rispondere: “Era agitata”, dando segno di non voler essere coinvolto nell’esprimere un giudizio, nel fare un progetto; e chi invece rispondeva, chiedeva a sua volta, provava a collaborare».
È duro anche il suo pensiero sugli anni ’80: «Gli anni ’80, quelli della Milano da bere, della tv commerciale e del primo berlusconismo, ci hanno tolto un poco della nostra capacità di partecipare alle miserie altrui. Un mondo fatto di arrampicatori sociali non prevede attenzione verso chi resta indietro».
Nelle parole dello psichiatra Vincenzo Scalfari, come in quelle di molti prima e dopo di lui, ciò che più colpiva e rimaneva dell’ospedale psichiatrico era la puzza. Un altro psichiatra, Stefano Mazzacurati, scrive che soltanto chi è entrato in Ospedale Psichiatrico ha potuto sentire quel clima, annusare quegli odori. Anche l’assistente sociale Carla Lottici ricorda del suo primo ingresso a Colorno: «Ciò che mi ha colpito di più è stato un odore intenso, impregnante. Di fumo, di una moltitudine di persone costrette a vivere nello stesso spazio. Lo stesso identico odore che ho ritrovato in tutti gli Ospedali Psichiatrici». Ed Elena Boriosi, vedova di Ferruccio Giacanelli, nel ricordare gli anni nei quali faceva con il marito la spola con Gorizia per portare a Perugia i metodi di Basaglia, racconta una visita all’ospedale psichiatrico dell’Aquila: «ricordo un biancore quasi accecante, un ambiente perfettamente lindo, dipinto, inamidato, persino i vestiti dei malati e le divise degli inferrrneri sernbravano appena stirate! Solo su due cose evidentemente non era stato possibile stendere una mano di bianco: il trascinarsi dei malati da un cortile all’altro, che era lo stesso ciondolare degli ospiti di tutti gli Ospedali Psichiatrici del mondo; e 1’odore, il solito odore inconfondibile di manicomio, di cui evidentemente erano impregnati i muri». Ho visitato anch’io l’Aquila nel 1984, e lo spettacolo e l’odore erano sempre quelli (sull’odore dell’O.P. ricordo le pagine 39-43 del mio Ritorno a Basaglia?).
Della fase successiva alla legge, Scalfari ricorda la polemica che ebbe luogo a Parma come in altri luoghi sulla costruzione del SPDC e i rischi di neomanicomializzzione e medicalizzazione che venivano colti in prospettiva, accanto a quelli che definisce di “forensizzazione”. Mazzacurati ricorda Basaglia ai tempi nei quali era relatore della sua tesi:«Ricordo una figura dolce, altissima, molto paziente e molto comprensiva. Lui, grande psichiatra, correggeva gli appunti di un giovane studente come me: era attento a levare le più piccole sbavature, a rinunciare a ogni ridondanza. A quei tempi lui stava già a Trieste, quindi per lavorare ci vedevamo negli hotel: seduto accanto a me, al ristorante, mentre leggeva il mio lavoro sbocconcellava le patatine del mio piatto. Ricordo poi una volta che, mentre stavamo parlando,arrivò Mario Tommasini (…). Si abbracciarono: un abbraccio commosso, forte, potente, da Grecia classica. O da Far West. Un gesto che mi colpì moltissimo e mi insegnò più di tante parole». Lottici ricorda, a proposito delle novità introdotte da Basaglia, «Io, grazie ai primi stipendi, avevo comprato una Diane, una di quelle auto decapottabili: facevo tantissimi spostamenti in compagnia dei pazienti, perché non ci si poneva il problema della responsabilità».
Non mancano storie commuoventi, come il ritorno alla parola e al paese di Valentino dopo trent’anni di catatonia e di ospedale psichiatrico, raccontata dalla psicoanalista Maria Zirilli, che si chiede se qualcosa del genere sarebbe possibile oggi, quando la psichiatria ha scelto di appiattirsi sul paradigma medico e la società è molto meno accogliente.
Un quarto psichiatra, Giacono Conserva, scrive della situazione di oggi: «Mi sembra che i servizi oggi siano assediati da tre ordini di problemi, ugualmente stringenti: una massiccia burocratizzazione, un calo delle risorse, e, all’esterno, un insieme di trasforrnazioni – aumento della povertà, crollo delle tradizionali strutture associative e organizzative, individualisrno estremo, tossicodipendenze, fuga in realtà “non reali” come social network, tv e videogiochi, per dirne alcune – che cornplicano ulteriormente la situazione». E un quinto, Carlo Marchesi, attribuisce responsabilità anche alla trasformazione del mondo del lavoro, dove è diventato più difficile di allora per i pazienti inserirsi. Mentre Marcella Saccani, della Fondazione Mario Tommasini, ricorda quando un quartiere adottò una malata, per permetterle di lasciare l’ospedale psichiatrico. Sarebbe possibile oggi?
È particolarmente simpatica l’intervista a uno degli infermieri di Colorno, Franco Piccoli, una voce senz’altro fuori dal coro, il quale di Basaglia dice ridendo: «L’era un po’ màt! Aveva degli strani tic». Quanto alle sue assemblee: «Tutte le mattine c’era da andare a rapporto: c’erano queste riunioni in cui bisognava raccontare cosa succedeva nei vari reparti. E nisòn vreèva andèrog, d’infermér! Ho partecipato qualche volta, perché magari il giorno prima avevo accompagnato qualche malato in visita fuori; dovevo spiegare com’era andata, e i comportamenti di Tizio, di Caio, di Sempronio».
Ricorda come la contenzione fosse dura da estirpare; ma in un caso c’era riuscito proprio lui, lui che non era allineato col Partito, non vedeva le novità della nuova linea, non capiva bene cosa dicessero Basaglia o Giacanelli perché non era un professore, però era il primo quando c’era da organizzare intrattenimenti, gite e iniziative. E ce ne sono stati tanti, in ospedale psichiatrico, di tipi come questo: persone dal cuore grande, cui l’abitudine e l’insegnamento dei colleghi più vecchi aveva fatto perdere la capacità di scandalizzarsi, di vedere nel malato un uomo uguale a se stessi in dignità e aveva forse insegnato troppa rassegnazione (vai al link).
Certo, come ricorda Maria Bocchi, fare la nuova psichiatria, con tutto da inventare, non era facile – non è ancora oggi facile, aggiungerei – e fondamentale fu (ed è) la collaborazione delle famiglie.
Il superamento di Colorno e l’esperienza libertaria di Mario Tommasini furono soprattutto storia di cittadinanza attiva, di associazioni, di cooperative, a partire dalla storica cooperativa sociale Sirio, e si estende dal campo della salute mentale a quello delle alternative al brefotrofio, al carcere e a tutte le istituzioni totali. Ricordo che fu proprio a proposito del resoconto di una visita di Franca Ongaro a un’esperienza di alternativa alla carcerazione minorile a Parma lanciata da Tommasini su una rivista patinata, che m’imbattei per la prima volta nel suo nome.
Impreziosisce il volume, e fornisce l’anello mancante tra i libri che Antonio Slavich ha dedicato alla sua esperienza a Gorizia (vai al link) e a Ferrara, delle quali ho scritto in un volume collettaneo curato da Patrizia Guarnieri sulla psichiatria nell’Italia tra Trento e Trieste (vai al link), un articolo con il quale Slavich descrive la sua esperienza di due anni a Parma, dove era andato in avanscoperta con Lucio Schittar per preparare l’arrivo di Basaglia. Il ricordo di Slavich comincia con l’occupazione studentesca, incominciata il 2 febbraio e terminata il 9 marzo del 1969, dell’androne dell’ospedale psichiatrico, guidata tra gli altri da Vincenzo Tradardi. Si susseguono, nel racconto di Slavich, le assemblee tra studenti e malati, le viste dei giornalisti, quelle di studenti da altri luoghi a dare manforte. Poi, dalla metà di febbraio, il farsi più duro dello scontro: la spaccatura degli infermieri, che in parte appoggiarono e in parte osteggiarono l’occupazione, la contro-occupazione da parte di un gruppo di infermiere più combattive, poi l’incursione da parte di un gruppo di neofascisti e la reazione degli occupanti e pochi giorni dopo la fine dell’occupazione che lasciava molte emozioni nei protagonisti ma pochi risultati duraturi
Sono pagine che Slavich scrive con grande emozione, e meritano davvero di essere lette. A Slavich, Schittar e Iaia Fusari furono affidate in quel periodo da Tommasini anche incombenze nelle strutture alternative che, nel frattempo aveva aperto fuori dall’ospedale psichiatrico,
Quanto alle corsie, i metodi che Tommasini era riuscito a promuovere nei centri sparsi sul territorio erano ancora lontani e la lotta antiistituzionare era dura a Colorno come altrove; l’oggetto principale del contendere tra la piccola pattuglia dei basagliani e i colleghi tradizionalisti era la contenzione. Non legare chiedeva, come chiede sempre, determinazione e sacrificio e tanto lavoro, ma qualcosa si cominciava a ottenere. Uno spettacolo con Dario Fo segnò una prima vittoria per Slavich, appena diventato primario. Poi qualche episodio di vita manicomiale: una donna legata da molti anni finalmente slegata e poi col tempo restituita alla sua casa, una rivolta tra le pazienti che confessa di aver domato con uno schiaffo ragionato, un gesto certo poco basagliano ma efficace in quel caso che fu l’unico nella sua carriera e certo non consiglia di emulare.
L’arrivo di Basaglia reduce da un lungo viaggio negli Stati Uniti alla scoperta dei successi e dei limiti del welfare kennediano e da uno più breve a Londra per incontrare Ronald Laing, come direttore a partire dal 1 otrtobre del ’70 attirò nuovi collaboratori, alcuni dei quali lo avrebbero seguito a Trieste e divennero protagonisti di quell’esperienza: tra gli altri Franco Rotelli con la moglie Giovanna Gallio, Luciano Carrino e Peppe Dell’Acqua e tra i volontari Assunta Signorelli e Giusi Re.
Slavich si sofferma con evidente compiacimento e, direi, con una nostalgia che si percepisce facilmente – credo che abbia lavorato a queste pagine in un periodo nel quale lo incontrai l’ultima volta a Genova, e la salute era già molto malferma – l’accoglienza riservata a Basaglia e ai suoi oltre che da Tommasini e da Visentini che coinvolse Basaglia nell’insegnamento e lo appoggiò in politica, e la vita un po’ bohemienne del gruppo basagliano, rinvigorito dall’arrivo di tanti giovani, indulgendo anche su qualche nota sulla sua vita privata delle quali è di solito più avaro nei suoi scritti.
Ho scritto tutto di questo libro tanto ricco? Certamente no, e rimando senz’altro chi è interessato a conoscere questo “caso particolare” in quegli anni della lotta contro l’ospedale psichiatrico e per l’affermazione di una società più giusta – quello della città di Parma e di quell’uomo straordinario che fu Mario Tommasini – alla sua lettura completa, che vale senz’altro la pena.
Questo primo volume, infatti, è il racconto affascinante di un’epopea, cui le figure di Tommasini e Basaglia e le testimonianze dei protagonisti a partire da Slavich danno oggi quasi il sapore di un mito.
Il secondo volume, La relazione che cura. Le voci della salute mentale a Parma, curato da Donatella Carpanese e Laura Ugolotti e pubblicato nella stessa collana nel 2021, sempre propiziato dalla Fondazione Progetto Itaca, parla invece di anni inevitabilmente più grigi, ma non meno faticosi per chi non ha voluto perdere la spinta dell’inizio.
Pietro Pellegrini, oggi direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze di Parma, nel capitolo introduttivo che porta significativamente il titolo, riferito al volume precedente, “Bisognava riuscirci”, traccia l’evoluzione dei servizi parmensi a partire dalla Legge 180 in un’Italia che è andata progressivamente cambiando e ponendo nuove esigenze e nuove domande a chi si occupa della salute mentale. E, a proposito di oggi, individua un’esigenza nella persistente un sapere critico attraverso il quale: «il coraggio, la creatività e i valori umani, nelle relazioni di cura e in quelle sociali, rappresentano l’elemento di fondo, penso il più tenace, che lega gli anni Sessanta ad oggi».
Tra gli altri, mi piace questo passaggio, che tocca un argomento che sembra pesare oggi sui nostri servizi come una cappa che rischia di farsi talvolta soffocante e un problema che gli sta particolarmente a cuore:
«È necessaria una spinta etica e politica che riconosca alla psichiatria la dimensione della cura; non un ruolo di controllo, di custodia e nemmeno collaterale all’ordine pubblico, per ridurre e contenere i “pericolosi a sé e agli altri” o i soggetti “disturbanti”. Una psichiatria che conserva nella sua cultura e nelle sue pratiche il sapore critico, teorico ed esperienzialc, arricchito delle componenti filosofica e sociale, antropologica, che sono in grado di vedere diversarnente, in modo alternativo, ciò che appare, di cambiare costantemente i riferimenti di norma, normalità e adattamento. Un processo di soggettivazione, unico e irripetibile, nell’ambito di relazioni che vedono sempre attivi una pluralità di aspetti, solo in parte espliciti e conosciuti. Questo rende essenziale la ricerca, la consapevolezza del lirnite, a scanso di ogni onnipotenza, a favore del riconoscimento della fragilità dell’esperienza umana e di un superamento di culture che, attraverso la posizione di garanzia, considerano irrealisticamente lo psichiatra in grado di controllare (magicamente?) il comportamento del paziente».
Il nostro lavoro è, certo, inevitabilmente talvolta gravato anche da necessità di controllo dell’altro, il più rispettoso e responsabilizzante possibile, ma non dobbiamo insomma dimenticare che la cura, scrive in questo volume Borgna del quale abbiamo da poco recensito L’agonia della psichiatria (vai al link): «dovrebbe essere sempre più aperta alla ricerca di quella che è la nostra interiorità, e di quella degli altri da noi, e alla ricercaa di condizioni ambientali di vita sempre più umane e gentili».
Poi il discorso si snoda dal superamento dell’ospedale psichiatrico di Colorno nei vent’anni che seguirono la Legge, il ruolo della politica e le amministrazioni, la chiusura più recente degli OPG alla cui ricostruzione Pellegrini ha dedicato un interessante volume, il tema dell’imputabilità e la gestione degli autori di reato, i problemi vecchi e nuovi dell’organizzazione dei servizi, quello degli SPDC, l’organizzazione del DSM e l’integrazione con l’Università, il tema della residenzialità tradizionale e la Fattoria di Vigheffio che continua ad accompagnare la psichiatria di Parma come luogo dove sperimentare soluzioni diverse e mantiene l’impronta che Mario Tommasini le ha dato, il contributo più in generale delle cooperative, il rapporto con le famiglie, i luoghi della riabilitazione che devono rimanere luoghi vivi e non obbedire a regole igieniche da sale chirurgiche, i nuovi strumenti come il Budget di salute, il rapporto con le aree della neuropsichiatria infantile e del trattamento delle dipendenze. E poi l’intervento sociale da parte del Comune, che è la seconda gamba che deve affiancare quello sanitario in salute mentale: prevenire, curare, riabilitare si dovrebbe coniugare con abitare, socializzare, lavorare, dice Giovanni Caselli di Progetto Itaca.
La seconda parte del volume è aperta da due casi clinici, quello di una donna con problemi oncologici e di un uomo deciso a suicidarsi, cui seguono anche in questo caso tante testimonianze raccolte da Donatella Carpanese: madri, padri, soggetti, coniugi, fratelli. Italiani e stranieri. Sono storie interessanti, ciascuna a suo modo. Sono occhi diversi con i quali, dall’altra parte, è possibile vedere le cose. Così scopriamo che nel vissuto di una paziente l’SPDC può esserere “l’anticamera dell’inferno”. O nel racconto di una mamma: «Mia figlia ha due facce. Una quando è alle visite mediche, quando racconta un cumulo di bugie e l’altra quando è in casa. Il nostro quotidiano è un incubo, non si riesce a parlare, manca di rispetto, ha scatti d’ira improvvisi, insulta in continuazione. Non gestisce la casa, c’e un disordine spaventoso, sporca tutto e non fa nulla, accatasta le pentole, i soldi spariscono, devo controllare tutto. Ruba le mie cose, rompe tutto. Tra noi va malissimo, ho chiamato il suo psichiatra più volte senza riuscire a parlargli. Avrei diverse cose da dirgli ma non riesco a fissare un colloquio. Non so se è per la privacy, ma quando io lo cerco richiamano lei, che così si arrabbia e quindi nascono discussioni tremende». O in quello di una moglie: «Quando l’utente si vuole fare aiutare, i servizi offrono diversi strumenti, che sono indispensabili. Il problema però sorge quando l’utente, come Francesco, non accetta il ricovero, non assume la terapia di sua volontà, quando il disturbo a volte lo rende aggressivo, perso nei suoi pensieri deliranti. Mi sono sentita tutte le volte invasa quando era necessario un Tso, perché entravano in casa anche cinque, dieci persone tra psichiatra, infermiere, carabinieri, personale dell’ambulanza tutti a invadere lo spazio privato della casa ».
Insomma, bisognerebbe avere tempo e attenzione, per tutti. Trovare per ciascuno il giusto equilibrio, la giusta attenzione. In fondo, si è usciti dai cameroni coi letti allineati dell’ospedale psichiatrico anche per questo: perché ciascuno avesse il suo ascolto, quello di cui necessita, rimanendo nella sua casa, tra le sue cose, con coloro che gli sono cari.
Dal capitolo conclusivo di Pellegrini, vorrei trarre queste parole, nelle quali mi pare difficile che ciascun operatore non si senta rappresentato:
«La psichiatria opera nella comunità ma da sola non può fare salute mentale. Una psichiatria spesso idealizzata e svalutata, ritenuta onnipotente e impotente, criticata e trascurata per essere poi invocata con urgenza; a questa psichiatria, ai suoi operatori, occorre voler bene, preservarli come bene comune. Un dedicarsi agli altri che apre a mondi sconosciuti, spesso anche a se stessi, talora di disperazione e morte ma sempre umane opere d’arre. A questa psichiatria, fatta di competenze scientifiche, relazionali ed etiche, in altre parole di professione e vocazione, s’ispirano tantissimi operatori. È un lavoro non facile, logorante, come lo è il confronto con molte esperienze estreme dove nel tunnel sembra non esserci luce; negli abissi del dolore inesprimibile occorre stare a volte in silenzio, ad-sistere. Una psichiatria invisibile e gentile, colta e capace con pazienza di ricreare fiducia, speranza e futuro comune».
A questa psichiatria, mi pare che anche la pubblicazione di questi due volumi possa dare per la sua parte un contributo.
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