Storicamente, l’approccio neurobiologico in psichiatria, che dalla fine dell’Ottocento si dispiega su tutto il Novecento e oltre, ha trovato una prima parziale alternativa nella psicoanalisi. Parziale intanto perché la psicoanalisi come terapia è sorta e si è sviluppata nell’ambito di quel comparto di disturbi psicologici classificati come nevrosi e non nel trattamento delle psicosi e delle forme gravi dei disturbi della mente. E poi perché, soprattutto negli intenti e nelle teorizzazioni del fondatore, la psicoanalisi ha sempre mantenuto, sul piano teorico, un contatto con la biologia, se non altro nella proposizione della centralità della libido, come impulso biologico fondamentale che opera nell’essere umano.
Proprio questa radice biologica è stata oggetto di una presa di distanza da Freud da parte di un suo fervente ammiratore, l’influente psichiatra svizzero Ludwig Binswanger che, negli anni ’20 e ’30 del Novecento, si propose di fornire un nuovo quadro teorico alla pratica terapeutica psicoanalitica, partendo da un presupposto che, con la solita chiarezza, Umberto Galimberti così riassume: “La psicoanalisi, come è stata ideata da Freud, soffre di una sconnessione tra impianto teorico da un lato e prassi terapeutica dall’altro, nel senso che la teoria psicoanalitica risponde all’ideale esplicativo che riduce le manifestazioni propriamente umane a epifenomeni di una realtà biologica indagabile con i metodi delle scienze naturali, mentre la prassi terapeutica risponde a quell’ideale di comprensione del modo propriamente umano di essere-nel-mondo a cui prima la psicopatologia di Jasper e poi l’analisi esistenziale di Binswanger hanno dato un’adeguata espressione teorica”[1].
La sconnessione che lamenta Galimberti può essere quindi risolta avendo come riferimento la fenomenologia. E, in effetti, declinante la psicoanalisi, la psichiatria fenomenologica si presenta sulla scena come alternativa alla psichiatria biologica. I padri filosofici della nuova corrente psichiatrica sono numerosi e anche alquanto diversi tra loro, che qui non è possibile rappresentare in modo adeguato. Mi limito a citare quelle che appaiono le due fonti filosofiche fondamentali: Martin Heidegger e Maurice Merlau-Ponty.
Già nella sua prima opera, Essere e Tempo (1927), che poi sarà anche l’opera più celebre e influente, il filosofo tedesco (che – detto tra parentesi, ma è una parentesi di piombo- non disdegnerà di diventare Rettore dell’Università di Berlino in piena caccia nazista ai colleghi ebrei che verranno espulsi in massa dall’Università per far posto ai professori “ariani”), porrà i capisaldi della sua fenomenologia come terza via tra idealismo e materialismo: la mondanità dell’uomo, il riconoscimento del carattere di storicità e di temporalità dell’esistenza, contro l’ambigua astrattezza della metafisica, il superamento della distinzione tra soggetto e oggetto.
La separazione soggetto-oggetto è artificiale, dice Heidegger: l’uomo è dasein (esserci), è nel mondo, il che significa che è necessariamente insieme agli altri, è mitdasein (essere insieme, condividere). La dimensione del mitdasein è inevitabile. Noi nasciamo “gettati nel mondo”. Si tratta di trasformare questa condizione in un progetto, scrive il filosofo tedesco.
Il mondo si presenta già fatto, una realtà dove non c’è nulla da comprendere. L’individuo quindi vive in una condizione non autentica con una sensazione di angoscia e di smarrimento, rafforzata dalle “deiezioni della chiacchiera”, dalla dittatura del “si dice” e del conformismo.
La centralità della persona e del rapporto empatico tra operatore e paziente, la critica del si deve e della inautenticità della vita diventeranno quindi i punti teorici fondamentali di orientamento della nascente psicologia fenomenologica.
D’altro canto, in Merlau-Ponty troviamo una critica radicale alla neurofisiologia in favore di un approccio olistico. Secondo il filosofo francese, così come l’organismo non è riducibile alla somma delle sue parti, anche il comportamento non è possibile inquadrarlo come semplice somma di reazioni (stimolo-risposta), bensì come un progetto. Anche in Merlau-Ponty prevale quindi l’aspetto intenzionale, volitivo, soggettivo, che è ben chiaro nella percezione che, come un fascio di luce, illumina i profili del percepito.
L’altro aspetto che sia Heidegger che Merlau-Ponty mettono in luce è la netta separazione tra uomo e animale. I comportamenti tipicamente umani si fondano sulla libertà del volere ed è qui che si distinguono radicalmente dai comportamenti animali che invece sono dettati dalla costrizione dell’istinto. Non commento qui il contenuto filosofico di queste tesi, noto solo, en passant, che la fenomenologia che si presenta come severa critica della filosofia cartesiana, su questo punto è ferma a Cartesio, al suo antropocentrismo che qualifica gli animali come automi privi di anima. Anzi, verrebbe da dire che la fenomenologia spinge l’antropocentrismo al limite del paradosso, quando sia Husserl che Heidegger affermano che l’uomo è l’unica entità “aperta all’essere” e quindi assolutamente eccezionale e unica.
Tornando alla psicologia, possiamo affermare che la psicologia fenomenologica si pone come descrittiva, a-teorica, pre-teorica che coglie le cose così come si danno. Non avendo una griglia interpretativa, coglie, nello stupore di fronte al mondo, l’atteggiamento umano essenziale. Non avendo una coscienza sovrimposta, ma fenomenologicamente costituita nell’interazione con il mondo, mette in primo piano il corpo. Il mio corpo, scrive Merlau-Ponty, rappresenta il mio punto di vista sul mondo. “Noi siamo al mondo in virtù del nostro corpo e percepiamo il mondo con il corpo”[2]. Le relazioni mente corpo quindi sono un falso problema, un lascito del dualismo cartesiano, dicono i fenomenologi; ciò che conta è l’intenzionalità umana e le sue modalità di essere -nel-mondo. La malattia psichiatrica quindi non esiste, esistono diverse modalità di essere-nel-mondo, che possono essere più o meno funzionali al contesto sociale in cui opera l’essere umano. Compito della psichiatria fenomenologica è quello di “sostituire alla ‘spiegazione’ della malattia, tipica della psichiatria organicista, la ‘comprensione’ della modalità specifica con cui il soggetto, sia ‘sano’ sia ‘folle’, esprime la sua modalità di essere-nel-mondo”[3].
Su queste premesse, prende piede, negli anni ’60, il movimento internazionale dell’antipsichiatria, di critica radicale non solo alla teoria, ma anche alla pratica dell’assistenza psichiatrica, centrata sull’istituzione manicomiale. L’Italia, con Franco Basaglia, si colloca all’avanguardia della battaglia per la liquidazione dei manicomi che verrà vinta nel 1978 con una legge che giustamente verrà ricordata con il nome dello psichiatra veneziano. Una rivoluzione di portata epocale che dimostrò che ciò che sembrava impossibile era invece fattibile, liquidando il concetto giuridico secolare di pericolosità del malato di mente, che per questo andava custodito, violentato e represso. Con la liquidazione dei manicomi, scrive Basaglia, si produceva “un capovolgimento dell’ottica tradizionale della psichiatria”[4].
Una rivoluzione quindi, che è anche il tema centrale dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, L’agonia della psichiatria, Feltrinelli 2022. Borgna ha diretto per anni la psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara dove ha avuto modo di sperimentare una nuova pratica psichiatrica all’insegna delle idee di Basaglia, che sono il filo conduttore del libro. “Una nuova rivoluzione sarebbe oggi necessaria- scrive lo psichiatra autori di libri molto apprezzati dal pubblico – quella che ridia slancio e passione ai contenuti della legge di riforma […] come non riflettere anche sulla dilagante somministrazione dei farmaci, che sono ovviamente indispensabili e che hanno (anche) consentito di realizzare la rivoluzione di Basaglia ma che da soli non sono bastati a rendere umani i manicomi?”[5].
E allora quali sono i cardini della rivoluzione che propone lo psichiatra piemontese?
Due le premesse, del resto già chiarite dalla fenomenologia: 1) continuum salute-malattia; per cui non ha senso fare una diagnosi psichiatrica perché non c’è un disturbo ma c’è una modalità di essere-nel-mondo che ritroviamo sia nei sani che nei malati; 2) centralità della relazione tra due esseri umani, lo psichiatra e la persona che soffre, che condividono le difficoltà della vita.
Conseguenza pratica per lo psichiatra rivoluzionario: ascolto e farmaci che “moderano e curano” (p. 109). Borgna dedica molto spazio, anche con esempi clinici (pardon, di vita), all’ascolto, che mostra indubbiamente la sua grande umanità e gentilezza d’animo, ma pare davvero singolare che nelle 120 pagine che compongono questo scritto non siano nominate nemmeno una volta le parole psicologia, psicologo, psicoterapia.
Tuttavia, a ben vedere, anche negli scritti di Basaglia troviamo, a più riprese, una critica tranchant della psicoanalisi e del suo nascere e muoversi in un orizzonte classista, borghese, che non può comprendere le sofferenze dei proletari[6]. In generale le psicoterapie vengono guardate con sospetto, se non apertamente criticate, come quando lo psichiatra veneziano, dopo l’approvazione della sua legge di riforma, paventa “l’arrivo di psicoanalisi, behaviorismo, terapie relazionali, ecc., che, altrove, hanno lasciato intatto sia il processo di emarginazione sociale sia la logica manicomiale che lo giustifica”[7]. E se anche le psicoterapie possono essere funzionali al sistema sociale diseguale che crea i disturbi mentali, che fare?
Basaglia, nell’ultimo scritto della sua vita, confessa in modo trasparente che, alla demolizione del manicomio e della teoria “positivista” che lo giustificava, non ha fatto seguito una teoria che potesse immaginare e tracciare un nuovo percorso in psichiatria. Siamo, scrive Basaglia nel 1979, un anno dopo la riforma, “in un vuoto ideologico”. Ma egli non ha alcuna intenzione di lavorare a “una nuova scienza e a una nuova teoria”, anzi occorre rifiutare “un nuovo codice interpretativo” che ricreerebbe l’antica distanza tra medico e paziente. Da qui l’unica strada praticabile. Esporsi al rapporto con chi soffre senza la mediazione della teoria e della diagnosi[8].
Borgna, che è su questa stessa linea, conclude il suo scritto affermando “Non so se questo mio libro sia riuscito a ridare vita a una psichiatria in agonia” (p. 118).
No, professor Borgna, purtroppo no. Per rivitalizzare qualcuno occorre entrare in relazione, parlare una lingua che l’altro comprenda e che quindi gli consenta di apprezzare l’innovazione. La psichiatria fenomenologica rifiuta, per statuto teorico, il concetto di disturbo psichiatrico, i correlati biologici del disturbo, i contenuti tecnici e scientifici delle terapie psicologiche e dei programmi di riequilibrio della salute complessiva dell’essere umano (nutrizione, attività fisica, gestione dello stress), contesta alla scienza lo stesso diritto di occuparsi dei disturbi mentali. Mi viene da dire che la fenomenologia psichiatrica sia un po’ come l’omeopatia di una volta che contestava in radice la medicina classica in nome di un paradigma altro, con nessun punto di contatto con la scienza contemporanea. Certo, come nel caso dei medici omeopati classici, anche lo psichiatra fenomenologo è capace di porsi in ascolto della sofferenza e di donare la propria umanità, che di per sé è già una parte importante della cura. Tuttavia, non solo si preclude la possibilità di una cura più piena ed efficace, ma anche e soprattutto rende sterile la propria critica al paradigma psichiatrico dominante che ha buon gioco a mostrare la scarsa praticabilità delle proposte fenomenologiche.
Un altro esempio contemporaneo di questa sterilità viene dal recente dibattito sulle proposte della psichiatra inglese Joanna Moncrieff, che ha grandi meriti per la critica che da anni porta avanti al paradigma chimico dei disturbi mentali[9], ma che si espone all’attacco demolitorio di chi fa notare che ella non propone una cura se non ascolto, sostegno e il cambiamento dei rapporti sociali che creano sofferenza psichiatrica[10].
In conclusione, il libro di Eugenio Borgna, a mio parere, è il segno doloroso di una doppia agonia: quella della psichiatria biologica e quella della psichiatria fenomenologica.
Eugenio Borgna
L’agonia della psichiatria
Feltrinelli, Milano 2022, pp. 120 € 16,00
[1] Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia, VI ed., Feltrinelli, Milano 2019, p. 233. I corsivi sono nel testo originale.
[2] Merlau-Ponty La fenomenologia della percezione, Il saggiatore, Milano 1965, p. 281.
[3] Galimberti, cit. p. 238
[4] Basaglia F. (1979) Prefazione a “Il giardino dei gelsi”, ripubblicato in Basaglia F. L’utopia della realtà, a cura di Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino, 2005 p.303
[5] Borgna E. L’agonia della psichiatria, Feltrinelli, Milano 2022, p. 24
[6] Basaglia F. L’utopia della realtà, cit. pp. 292-93
[7] Basaglia F. ibidem, p. 307
[8] Le citazioni sono prese da Basaglia F. (1979) Prefazione a “Il giardino dei gelsi”, cit.
[9] Moncrieff J (2007) The Myth of the Chemical Cure: A Critique of Psychiatric Drug Treatment, Palgrave Macmillan
[10] Il dibattito è partito da un editoriale su una importante rivista britannica a firma Read J, Moncrieff J (2022). Depression: why drugs and electricity are not the answer. Psychological Medicine 52, 1401–1410. https://doi.org/10.1017/ S0033291721005031. A questo testo hanno fatto seguito diversi commenti, tra cui cito Pariante CM (2022). Depression is both psychosocial and biological; antidepressants are both effective and in need of improvement; psychiatrists are both caring human beings and doctors who prescribe medications. Can we all agree on this? a commentary on ‘Read & Moncrieff – depression: why drugs and electricity are not the answer’. Psychological Medicine 52, 1411–1413. https://doi.org/10.1017/ S0033291722000770
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