I giovani pediatri spesso uniscono alla passione per il loro lavoro, non ancora corrotta dalla crisi del sistema sanitario in cui si trovano a operare, la curiosità verso il mondo pieno di scoperte meravigliose che è quello dei bambini e che la sofferenza non riesce a distruggere. Così ogni loro piccola o grande conquista nel campo della terapia (che richiede una cura dei dettagli e una attenzione alle sfumature, poco vista dall’osservatore esterno) è un ritorno alla loro infanzia. Ogni volta fanno un passo nel futuro con lo sguardo vergine (privo di preconcetti) del loro passato a guidare la loro sapienza adulta di medici.
La loro fiducia nella medicina e la loro partigianeria per i bambini, che vogliono proteggere come oggetti preziosi (facenti parte insieme del mondo esterno e del loro mondo interno), li porta a restare stupiti e indignati con i genitori che, obbedendo a principi ideologici, mettono a rischio la salute e a volte la vita dei propri figli con il rifiuto delle terapie mediche e/o con l’adesione a pratiche di cura esoteriche. Da una parte detestano questi genitori, che si appropriano del destino dei loro figli, dall’altra cercano di capire e di trovare una via d’uscita ragionevole.
La medicina non offre loro grandi strumenti di comprensione. L’insegnamento del “rapporto medico-paziente” è affidato alla somministrazione di tecniche di persuasione, derivanti dalle comunicazioni aziendali. Esse, viste in atto durante la pandemia, da una parte passivizzano coloro a cui sono indirizzate e, dall’altra, quando incontrano una resistenza la rinforzano. I giovani pediatri vorrebbero che qualcuno spiegasse loro le ragioni psichiche della resistenza dei genitori di fronte alle cure mediche e consigliasse anche cosa fare per superarle. Degli psicoanalisti rispettano la competenza, ma trovano che essi posseggono un sapere complesso che non riescono a trasmettere usando parole semplici.
Se è vero che non c’è “strada maestra alla scienza”, è anche vero che alcune conoscenze psicoanalitiche sono fruibili da tutti, a condizione di usarle per quel che servono, senza idealizzazione e senza pregiudizi.
Il “diniego” è uno dei concetti psicoanalitici più utili per comprendere il mondo attuale. E’ un meccanismo di difesa che, dal punto di vista dell’equilibrio psichico di un soggetto, deve essere considerata legittima. Se un aspetto della realtà è ingestibile emotivamente (per tanti motivi diversi) e diventa fonte di una destabilizzazione psichica grave, se ne nega l’esistenza. Ciò può esporre la propria vita e quella degli altri, a partire dai propri figli, a seri pericoli, ma salva la coesione psichica del soggetto, dà un senso altrimenti impossibile alla sua vita per quanto inappropriato possa essere. Se per una persona l’esistere smette di avere senso, sparisce anche il significato del figlio.
Al diniego si aggiunge l’identificazione estrema di una donna con il proprio creato che può diventare l’unica ancora di salvezza per una vita altrimenti considerata inutile. Senza il legame simbiotico con il figlio la donna si sente menomata, profondamente mancante e insignificante. Più grave è la situazione della salute del figlio più può rifiutare che un’autorità esterna (quella medica) glielo sottragga. In definitiva nella sua fantasia il figlio morto può continuare a vivere come parte di sé.
Colpevolizzare persone che già si sentono colpevoli di esistere non serve a nulla. Sottrarre i figli ai genitori che mettono la loro vita a rischio può essere una soluzione necessaria, mai buona. Per i giovani pediatri che amano la loro professione e i bambini, insistere sulle conseguenze negative dell’atteggiamento ideologico dei genitori (anche se le devono comunicare) è controproducente. Possono, invece, cercare di coinvolgerli in una comune premura, in un comune affetto capace di prendere cura e mostrare che l’arte medica è umana e utile.
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