e ad educatrici delle attività pomeridane
con bambini e ragazzi a rischio
operanti nel comune di Reggio Emilia
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"Con l'avvento del periodo di latenza il bambino che ha conosciuto uno sviluppo normale dimentica o, piuttosto, sublima la necessità di "disporre" della gente per mezzo dell'aggressione diretta o di diventare in fretta papà e mamma, ed apprende a conquistare il riconoscimento degli altri grazie al lavoro produttivo"(Erikson).
1. La latenza
La latenza, ossia la fanciullezza, è l'età in cui solitamente nella società occidentale inizia la scuola[1] e, più in generale, è l'età in cui in tutte le culture lo stato e la società cominciano a prendersi cura del bambino, senza più deleghe totali, o quasi, a quell’importantissimo primo intermediario di cultura rappresentato dalla madre[2], così come avviene dappertutto nella prima e nella seconda infanzia.
Se noi ci chiediamo il perché di questo cambiamento che da sempre avviene in ogni cultura, la risposta è nella intuizione che gli adulti hanno sempre avuto di trovarsi solo a quest’età di fronte ad un bambino capace di industriarsi nello studio e nell’applicazione operativa. Con ciò non si vuol dire che prima, cioè prima della latenza, il bambino non sia capace di applicazione e di industriosità, ma che, se lo fa, lo fa in condizioni tali che le sue pulsioni libidiche ed aggressive (il voler diventare in fretta papà e mamma e il poter disporre degli altri di cui parla Erikson) sono troppo manifestamente presenti sul campo, finendo col caratterizzare pesantemente tutta la scena dell’operatività.
Ciò che ora, in latenza, c’è in lui, e che prima non c'era, è una disposizione a “dimenticare”, o piuttosto a “sublimare” tali pulsioni che, da manifeste, diventano latenti, appunto, cioè nascoste. Ma perché ciò possa avvenire, cioè perché le pulsioni libidiche ed aggressive non occupino più apertamente il campo, ma siano trasformate e, almeno parzialmente, sublimate è necessario che prima, e cioè nella prima e seconda infanzia, ci sia stata una precedente azione volta a favorire al massimo tali processi trasformativi che, come vedremo fra un attimo, sono poi quei processi di inculturazione e di socializzazione precoce di cui parlano etnologi e sociologi. Tale azione, o meglio tale insieme molto complesso di tante microazioni quotidiane che sono dirette dall’adulto al bambino perché esso, nella prima e nella seconda infanzia, così come anche dopo, sia inculturato e socializzato, va sotto il nome di educazione.
Come frutto dell’educazione ricevuta, il bambino, che all’inizio era un essere asociale e totalmente schiavo del proprio mondo pulsionale, si abitua a distribuire le proprie pulsioni libidiche ed aggressive in tre aree che, come Janine Chasseguet Smirgel[3], chiameremo: 1) area della messa in atto; 2) area della definizione del carattere; 3) area della sublimazione.
Tale spinta discriminatrice, in concreto, è la spinta esercitata, attraverso l’azione educativa, dai genitori e dagli educatori della prima e della seconda infanzia, spinta in base alla quale lentamente, sotto l’influenza specifica e personalissima di questi concreti agenti educativi, si va formando dentro di noi la nostra altrettanto specifica personalità.
Con ciò non si vuol dire che l’accesso alla sublimazione sia un fatto acquisito di botto, quasi per illuminazione divina, alla fine della seconda infanzia. Anzi, occorre ribadire che la spinta, frutto dell’educazione, a trasformare e a distribuire le pulsioni nelle tre aree avviene fin da subito nel bambino. Ma occorre aggiungere che fino alla (momentanea) eclissi delle tematiche edipiche e preedipiche, cioè fino all’ingresso nella latenza[4], la terza area, quella della sublimazione, pur presente ed associata all'attività di gioco – prima e, ancor di più, dopo che i processi di simbolizzazione sono entrati dentro di lui – è tutta “spesa” sul piano della messa in scena di un dramma egoistico, prima, ed egocentrico, dopo. Dramma che esclude il fare produttivo, cioè quello commisurato ai riconoscimenti che attraverso questo fare possono pervenire al soggetto sia dal giudizio degli altri, sia dalle proprie parti interne giudicanti, poiché incentrato sul prevalere nel bambino dei processi primari che, appunto, sono incentrati su di un fare gratuito, e non produttivo, non programmatorio, tipico del gioco.
Col tramonto, momentaneo, dell’Edipo invece, e con l’inizio della scoperta della propria marginalità, e cioè dei propri limiti, è possibile passare da un apprendimento tutto intriso di eros e di aggressività, ad un apprendimento sublimato ed intellettualizzato. È questo il terreno particolare sul quale, se le cose in precedenza sono andate sufficientemente bene, si impianta il lavoro dei docenti di scuola elementare: un terreno già arato e preparato da coloro che si sono in precedenza preoccupati di imbrigliare le pulsioni libidiche ed aggressive, di trasformarle e convogliarle negli alvei domestici della produzione e della creazione, in modo tale da farle diventare non nemiche dell’operatività, ma anzi preziosi strumenti a disposizione del bambino.
Due esempi ci permettono, forse, di comprendere meglio l’importanza che il filtro educativo esercita sulle pulsioni, ed il rapporto che c’è fra le tre aree di cui parlavamo prima:
a. la masturbazione: 1. finché non c’è stata un’azione educativa la masturbazione infantile viene esperita dal bambino liberamente (in effetti, potremmo dire, sotto l’impeto della pulsione libidica); quando invece l’azione educativa ha luogo la masturbazione può trasformarsi seguendo essenzialmente due direttrici: 2. quella che va verso la formazione del carattere, con una oscillazione che va dall’inibizione all’esibizione (del proprio corpo, ad esempio); 3. quella che va verso la sublimazione, che potrebbe diventare, ad esempio, esibizione delle proprie capacità.
b. il sadismo infantile: 1. qui, nella prima area, avremo il mordere, il pizzicottare, eccetera; 2. nella seconda area un’azione trasformativa potrebbe essere rappresentata da forme caratteriali del pizzicottare, quali il punzecchiare con le parole; 3. nella terza area, quella della sublimazione, la trasformazione diventa ancora più radicale (e produttiva), e potrebbe essere il desiderio sublimato di pizzicottare, penetrare il sapere, e cioè una delle componenti di quella pulsione epistemofilica, che è alla base di tutti gli apprendimenti, che è anzi il presupposto sul quale si basa ogni autentica spinta all’apprendere.
2. Latenza, sublimazione, produzione
“Il bambino che ha conosciuto uno sviluppo normale”, diceva Erikson, “accede più facilmente alla latenza”. Se, invece – come avete avuto modo di vedere con la dott.ssa Bertani – il bambino non ha conosciuto uno sviluppo normale, il prevalere in lui di spinte alla regressione ed alla fissazione all'interno di conflitti edipici o preedipici comporterà delle difficoltà più o meno grandi perché esso possa accedere, senza eccessivi problemi, nel mondo dell'industriosità.
Questo tipo di bambini cioè, pur trovandosi anagraficamente all'interno del periodo di latenza, continuerà ad usare modalità arcaiche di rapporto col mondo, non riuscirà, di fatto, ad accedere all'industriosità, o vi accederà con fatica ed acquisirà quello che gli sarà consentito di acquisire, in base ai propri disturbi (oltre che alle eventuali carenze dell’ambiente scolastico) non in maniera autentica, ma forzata.
Quanto abbiamo fin qui detto ci fa intuire, quindi, non solo che fra lavoro produttivo e sublimazione c'è un rapporto di parentela, ma che anche fra produzione e creazione, soprattutto quando la produzione avviene sotto il segno dell’autenticità, c’è lo stesso tipo di parentela.
Appare chiaro, così, che quello che potremo definire il laboratorio del comune mortale (e cioè l’insieme di quei presupposti strutturali che ci permettono di produrre e di creare) e quello dell'artista o dello scienziato sono costruiti con gli stessi criteri e, potenzialmente, siamo tutti attrezzati a produrre, a programmare, a creare. Semmai le differenze fra noi e loro, ma anche (potenzialmente) fra il bambino, qualsiasi bambino e loro non sono di natura qualitativa, ma quantitativa.
In età evolutiva poi, come ben sanno coloro che hanno osato esplorare i 100 linguaggi del bambino[5], le potenzialità sono distribuite fra la popolazione in crescita in modo tale che un educatore attento sarà in grado di cogliere delle vene aurifere dappertutto, anche nel terreno ritenuto più povero.
Appare chiaro anche che, da quando abbiamo detto finora, fino alla latenza questo laboratorio non è ancora perfettamente pronto a che il bambino produca e crei: perché questo possa avvenire, come dice Erikson, da una parte, sul terreno dell’aggressività, ci deve essere stata la rinuncia “a disporre degli altri per mezzo dell’aggressione diretta”, mentre dall’altra, su quello della libido, una corrispettiva rinuncia “a diventare in fretta mamma o papà”.
Dove quell’“in fretta” va letto come lento e penoso apprendimento, da parte del bambino, del fatto che il passaggio dall'endogamia alla esogamia è un processo lento e doloroso e non immediato e velleitario, così come egli aveva azzardato che fosse durante la fase edipica.
Vi è qui, da una parte, un chiaro riferimento alla necessità che il bambino che produce debba aver superato l'egocentrismo tipico del bambino in età prescolare e la sua scarsa disposizione a decentrarsi, a considerare gli altri come soggetti autonomi e se stessi in termini marginali (cosa che, a dire il vero, sarà pienamente conquistata solo in adolescenza). Dall’altra, un accenno altrettanto importante al fatto che il bambino realmente produttivo deve essere in grado di uscire, in certo qual senso, da quell’universo transferale, edipico, che fino a qualche tempo prima lo aveva tirannicamente occupato; di uscirvi libero, poi, di rientrarvi rapidamente ogni volta che ne sente il bisogno: è questa la novità cui il bambino, e con lui i genitori, i docenti, da ora in poi si devono abituare a convivere.
Va ricordato, cioè, che l'atto del dimenticare e del sublimare non implica affatto l'uscita definitiva dall'universo transferale (e cioè dal mondo degli affetti e delle forti passioni familiari, dei miti e delle usanze fin qui acquisite), bensì una sua ridefinizione, in termini allargati, entro tutto l'universo nuovo che il bambino incontra a scuola. Cosicché in scuola, sia nel rapporto col gruppo degli adulti che con quello dei pari, il bambino potrà trasferire i propri introietti avendo modo di arricchire e di complicare la propria camera degli specchi, di modificarla in base alle influenze più importanti che da questo nuovo luogo deriveranno.
Dai nuovi adulti, quindi, così come dai nuovi pari con cui entra in contatto, il bambino impara non solo le materie, ma anche a ridefinire le tematiche legate all'appartenenza, nella doppia direzione del rapporto con le imago genitoriali, da una parte, e con quelle fraterne, dall’altra (fratelli che, come sappiamo, anche se sotto forma di ombre, sono presenti fin da subito anche nei figli unici).
Questa capacità di oscillazione fra universo transferale e universo operativo, produttivo, è un segnale inequivocabile e tipico dell’età, qualora le cose siano andate bene in precedenza. Così come, per converso, possono essere visti come segnali di difficoltà di ingresso nell’area operativa sia il persistere da parte del bambino in una lettura del nuovo (e cioè della scuola) sempre attraverso gli occhi del vecchio, cioè attraverso le lenti deformanti del proprio mito familiare; sia l’attaccamento sostitutivo al nuovo (e cioè alla scuola), volto a compensare quello che in casa in precedenza non c’è stato, o non c’è stato a sufficienza. È il caso di molti di quei bambini provenienti da famiglie deprivate, che poi diventeranno ragazzi a rischio, i quali, finché sono piccoli, fanno di tutto per ridurre la scuola alla famiglia, chiedendo di essere esautorati dalla produzione e implorando i docenti di trattarli (solo) come figli e poi, in preadolescenza, qualora i docenti di scuola elementare abbiano consentito loro di sentirsi esautorati, ne combinano di cotte e di crude.
Resta da notare, in ogni caso, come il bambino in questo periodo non sia ancora pienamente in grado di autogiudicarsi autonomamente ed, anzi, abbia ancora bisogno di entità altre, cioè esterne a sé, che riconoscano i meriti che va acquisendo sul piano dell'apprendimento, che cioè facciano da cassa di risonanza ad un Ideale dell’Io non ancora pienamente dispiegato internamente (“… ed apprende a conquistare il riconoscimento degli altri grazie al lavoro produttivo”, dice Erikson).
3. La posizione dei docenti: il controtransfert educativo in latenza
E’ decisivo per noi notare ora, cioè in latenza, come in classe il transfert, cioè il flusso di legami affettivi che dai discenti va verso i docenti, non sia più dipendente da azioni dirette agite o patite dai bambini, ma sia legato al "fare", cioè al lavoro, alla produzione e, quindi, alla programmazione: questo accesso più pieno all'area dell'operatività, reso possibile dalla precedente attività gratuita di gioco, implica un “condurre”, un “commisurare per sé” che permette una nuova organizzazione interna del tempo. Accesso ad una nuova temporalità che potrebbe essere definita come il poter permanere, da parte del bambino, più o meno stabilmente, in un tempo presente che, però, è teso verso il futuro.
In base a questa nuova posizione, che come è possibile vedere è strettamente connessa con l’operatività (si potrebbe forse dire che il tempo dell’operatività, ridotto all’osso, non sia altro che questo), la famiglia lentamente acquisisce, agli occhi del bambino, una posizione passata, comincia cioè lentamente a stemperarsi in un tempo passato, in un tempo mitico – importantissimo[6] peraltro, e non solo per il periodo di latenza, ma per tutta la vita -; un tempo che ora, in latenza, il bambino può finalmente cominciare a guardare[7] non più come una schiavitù, ma come una tradizione alla quale ci si può conformare o dalla quale ci si può, lentamente, emancipare.
In questa nuova palestra che è la classe il bambino, lo ripeto, non allena il proprio spirito solo sul piano dei contenuti scolastici, ma anche sul piano del riconoscimento delle emozioni e dei sentimenti in partenza ed in arrivo, che provengono sia dal versante degli adulti in essa presenti, sia dai pari. Ma in questo vero e proprio ginnasio delle emozioni e dei sentimenti anche gli adulti, cioè i docenti, non possono passare un’intera vita fuori dal potente flusso di passioni che qui si vanno giornalmente a concentrare. Anzi, consapevoli o meno che essi siano di trovarsi in questo crogiolo di sentimenti, capita loro di essere sempre coinvolti, e perciò presi da forti ed implicanti passioni che noi sinteticamente chiameremo controtransfert educativo, proprio perché si tratta di un transfert speculare a quello dei discenti (il termine contro nel nostro caso va visto come corrispettivo ad una posizione frontale, speculare, appunto). E, come il transfert educativo del discente è tutto mediato dal fare scolastico, anche il controtransfert del docente si sposta sul fare, nel senso che giunge al gruppo dei discenti ed a ciascuno di essi attraverso il fare del docente, e non attraverso l’“azione diretta” di quest'ultimo sulla classe.
La classe, cioè, e, nel caso della codocenza, gli altri docenti coinvolti con me docente sulla scena scolastica, diventano gli specchi in cui, a seconda di ciò che succede, vengono riflessi (cioè visti una seconda volta) i fantasmi familiari del mio passato, i personaggi della mia personalissima costellazione edipica. Ed esattamente come succede per il discente, anche io docente potrò, o meno, prendere le distanze dal passato, non esserne schiavo, ma trasfigurarlo e trasfonderlo nel presente, a seconda di quelli che per me sono i punti critici della situazione presente e di come ho risolto dentro di me quei conflitti nel momento in cui io docente ho attraversato come bambino, come figlio e come discente, quei luoghi che ora mi vedono responsabile della formazione altrui.
Cosicché, come il bambino può attardarsi in modalità arcaiche, pre – operative di rapporto, anche il docente può, se non riesce a superare dialetticamente la forza gravitazionale che viene dalla propria costellazione edipica, continuare, in forme più o meno camuffate, a rigettare sulla classe, insieme al fare o, peggio, invece del fare, le proprie coazioni infantili.
L’alternativa, perciò, sia per il discente che per il docente, è la sublimazione o la coazione a ripetere: – nel primo caso lo scambio è pienamente ricondotto sul fare educativo; – nel secondo il meta – discorso transferale che impregna tutto è così immanente, così pesante che ciò che passa, in verità, è un insieme di “azioni dirette” seduttive o aggressive, che sono tanto più pericolose per tutta la classe, quanto più incentrate sugli adulti presenti in essa.
Se le cose vanno sufficientemente bene, invece, quella del docente di scuola elementare appare come una importantissima funzione di ponte:
ponte fra l’affettività e l’operatività in un’epoca di grandi cambiamenti nel mondo interno del bambino; ponte fra il mondo della famiglia e quello dello studio (e domani, su questo stampo, del lavoro) in un momento felice per molti bambini, in cui l’industriosità, frutto delle nuove tendenze alla sublimazione, può espandersi; ponte fra il gruppo primario ed i gruppi secondari, anticamera di future, più ardite migrazioni.
Funzione ponte che non impedisce al docente accorto di mantenersi ben vicino al mondo degli affetti del bambino (ed al proprio: c’è sempre un bambino dentro di noi, ed il docente di scuola elementare lo sa bene, ha confidenza col proprio bambino interno, e con esso si pone spesso in gioco con il bambino che ha di fronte a se stesso).
Il docente di scuola elementare sa anche, però, che le pietre più importanti di cui è fatto questo ponte sono quelle tipiche del fare operativo che si basa essenzialmente su una espressione delle emozioni e dei sentimenti mediata dal fare operativo stesso, e non direttamente giocata sulla ricattatoria mozione degli affetti.
Infine, se le cose vanno sufficientemente bene, il bambino potrà accedere al tempo operativo, pur mantenendo un rapporto con le proprie tradizioni familiari e il docente, a sua volta, potrà oscillare fra un presente che, pur essendo figlio della propria doppia tradizione di individuo e di insegnante, va verso la classe attuale, verso ciò che essa implicitamente chiede per il proprio futuro, ed un passato mitico, fatto di tradizioni particolari, familiari ed anche pedagogico – didattiche, professionali che, però, si riattualizzano e trasfigurano nella palestra del presente, coniugandosi con le nuove istanze di cui sono portatori i discenti.
L’alternativa è soccombere inseguendo le ombre del passato e restandone schiavi.
–> 18.1.2023: nel frattempo col passaggio da Edipo a Narciso (o, per dirla con Pietropolli Charmet, dalla famiglia etica a quella affettiva) stiamo assistendo ad una eclissi della latenza? sembrerebbe di si –> cfr. "La latenza latente" (D.A.)
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