Il pensiero laico, a differenza di quello “laicista”, non è necessariamente in contrasto con quello religioso. Esso cerca la Verità in quanto, nel mondo, è percepibile; e nulla vieta che, alle realtà accertate, sia dato (o non sia dato) un significato religioso. Una Scienza autentica studia il mondo nella sua interezza: sia la realtà oggettiva, percepibile con gli organi di senso e quantificabile, sia quella interiore degli esseri umani; realtà, questa, riconoscibile solo “guardandosi dentro” con l’introspezione, e/o “mettendosi nei panni” dei propri simili, attraverso quella forma d’introspezione vicariante chiamata “empatia”. In quest’ultimo ambito, incontriamo aspetti adombrati già da millenni dalle Religioni e dalle varie forme d’Arte. L’impostazione “laicista” ne disconosce l’esistenza; quella laica si propone d’affiancare, ad una illustrazione tramite un sistema di pensiero religioso (o tramite l’intuizione dell’Artista), un’altra tramite un sistema di pensiero scientifico. Ognuno, poi, è libero di fare (o non fare) coesistere entrambi i punti di vista.
Una realtà particolarmente difficile da accettare come tale da parte dei laici non credenti è quella che i religiosi chiamano “Divina Provvidenza”. Di fronte a tutte le sciagure che accadono nel mondo, com’è possibile credere che esista un’entità superiore che veglia su di noi, ci protegge, e ci assicura quel minimo di tranquillità senza cui non potremmo vivere? Che tale garanzia della nostra serenità possa venire a mancare è testimoniato dal cronico sconvolgimento interiore di coloro che sono passati attraverso gravi esperienze traumatiche. Primo Levi ce lo descrive raccontandoci un sogno ricorrente e tormentoso che lo accompagnò, anche dopo il rientro a casa, dopo la liberazione da Auschwitz:
“Sono a tavola con la famiglia, o con gli amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o bruscamente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, Wstawac!” [pag. 280, 281].
Qualcosa di spaventoso, di straniero, segna il risveglio in Levi di una parte di lui che vive sempre immersa nella situazione traumatica e di fronte alla quale ogni aspetto rassicurante del presente perde la sua realtà. È compromessa, e non più stabile, la capacità (che di solito consideriamo ovvia e naturale) di trarre un senso di serenità e sicurezza interiori da un “ambiente placido e disteso”: dall’immersione in un gradevole ambiente naturale (la “campagna verde”), dalla presenza di familiari e amici, dall’impegno in un lavoro che ci appassiona. È sempre in agguato, in Levi, una “angoscia sottile e profonda”, una “sensazione di una minaccia che incombe” che, quando si manifesta in modo evidente, sopprime il carattere protettivo dell’ambiente e mette in forse la sua stessa realtà. La realtà esterna non rispecchia più quella interiore dove ciò che assicura la pace è sparito e, così Levi crede, per sempre.
Questa entità protettiva interiore è definita dalla Psicologia dell’Io, in termini impersonali, come l’insieme delle “self-soothing functions” (funzioni auto-consolatorie) e delle “self-buffering functions” (funzioni “tampone”, in grado di proteggere dagli effetti emotivi devastanti delle avversità, e preservare l’equilibrio interiore); in termini più vicini all’esperienza vissuta, è descritta da Winnicott e Ogden come la “environmental mother” (madre-ambiente) interiorizzata. Si tratta dell’assimilazione di un’esperienza che risale ai primi tempi della vita: quella della presenza “invisibile” (non riconosciuta come quella di una vera e propria persona separata) di una madre protettiva la cui esistenza è abitualmente quasi ignorata, ed avvertita pienamente solo quando viene a mancare.
L’esistenza e l’efficacia della “madre-ambiente” interiore richiede, almeno periodicamente, una conferma da parte di un ambiente “placido e disteso” in cui essa possa rispecchiarsi: la casa in cui si abita, la presenza di familiari ed amici, lo scenario di una natura florida, un ambiente sociale di cui ci si possa fidare. Tuttavia, se tale funzione auto-protettiva è compromessa o crollata in virtù di un’esperienza traumatica antica o recente, a nulla vale il contatto con un ambiente favorevole. Lo si capisce bene quando si commette l’errore di credere che offrire ad un grave depresso una situazione o un ambiente abitualmente considerati lieti possa portargli sollievo. Il malato penserà a quel che ritiene d’aver perso per sempre: a quanto “erano stati belli” quell’ambiente o quella situazione quando non c’era ancora, dentro di lui, l’inferno; e questo pensiero lo renderà ancor più depresso.
Le caratteristiche della madre-ambiente invisibile e protettiva, quale realtà interiorizzata e/o intersoggettiva (ossia condivisa con altri), coincidono con quelle di ciò che i credenti chiamano “Divina Provvidenza”. Diamo due nomi diversi alla stessa realtà; ed ognuno è libero di credere, o non credere, che si tratti di una manifestazione di Dio sulla terra. Anche lo stesso scetticismo dei laici atei nei confronti della Divina Provvidenza” coincide con l’atteggiamento che noi tutti teniamo nei confronti della madre-ambiente: ce ne accorgiamo solo quando la sua funzione protettiva ci viene a mancare, e arriviamo a negarne l’esistenza; tuttavia la ignoriamo quando, molto più spesso, godiamo del suo aiuto: lo attribuiamo esclusivamente a noi stessi, anziché a lei.
Tutti abbiamo bisogno, almeno di tanto in tanto, di rifugiarci in un “nido” protettivo che rispecchi e confermi l’esistenza del nido interiore offertoci dalla madre-ambiente: l’esperienza primordiale interiorizzata dell’utero che ci accolse e, successivamente, delle braccia materne che ci sostennero e delle mani che ci accudirono. Quando un evento avverso, o traumatico, mette in pericolo o distrugge tale nido esterno, ne cerchiamo un altro, che possa sostituirlo e preservare il nido interiore. Lo descrive bene Umberto Saba in una poesia in cui attribuisce caratteristiche umane ai suoi uccellini. Parlando della canarina che stava covando, ci dice:
Aggiustavo il tuo nido in cui preziosa,
dimentica del cibo, o quasi, covi.
E mi rammenti un’incisione (nuovi
vi mettevo i colori) in lode della
Natura o (tutto non ricordo) in quella
della Divina Provvidenza…
L’immagine di una madre che accudisce e protegge i suoi piccoli evoca, nel Poeta, quella di una Natura idealizzata, o meglio, quella della Divina Provvidenza. Tuttavia, tale funzione protettiva va, a sua volta protetta: se il “nido esterno” è minacciato, occorre abbandonarlo e cercarne uno più sicuro:
Fosse
un’incauta mia mossa od altro, presa
di uno spavento insolito alla stretta,
il caro luogo abbandonavi…
Che cosa guida la canarina nella ricerca di un nido esterno più sicuro? Nel suo caso è, molto probabilmente l’istinto, eredità dei suoi avi. Meno evidente è ciò che guidò Saba (e lo preservò da uno stato post-traumatico quale quello di Primo Levi), il quale perse per ben due volte, e nella tenera infanzia, il suo nido esterno protettivo: abbandonato dalla madre naturale ed affidato ad una balia, fu poi sottratto a questa quando la genitrice lo rivolle con sé.
Tutti, in maggiore o minor misura, attraversiamo esperienze di abbandono. Si tratta di quei vissuti, definiti da Winnicott “agonie primitive” in cui ci si sente come dissolvere, ed il mondo accogliente e rassicurante sembra scomparire insieme a noi. Tutto, come ci dice Primo Levi, sembra “volto in caos”, ci si sente al centro di un “nulla grigio e torbido”. È una sorta di lager che ci rende prigionieri e ci paralizza, togliendoci ogni possibilità di sottrarci ad una situazione infernale. Ci occorre, più che mai, ritrovare la Divina Provvidenza (la madre interna che ci soccorre), attraverso l’aiuto di chi è capace di rappresentarla e ripristinarla.
La disgrazia di Primo Levi (che pure fu dotato della sensibilità di un grande Artista) fu d’essersi ostinato a lungo ad attraversare l’inferno del suo mondo interno da solo, senza un Virgilio che lo riportasse a “riveder le stelle”. Quando, finalmente, si arrese ed accettò l’aiuto di una valida terapeuta, era ormai troppo tardi: il deterioramento della sua vita interiore era tale che finì la sua vita col suicidio. Umberto Saba, a differenza di Levi, non fu mai abbandonato del tutto. Conservò, pertanto, quella fiducia nella possibilità di farsi aiutare che gli consentì d’entrare in analisi col dott. Weiss. Questo lo aiutò, a sua volta, a valorizzare appieno il suo talento di Artista: la Poesia ha sempre una funzione riparativa e auto-riparativa.
Anche noi terapeuti (come tutti coloro che vogliono soccorrere i propri simili) dobbiamo ritornare interiormente nell’inferno in cui cademmo nel passato, nel momento in cui ne condividiamo empaticamente l’esperienza col paziente. Non farlo, limitarsi ad una comprensione fredda e puramente intellettuale della sofferenza del malato, non ha alcuna reale efficacia. Possiamo, tuttavia, tornare ad uscire da quel luogo di dannazione, ed aiutare il malato ad uscirne, se ci affidiamo al nostro Virgilio, espressione della Divina Provvidenza. Si tratta di un personaggio immaginario (tuttavia erede dell’esperienza con persone reali), con cui possiamo dialogare, e che è dotato di tutte le virtù dei nostri genitori, dei nostri maestri, del nostro analista, di tutti coloro che in passato seppero aiutarci; e l’esperienza dell’inferno, del caos, della dissoluzione, del lager, può essere finalmente lasciata alle spalle, e non soltanto evitata.
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