“Se non lo facciamo noi, chi lo farà?”
a Barbara
Ai primi di novembre del 1998, in un’Italia ancora tutta dentro il Novecento, i Manicomi criminali esistevano ancora. E i Manicomi provinciali erano stati chiusi da “appena” venti anni. Ancora i “residui manicomiali” non erano stati del tutto svuotati. A Napoli, nell’ex OP “Leonardo Bianchi”, sopravvivevano centinaia di spettri di umani, in attesa della loro prima ed ultima tradotta verso quel “mondo-della-vita” chiamato “territorio”. Quella mattina del 12 novembre il paziente Giuseppe Forzese si presentò alle otto e trenta, puntuale, presso il CSM di Ercolano, per la terapia: quei farmaci che gli servivano per sopravvivere al torpore eterno e alle improvvise agitazioni che erano il suo male di vivere. All’ infermiera che gli fornì la dose consueta di pillole parve normale. In tasca aveva un coltello a serramanico con una lama di dieci centimetri che gli serviva per aprire crostacei e noci. Con quel coltello, mentre si avviava verso l' uscita, come se niente fosse, aprì il cuore di uno psichiatra incontrato per caso in corridoio, neppure il suo medico, solo uno che aveva il torto di indossare il camice. Quello psichiatra si chiamava Bruno Gentile, aveva 45 anni, ed era mio amico. Da tempo Giuseppe andava dicendo che un dottore, prima a poi, lo avrebbe scannato: un po' perché la categoria gli aveva "rovinato la vita", un po' perché così gli sarebbe stato concesso di tornare al manicomio criminale, dove già aveva passato alcuni anni. "Paura della libertà" fu definita dall’allora Direttore del DSM. Ma quella tragedia sembrava, allora come ora, fatta apposta per riaprire ancora una volta il mai concluso dibattito sulla chiusura dei manicomi. "E tuttavia, al di là del dolore per la perdita di un collega e amico – disse il Dr. Della Pietra con la voce rotta dalla commozione -, che l' episodio non serva a criminalizzare i malati di mente, che raramente sono violenti". Giuseppe Forzese, l' omicida, era una vecchia conoscenza della Polizia. Basso e tarchiato, strano da sempre, anche se non “propriamente malato”, quindici anni prima, ad ottobre, aveva ammazzato a coltellate il padre, Salvatore, agente di custodia al manicomio giudiziario di Sant' Eframo. Movente incomprensibile, forse inconfessato. Agli agenti, il giovane assassino (all' epoca aveva trent' anni) si limitò a dire: "Non voleva darmi i soldi". Lo condannarono a diciotto anni di carcere, che cominciò a scontare a Porto Azzurro, dove manifestò i primi disturbi psichiatrici. Venne così trasferito all' OPG di Montelupo Fiorentino, prima in osservazione e poi per essere curato. Non sembrava pericoloso e si mostrava così obbediente, persino remissivo, che gli venne concessa una riduzione consistente, di cinque anni, della pena. Prima che fosse rilasciato, il magistrato gli concesse cinque giorni di permesso. Forzese tornò a casa, a Portici, nella piccola casa di via Roma che in futuro avrebbe dovuto dividere con la sorella Maria. Era il primo impatto con la libertà. Egli reagì armandosi di coltelli fino ai denti e presentandosi così rifornito al CSM dove poi avvenne la tragedia. Qualcuno vide quell' armamentario e avvertì la Polizia. L' episodio indusse il magistrato di sorveglianza della Procura toscana a revocargli la libertà, ma la cosa non modificò l' opinione che i medici avevano di lui: il soggetto fu ritenuto innocuo. Ad agosto – come confermò l’allora Direttore di Montelupo, scontata la sua pena, Forzese potette tornarsene a casa. Unico obbligo, la frequenza bisettimanale al CSM di Ercolano. Il personale del CSM lo ricordava benissimo. Sporco, taciturno, mansueto. Negli ultimi tempi intensificò le visite: veniva tutti i giorni a prendere i medicinali, il giorno del delitto chiese anche di essere sottoposto ad un esame oculistico, lo prenotarono. Poco dopo era in corridoio, con la sua aria dimessa e intontita. Fu il destino a mettere sulla sua strada il dottor Bruno Gentile, da otto in servizio presso quella sede. Giuseppe non era stato neanche un paziente di Bruno, ma avevano la stessa età. Ed è contro Bruno, che aveva dedicato tutta la vita ai malati, alternando la dedizione alla psichiatria solo allo studio della filosofia (doveva discutere la tesi per la seconda laurea fra dieci giorni), che si scatenò la sua furia. Una sola coltellata, ma sferrata con una forza terrificante, tanto che la lama si conficcò interamente nel torace di Bruno, all' altezza del cuore. Allora non c’erano i social-media. Il fatto non destò tanto scalpore. In una terra come la nostra, concimata ogni giorno di morti ammazzati, uno in più non rende più sensibile la routine della statistica. Ercolano, è a pochi chilometri da Torre Annunziata il sito dell’antica Oplontis, dove anni prima era stato ucciso Giancarlo Siani (Fortapàsh, 2009), su ordine di Nuvoletta. In quel periodo le faide tra i clan camorristici lasciavano ogni giorno morti sull’asfalto. La scomparsa di un giovane psichiatra non fece alcun rumore. Come una stella che si spegne tra le tante. Faceva parte della fibrillazione del firmamento. Noi più giovani rimanemmo sconvolti. Bruno frequentava abitualmente la Clinica Universitaria del prof. D’Errico, ed era stato un riferimento importante per alcuni tra noi specializzandi. Capimmo allora, sgomenti, una volta per tutte, che la “follia” era qualcosa di enormemente più vasto della psicopatologia. Che le carte topografiche su cui ci eravamo formati, non erano il paesaggio nel quale stavamo per essere paracadutati. E che, diversamente dall’ambiente parquetizzato della Clinica universitaria, fuori, nella terra di nessuno, la psichiatria era fatta di merda, di sudore e di sangue. Era fatta di corpi che si annusano e che si scontrano, di grida, di gesti, di sguardi, certo, di silenzi, quando possibile di parole, di farmaci che sarebbero corsi come fiumi.
Ma forse, a proposito di psichiatri “caduti sul campo”, la morte più famosa di uno psichiatra ad opera del suo paziente fu quella dell’illustre Bernhard von Gudden, il maestro di Kraepelin.
Re Ludwig II di Baviera, imparentato con la mitica principessa Sissi, fu deposto dal trono l'8 giugno 1886: una commissione medica presieduta proprio dal Professor Bernhard von Gudden lo dichiarò malato di mente. Credo sia l’unico psichiatra che ha deposto un re. Karl Bonhnoeffer avrebbe potuto farlo con Hitler, di cui aveva capito la paranoia, ma gli mancò il terreno per farlo. In compenso il figlio Dietrich, prima della fine della Guerra, fu giustiziato dalle SS. Il mattino del 12 giugno, ad ogni modo, il Sovrano venne arrestato e condotto in carrozza dal castello di Neuschwanstein a Berg, una piccola residenza dei Wittelsbach sulle rive del lago di Starnberg trasformata per l'occasione in una sorta di prigione: inferriate alle finestre, spioncini da ogni parte, porte che si potevano aprire solo dall'esterno.
[1. Sua Maestà è malato di mente ad un grado molto avanzato, cioè soffre di quella forma di malattia mentale che gli psichiatri ben conoscono per esperienza col nome di paranoia (pazzia).
2. Data questa forma di malattia, il suo graduale e progressivo sviluppo e la sua già molto lunga durata, che si estende su un gran numero di anni, Sua Maestà è da dichiarare inguaribile e si può prevedere con sicurezza un ulteriore decadimento delle forze psichiche.
3. A causa della malattia la libera volizione di Sua Maestà è completamente esclusa, egli è da considerare impedito nell'esercizio del governo e tale impedimento durerà non solo più di un anno, ma per tutta la vita.(Estratto della perizia medica).]
Nel pomeriggio del 13 giugno, Domenica di Pentecoste, Ludwig chiese di poter fare una passeggiata e il dottor von Gudden lo accompagnò, senza alcun infermiere o guardia al seguito: il sovrano appariva sereno e tranquillo e il suo medico, sicuro della relazione stabilitasi tra di loro, non ritenne necessaria la presenza di una "scorta". Passate alcune ore, i due non fecero ritorno e scattò l'allarme. Partirono le ricerche prima intorno al castello, poi lungo il parco e, finalmente, verso le 23 vennero ritrovati sia Ludwig che il medico: erano tutti e due morti nelle acque del lago! Il punto dove iniziò la tragedia, a circa 800 metri dal castello di Berg in direzione sud (dove oggi c'è la Cappella Votiva), si trova sul sentiero che costeggia il lago tra faggi ed abeti. Al di là del sentiero c'è una radura che termina sulla sponda del lago di fronte alla quale si trova un bordo di ghiaia prima di incontrare l'acqua, che in questo punto è poco profonda e ricca di piccoli canneti e arbusti. Nonostante i precisi rilievi effettuati tempestivamente non fu stato possibile chiarire il mistero della morte del Re e del suo psichiatra, che resta tale ancora oggi. Ercolano, dove Bruno Gentile è stato assassinato, come Pompei, è una di quelle città che occupano lo spazio tra il Vesuvio e il mare. Ce ne sono molti di paesi sulle pendici del Vulcano. Anche il mio SPDC è su una caldera vulcanica, lo è l’isola d’Ischia, da cui ci arrivano molti pazienti. Come è vivere e lavorare “tra le fumarole”, con l’odore di zolfo nell’aria? Come è guardare lo skyline dello “sterminator Vesevo” che, due millenni fa transustanziò in ombre migliaia di esseri umani? Come è vivere su un terreno che da un momento all’altro può esplodere? Mi pare che il fermento dei discorsi nutrito dai sentimenti di centinaia di psichiatri italiani all’indomani della morte di Barbara stia prendendo una piega (giustamente) rivendicativa, rispetto alla sicurezza e allo sganciamento alla giustizia di pseudopazienti psichiatrici ritenuti pericolosi. In sintesi sembrerebbe far piacere a tutti (giustamente) scindere una volta per tutte la cura dalla custodia. Cosa che, evidentemente, per tutta una serie di motivi, non è riuscita pur a quasi mezzo secolo dalla Riforma, che pure sembrava andare in questa direzione. Anzi, sembrerebbe, per uno strano accanimento del destino, che ciò che abbiamo gettato dalla finestra si ripresenti, mutatis mutandis, alla porta. Naturalmente è del tutto legittimo aspirare ad una psichiatria more internistico, o cardiologico o, in ogni caso “di precisione”. Peccato che non abbiamo un’anatomia patologica, non abbiamo una diagnostica strumentale o di laboratorio, e non abbiamo dunque parametri oggettivi per picchettare i confini che mettiamo. Sembrerebbe, anzi, che essi vengano tracimati ad ogni istante dal mare magnum dell’esistenza patente e deviante, o almeno ad ogni mareggiata. In tutto questo l’impressione è che le gabbie nosografiche, la caduta di ogni prospettiva psicopatologica e lo svuotamento della pratica clinica in favore di una burocratizzazione informatizzata, protocollare ed aziendalistica ci abbiano ancora di più impiccato ad alberi decisionali del tutto privi di fondamento. Questo svuotamento clinico della psichiatria è molto più devastante dei riduzionismi che essa contiene (molecolare, dinamico, sociale etc). E’ entusiasmante vedere il proliferare delle chat sul corpo ancora caldo della collega Barbara. Ma le istanze rivendicative, purtroppo, vanno tutte all’esterno, ovvero sono tutte proiettive. Quello che manca, ogni volta, è una riflessione seria sul fondamento epistemologico della psichiatria, e sul contributo che la psichiatria può e deve dare anche rispetto a ciò che non è primitivamente psichiatrico (ma di chi è????). Nei nostri SPDC, ultimi baluardi aperti H 24, se riuscissimo a non ricoverare tossicomani, adolescenti, anziani, homeless, autori di reato e psicotici cronici con gravissimi problemi organici rimarremmo praticamente solo noi, gli infermieri e, talvolta, la mosca bianca del paziente perfetto. Forse può sembrare assurdo, ma non credo che la psichiatria del futuro, ammesso che essa sopravviva, possa, di fronte ad una società complessa, escludente, ipertecnologica, virtualizzata, ipercompetitiva, dis-umana assumere il pilatesco atteggiamento di chi dice : ”Non è mio. Mio è solo il granello di polvere che passa la strozzatura della clessidra che ho costruito”. Questo è il perfetto atteggiamento degli agnelli che ci comandano, che occupano le sedi accademiche dove l’emergenza/urgenza è solo il suono della sirena di ambulanza che passa sotto la finestra, attenuato dai doppi vetri degli infissi, per abbassare il rumore di fondo durante le call conference.
Questo possono permetterselo gli agnelli che sono invitati ai “tavoli”, dove si producono impeccabili, quanto puntualmente irrealistici e disattesi, documenti.
Questo non possono permetterselo i leoni.
Bruno Gentile, Paola Labriola, Barbara Capovani erano leoni.
Come chiunque di noi ogni giorno ed ogni notte timbra un cartellino e va al rischio dell’incontro faccia a faccia, a mani nude, con la follia del mondo.
Se Bruno, Paola, Barbara non fossero stati leoni, non avrebbero incrociato la lava che li ha travolti.
Agli agnelli nei palazzi di vetro non può capitare mai nulla, se non di essere sacrificati al prossimo giro politico di giostra. Ma non è come perdere la vita. Loro non sanno nulla degli equilibrismi che facciamo ogni giorno, a volte per strappare un sorriso alle lacrime. A volte riuscendo anche a sentire quanto può essere cruda e dolorosa la bellezza. Volte per tranquillizzare la tempesta. A volte rimanendo in attesa di rivedere qualcuno, per rassicurarci che è semplicemente ancora vivo.
Dopo esserci tormentati con il pensiero a cena, con gli amici, in famiglia, o durante i nostri incubi notturni. Almeno nulla del genere può capitare agli agnelli. Del resto è giusto così: nell’arena gli agnelli non sopravviverebbero un giorno.
Forse qualcosa cambierà quel giorno che anche gli agnelli diventeranno leoni.
“Rise and rise again until lambs became lions”.
Caro Gilberto, vi sono
Caro Gilberto, vi sono momenti nella vita professionale nei quali, come si dice accada in punto di morte, tutta la tua storia si ripresenta in un micro secondo. Il tuo commiato a Barbara ha funzionato così per te, nel risalire fino a Ludwig. Tu hai la tua psichiatria di sangue e merda, dove, paradossalmente è facile identificare i leoni (anche se non vengono ammazzati) e gli agnelli. La mia è più pulita, più ambulatoriale (nei tempi passati), più da studio privato per tanti colleghi con i quali lavoro. Vi sono leoni diversi, agnelli diversi: succubi di pratiche stereotipate e belanti verso le proprie ortodossie, oppure coraggiosi nel sentirsi eterodossi e marginalizzabili, o, come spesso mi accade, reggere all’accusa di essere attraversati da un “delirio di onnipotenza” perché si tenta, si sfida la psicopatologia anche la più complessa. Ho un ricordo che mi ha sempre aiutato ad “essere onnipotente”. Tanti, tanti anni fa, incontro due genitori venuti al mio Servizio dall’altro mare, l’Adriatico, per una figlia di 13 anni, gravemente e indiscutibilmente borderline (non uso mai questo lemma così inflazionato!). La figlia è seguita da uno psicoterapeuta che ha dichiarato subito:” a voi non vi posso incontrare, la mia associazione lo vieta!” La figlia è stata portata anche a Bologna, in sede molto autorevole: “Non possiamo fare nulla per vostra figlia, perché forse è schizofrenica ma lo capiremo verso i suoi 18 anni”. Propongo a loro di incontrarci dopo pochi giorni per pensare a un progetto alternativo. Mi telefonano che la figlia si è uccisa, buttandosi dal balcone, senza aspettare i 18 anni. Mi hanno ringraziato, nonostante tutto, perché li avevo ascoltati e dato un frammento di speranza. Non credo che dobbiamo diventare leoni, non vedo Barbara e tanti colleghi come leoni. Certamente ci sono molti modi di essere pecore, ma forse un solo modo per salvare la pura dignità umana del nostro lavoro. Con profondo dolore mi chiedo: ci saranno tante fiaccolate, ma queste fiaccole si spegneranno così o qualcuna permetterà ai ciocchi del caminetto di accendersi, con fiamma minima, ma lunga nel tempo e irradiante quel tepore di cui abbiamo bisogno, noi e i nostri pazienti? Nelle tenebre è la piccola lucetta che apre il cuore alla speranza. Ti abbraccio, testimone coraggioso della nostra umana etica professionale.
Caro Corrado, la tua
Caro Corrado, la tua militanza ininterrotta è testimoniata, oltre che dal tuo magistero, dalla tua risposta che non manca mai a queste mie grida. Da valle a valle, da montagna a montagna, da torre a torre, noi ci sentiamo. Mi pento spesso delle mie radicalizzazioni, delle mie esasperazioni contropolari, e tu però ogni volta mi restituisci il senso del discorso. Di un’etica dell’ascolto e della presenza, di un’etica della responsabilità, di un’etica dell’azione. Perchè di questo si tratta : di assumere l’etica come uno scudo, con il quale tornare o sul quale tornare. In un campo, come il nostro, cioè quello dell’umano, non delimitabile se non a grandi linee, dove ognuno è sempre diverso dall’altro e da se stesso, dove le linee guida non guidano, dove i protocolli non tengono, dove le metapsicologie impallidiscono, la figura del terapeuta è quella insieme leggera, trasparente e marginale, e insieme di quella consistenza indissolubile, di quel resto umano che a tutto resiste. Ci siamo interrogati a lungo sulla formazione. Forse abbiamo anche fallito nella formazione. E non possiamo che inorridire insieme ogni volta che vengono eretti steccati, confini, appartenenze. Se si riesce ad ottenere una psichiatria “pulita”, di pazienti docili e mansueti, complianti ed ossequiosi, chi si occuperà della psichiatria sporca? Di quella dei pazienti che non rispondono, che non seguono, che non credono, che non transferano, che non aderiscono al modello che noi abbiamo in testa? Chi si occuperà dell’entropia che ogni sitema ordinato produce in misure proporzionale al proprio ordine? Non posso che ringraziarti, perchè ogni volta che “cado”, trovo la tua mano a reggermi.