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CONFLITTO E VIOLENZA NELLA RELAZIONE PSICHIATRICA

14 Mag 23

A cura di Paolo F. Peloso

Nel commentare a caldo l’uccisione della psichiatra Barbara Capovani, il sindaco di Pisa ha detto che prima veniva «il momento del cordoglio, del silenzio, della preghiera».
Il momento, cioè, di essere vicini a chi le ha voluto bene: i familiari, gli amici e i colleghi.
E così è stato. Si è trattato di un evento che ha destato una profonda commozione tra gli psichiatri e gli operatori della salute mentale, e in genere della salute, e anche tra tante altre persone che la sera di mercoledì 3 maggio si sono ritrovate in tante piazze per manifestare il cordoglio. È stata anche l’occasione per rivederci tra colleghi e condividere il dolore che nasce dall’immedesimazione, insieme alla sensazione che: è capitato a lei, poteva capitare a chiunque altro.
Molti hanno colto quest’occasione per raccontare le proprie difficoltà e i propri timori, manifestare una sofferenza e una difficoltà che si sono rese palesi.
Ciò che più sconcerta, della morte di Barbara Capovani, come del resto di quella dieci anni fa di Paola Labriola e quasi quindici anni fa di Franco Mastrogiovanni, è come l’incontro tra l’operatore psichiatrico e il paziente che si ripete migliaia di volte ogni giorno, possa risolversi con la morte.
È pensare che quel mattino la collega è uscita di casa per recarsi al lavoro, come tutti facciamo ogni giorno, mai più immaginando che quella volta non sarebbe ritornata.  
Secondo una ricerca di Lorettu e coll. (2015), i medici uccisi sul lavoro in Italia sono stati 18 nei 25 anni trascorsi dal 1988 al 2013. 18 medici in 25 anni che costituiscono una piccola parte dei 1.000 morti sul lavoro circa che ogni anno si contano in Italia. Di questi, 6 erano psichiatri.
Non è un numero grande, si potrà osservare, rispetto al problema generale delle morti sul lavoro; ma è un numero comunque troppo grande, perché parrebbe lecito sperare che nessuno debba morire perché cura, né perché viene curato.
Tra gli autori degli omicidi, tutti maschi, 7 sono poi risultati affetti da malattia mentale.
In seguito, ha proseguito il sindaco di Pisa, occorrerà pensare a come «senza perdere l'umanità, la società possa avere gli strumenti per arginare la pericolosità sociale di certi soggetti».
Molti hanno cercato di individuare in questi giorni questi strumenti, e di questo dirò qualcosa in conclusione.
Prima, da psichiatra, l’evento mi spinge però a provare a immaginare, cercando di immedesimarmi nel punto di vista dell’altro, quali emozioni, ragioni sue, soggettive, possano portare una persona a odiare tanto uno psichiatra da ucciderlo.
Non quella persona lì, sia chiaro, perché non conosco la situazione; una persona qualsiasi.
È un tema complesso, riguardo al quale mi è difficile in questo momento formulare altro che un procedere a tentoni, tra pensieri frammentari, pensieri sparsi appunto, emersi disordinatamente alla mia coscienza in queste due settimane e mille volte rielaborati prima di decidermi a esporli.
Lo faccio oggi con sofferenza, perché non sono ancora certo di essere riuscito a esprimere i miei pensieri in modo tale da non correre rischi di essere frainteso.
Spero che farlo, a una distanza di tempo dall’evento che mi è parsa necessaria, possa contribuire forse per una piccola parte a una percezione più condivisa dei problemi che, nascosti talvolta tra le pieghe della relazione, possono contribuire a trasformarla in una trappola che, per fortuna raramente ma talvolta sì, può rivelarsi esiziale.
 
 
Relazione e conflitto in  psichiatria
 
Di fronte a un evento tragico come questo di Pisa ritornano in mente a tutti noi che lavoriamo in salute mentale i momenti nei quali abbiamo avuto paura sul lavoro, o nei quali abbiamo subito minacce, o piccoli atti di violenza, o abbiamo avuto la sensazione di correre un pericolo più grande.
All’inizio della scuola di specializzazione, ricordo che uno dei professori, Romolo Rossi, soleva ricordarci che la psichiatria è una specializzazione diversa dalle altre. Perché non avremmo dovuto aspettarci che il paziente ci dicesse sempre: sì dottore, buongiorno dottore, grazie dottore.
Certo, ci sono anche incontri pieni di umanità, di straordinaria vicinanza, di immensa dolcezza in questo nostro lavoro. Ci sono momenti nella relazione psichiatrica di straordinario affetto, di condivisione, comprensione, comunione come raramente nelle relazioni umane sono possibili.
È normale però anche che sentimenti di segno opposto possano caratterizzare la relazione psichiatrica, come avviene nelle relazioni quando sono profonde e intense.
Perciò è importante che la presa in carico sia solida e l’abitudine al confronto all’interno della relazione di cura faciliti la possibilità di decisioni condivise quando le situazioni critiche devono essere affrontate.
Scrive del resto Petrella (9188) che «Il lavoro psichiatrico, per quanto sia spiacevole ricordarlo, è un momento ritagliato entro un dispositivo di coazione che è tenuto a intervenire nelle situazioni critiche, momento in cui diventa possibile – o addirittura doveroso – costringere un’altra persona nelle strettoie dell’obbligo del ricovero e della cura». 
Il lavoro psichiatrico comporta perciò anche momenti, inevitabilmente, di conflitto.
È inevitabile che ci siano, e, forse sono anche necessari. Perché se mancassero del tutto potrebbe essere un segnale preoccupante.
Potrebbe significare che la presa in carico non è abbastanza robusta – senza cessare di essere rispettosa, umana – da sostenere l’altro nell’evitare le derive alle quali una visione delle cose distorta dalla malattia può portarlo; oppure che il paziente si è tanto abituato alla presenza della psichiatria da esserne reso succube, passivo. Da avere perso la soggettività, il suo punto di vista, in quello dello psichiatra, o dell’operatore.
Nessuna delle due è una buona cosa; perché se i punti di vista sono due, è inevitabile la possibilità del verificarsi, almeno in qualche momento di una relazione che spesso è dilatata nel tempo, del conflitto. E il conflitto, si sa, quando la posizione di uno dei due si fa più esasperata o più disperata, può trasformarsi nella violenza. A volte, raramente, in una violenza estrema. Credo che ci siano molteplici ragioni, quindi, che rendono ineludibile che il rischio della violenza aleggi sul lavoro psichiatrico; e anche per altre aree del lavoro sanitario, questo è molto probabile.
 
 
La possibilità del conflitto sta nelle caratteristiche stesse della psichiatria
 
Una prima ragione possibile di conflitto, mi pare il fatto che se mi rompo una gamba mi rivolgo a un ortopedico. Questi mi mostrerà sulla lastra i due monconi dell’osso, che non combaciano più. Mi spiegherà cosa occorre fare per rimetterli insieme, e se io sono d’accordo – non vedo perché non dovrei esserlo, così mi fa male e non posso camminare – lo farà. Forse l’ho fatta un po’ semplice, ma grossomodo mi pare così. In psichiatria è diverso. Perché non è certo – ci insegna Rossi Monti (1984) – quale limite, ad esempio, separa tra loro il pensiero originale, creativo e quello che chiamiamo il delirio; non è scontato, cioè, il consenso su qual è il “lirium”. Così come non è certo qual è il limite che separa la normale tristezza dalla malattia depressiva, la normale euforia/disforia dalla condizione di mania. La normale paura e il legittimo sospetto dalla paranoia. Così, in psichiatria può accadere che lo psichiatra veda l’osso nella lastra rotto, e il paziente invece lo veda perfetto.
E questo può dipendere da due ragioni, credo. La prima è che l’emergere di un conflitto di opinioni è cosa normale, quando l’oggetto che i due osservano è opaco, ambiguo, i suoi limiti sono incerti; e di questo credo che dobbiamo sempre tener conto. Lo sforzo di persuasione dell’altro che è richiesto a noi psichiatri è infinitamente maggiore di quello richiesto ad altri medici (anche se bisogna osservare che, in occasione della pandemia, anche gli infettivologi hanno fatto la loro fatica, perché è diffuso in generale un clima di sospetto verso la scienza). La seconda ragione può essere che lo strumento con il quale uno dei due “vede” la lastra è proprio quell’osso, che se è rotto gli farà leggere la lastra in modo deforme, sbagliato.
Credo che il conflitto, in psichiatria, spesso nasca qui, da una di queste due questioni. La scarsa obiettività delle osservazioni psichiatriche, che si traduce spesso anche in scarsa concordanza del parere degli psichiatri, e quindi la difficoltà di condividerle con l’altra persona, di convincerla del proprio punto di vista. E insieme il fatto che per comprendere le distorsioni della realtà che la sua mente può produrre, la persona deve utilizzare proprio quella stessa mente che le produce e subisce. Il che a volte è possibile, perché il soggetto utilizza altre aree, sane, della mente. E altre volte no, perché aree sane a cui poterci rivolgere non ce ne sono, o almeno noi non siamo capaci di trovarne.
 
 
Prospettive: non tutti amano la psichiatria e gli psichiatri
 
Ricordo che durante il congresso che la World Psychiatric Association tenne a Firenze nel 2004 ho visitato incuriosito dal titolo “Psichiatria. Un’industria di morte” una mostra che era stata allestita come contraltare nelle vicinanze, da un gruppo ispirato a Scientology. La mostra era bene organizzata e gli aspetti disdicevoli della psichiatria vi erano rappresentati in modo sostanzialmente corretto, a parte qualche affermazione francamente poco verosimile (quella per la quale il 10% degli psichiatri violenterebbe i/le propri/e pazienti, ad esempio).
Per il resto, la psichiatria era oggetto di critica per la storia del manicomio e i suoi soprusi che sono ben noti a tutti, per aver partecipato a sperimentazioni disinvolte, per la psicochirurgia, le terapie di shock e per la collaborazione degli psichiatri allo sterminio nazista dei malati, alla sterilizzazione obbligatoria a fini eugenetici e al razzismo, alla repressione del dissenso in URSS.
Come negare che questo è parte della nostra storia? Altre accuse riguardavano il presente e in particolare l’opacità, talvolta, dei nostri rapporti con l’industria del farmaco, il rischio di manipolazione insito nelle terapie psicologiche, forse un po’ esagerato in quel contesto, gli abusi riguardanti la contenzione fisica e il ricorso agli altri provvedimenti costrittivi.
Non c’era, insomma, tra me e gli organizzatori della mostra, a parte qualche ingenuità che mi era parsa stridente, grande differenza nella ricostruzione dei fatti.
Piuttosto semmai, nella prospettiva con la quale li si guarda. E ricordo che mi era venuta in mente in proposito l’immagine della psicologia della gestalt nella quale qualcuno vede un vaso e qualcuno i profili di due facce. Con una sorta di inversione figura/sfondo insomma, a me la psichiatria pareva essere una cosa buona nella sostanza, che certo nella messa in pratica è caduta e cade ancora in molti errori. Per chi aveva organizzato la mostra invece, proprio quegli errori sono la storia, l’essenza attuale della psichiatria, e probabilmente il fatto che ogni tanto possa anche fare qualcosa di buono, che non veniva mi pare preso in considerazione, è semmai l’eccezione.
In quel caso si trattava di un’organizzazione ricca, potente e numerosa che organizzava una mostra multimediale impeccabile sul piano delle tecnologie utilizzate; in altri casi può essere unl singolo soggetto che, al più, può sfogarsi con gli strumenti disperatamente solitari del “leone da tastiera”. Ma, in ogni caso, dobbiamo essere consapevoli che le nostre coazioni (costrizioni), possono essere, sempre, messe in discussione; possono evocare dissenso da parte di chi le subisce e anche di chi vi assiste, ed essere avvertite come atti di crudeltà, analoghi a quelli che ci venivano rimproverati nella mostra. Possono essere per noi una parte antipatica, ma ovvia, del nostro lavoro, ma possono essere vissute dall’altro come un trauma.
Il che significa che dovremmo rinunciare alla responsabilità della coazione, della quale la legge le attribuisce la potestà e insieme il mandato?
Credo di no e questo tema, la coazione intesa nel significato generale del termine, mi sono sforzato di approfondire anni fa a un convegno della sezione veneta della SIP, svolgendo considerazioni che mi paiono attuali (segui il link). Mi pare però necessario, di fronte alla possibilità di punti di vista così divergenti, che la psichiatria si mantenga modesta, consapevole dei suoi limiti e degli errori della sua storia, del suo essere insieme scienza naturale e scienza umana, della fragilità e insaturazione del suo sapere, e che sia aperta a tenere presente che qualcuno può non essere disposto a darle credito gratis. Sforzandosi perciò di essere specchiata nei suoi comportamenti, per poterli chiarire senza ambiguità quando ne è richiesta. Di non stancarsi di negoziare, per cercare ostinatamente il consenso, l’alleanza. E di rendere conto delle coazioni alle quali può essere costretta dal suo essere disciplina medica e dal suo mandato sociale, perché chi le subisce può non vederle nella stessa prospettiva.
Ci sforziamo, nel lavoro, di costruire dialogo e negoziazione con soggetti affetti da forme gravi di paranoia; credo che potremo allora compiere sforzi anche per dialogare con chi ha una pessima opinione di noi. Sforzandoci così di non lasciare fuori dall’interlocuzione nessuno.
 
 
Il lavoro psichiatrico: un lavoro difficile
 
Sentiamo che questa morte ci rende tristi, la avvertiamo ingiusta e rivelatrice della fragilità e la fatica del nostro lavoro. Un lavoro dove l’incidente, nella forma del suicidio o dell’omicidio, può essere lì in agguato e colpirci quando meno lo aspettiamo. Un lavoro che è fatto di tanti dubbi che a volte siamo costretti a scambiare e a vendere per certezze. Certezze che ci portano a litigare così spesso tra noi, a dividerci, combatterci, non comprenderci più. Un lavoro che è per la maggior parte del tempo affidato alla protezione, alla custodia dell’altro, che una volta terminato il colloquio con noi è solo con la sua vita, la sua libertà e le sue scelte. Un lavoro che è fatto di momenti bellissimi, e di molta sofferenza. Questo lavoro che ci dà tante soddisfazioni, ma che ci chiede anche tanto. Qualche volta, rare volte ma qualche volta come questa sì, può chiedere anche la vita. Un lavoro che è fatto di aspettative alle quali non possiamo mai pienamente rispondere. Che ci vede spesso soli, a dover prendere decisioni difficili. Stare vicino a chi si fida di noi, è “collaborativo” come si dice, ce la mette tutta, ma non riusciamo a sostenere quanto vorremmo nelle aspirazioni che meriterebbe di soddisfare. Perché la malattia è più forte di lui e di noi insieme. E allora non possiamo che stare vicino alla sua delusione e alla sua fatica, avere pazienza e imparare a rassegnarci e riprovarci, e aiutarlo ad avere pazienza e a rassegnarsi e riprovarci a sua volta.
Ma anche stare vicino a chi non si fida di noi, non si vede malato come noi lo vediamo, e scambia i nostri sforzi di aiuto per un’ingiusta e immotivata intrusione. Non si rassegna agli effetti indesiderati delle nostre medicine. Non ci vuole tra i piedi, mentre ci sentiamo costretti a stargli tra i piedi. Rifiutati, sgraditi, a esserci lo stesso. A volte con prepotenza, con insistenza, assumendocene la responsabilità. Siani e coll. (1990, p. 75), in un libro che continuo a trovare importante, proponevano la distinzione tra la costrizione, che è la forza esercitata a suo beneficio e nel massimo rispetto possibile dell’altro, dalla violenza, che è la forza usata contro di lui.
Non so se questa distinzione possa bastare a convincerlo, ma certo se insieme alla robustezza dell’intervento siamo capaci di fargli avvertire il rispetto, è più facile che il conflitto si risolva e la relazione possa uscire addirittura corroborata dall’avere superato insieme un momento difficile.
 
 
Porte aperte sulla sofferenza della città
 
Il Pronto Soccorso e il Centro di Salute Mentale sono due porte aperte sulla sofferenza e la disperazione che abitano la città. Non ce ne sono molte altre alle quali esse possano rivolgersi. Lavorare in quei contesti significa avere a che fare con la questione della follia e con la questione della libertà. E, come Franco Basaglia ci insegna, anche con la questione della delusione, dell’esclusione e della povertà delle quali i soggetti che incontriamo sono spesso costretti a fare esperienza. La mancata corrispondenza dei servizi ai bisogni o alle aspettative, la povertà e l’ingiustizia sociale. Credo che siano proprio queste le questioni che maggiormente espongono il personale sanitario ad atti violenti, cioè che possono far sì che il conflitto che è normale che abiti la scena psichiatrica, e in certi contesti anche quella sanitaria, sfoci nella violenza. Si potrebbe obiettare che molte cose che fanno soffrire il paziente non ricadono sotto la nostra personale responsabilità, che carenza di personale e di risorse che limitano le nostre possibilità di intervento dipendono dai decisori politico-amministrativi che stanno sopra di noi, che le erogazioni economiche che possiamo fornire sono per lo più stabilite da altri, ma il più delle volte l’unica interfaccia del soggetto avviene con noi; e si sa che coloro con i quali ci se la prende sono sempre coloro che si hanno davanti. E davanti, in quel momento, ci siamo solo noi.
 
 
Sentimenti di oppressione e di invidia
 
In un libro che spero che stia cominciando a girare tra i colleghi perché per una riflessione comune l’ho scritto (Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno, Erga, 2022, segui il link, segui il link, segui il link, segui il link) nell'affrontare la questione della violenza contro gli psichiatri ho fatto riferimento a tre casi nei quali un paziente ha ucciso uno/a psichiatra, che inevitabilmente in questi giorni mi ritornano insistentemente alla mente come ho visto che è accaduto anche a Gilberto Di Petta per un altro di sua conoscenza (segui il link). In uno dei tre l’assassinio pareva nascere, come parrebbe questa volta, da un progetto; negli altri due sembrerebbe da una scelta improvvisa.
In uno di questi casi conoscevo la psichiatra che è stata uccisa e le volevo bene; in due di essi mi è capitato d’incontrare l'assassino dopo il fatto. Nel terzo, frequentavo in quel periodo alcuni colleghi e amici della vittima.
Sulla base di ciò che so di quelle tre vicende, ho immaginato che, a prescindere dal fatto se l'assassino fosse o meno capace di intendere e volere che è questione che si pone su altri piani, quelli della coscienza e della volontà, per quanto riguarda gli affetti siano soprattutto due quelli  che possono armare la sua mano: un sentimento di ingiustizia e oppressione e un sentimento di invidia.
Questo non significa che altre emozioni, ad esempio riferibili al rapporto di genere, non abbiano importanza, perché la relazione psichiatrica è comunque una relazione tra persone, ma credo che queste due siano particolarmente importanti in questo caso.
A volte poi, certo, abbiamo la sensazione che la violenza contro lo psichiatra si collochi nel quadro di un pensiero delirante, a volte in quello di un'esplosione di rabbiosità tale da accecare, ma anche in questi casi credo che essa abbia spesso a che fare con questi due sentimenti.
 
 
Il sentimento di oppressione
 
Il sentimento di oppressione può avere a che fare da un lato con il fatto che allo psichiatra sono comunemente attribuite capacità introspettive e di spiegazione delle cose di fronte alle quali le persone possono sentirsi eccessivamente esposte nella loro intimità, nei loro segreti. E dall'altro lato, più in generale e in modo forse più evidente, con il fatto che lo psichiatra ha di fatto un grande potere sulla libertà del paziente: può obbligarlo alla terapia, a un programma di visite di controllo, a una presa in carico complessa, al  ricovero, al permanere ricoverato.
È un potere sull'altro molto grande, il nostro, del quale a volte non ci rendiamo conto della misura nella quale, specie nei casi nei quali il convincimento di essere lei a essere nel giusto e lo psichiatra a sbagliare si fa assoluto, può essere sofferto dalla persona.
 
 
L’invidia
 
Credo che l'invidia invece abbia a che fare con il fatto che lo psichiatra, e in certa misura ogni operatore psichiatrico, può essere visto dal paziente come il principale se non il solo rappresentante a portata di mano della salute e della società di coloro che riescono a essere abbastanza sereni, hanno avuto successo, sono ricchi, eleganti, sono relativamente felici, sono socialmente integrati.
Certo si potrebbe obiettare che l’operatore può avere a sua volta le corna sue e le sue difficoltà, che il carattere unidirezionale della relazione e la schermatura operata dal setting tengono nascoste al paziente, e che nella società ci sono soggetti certamente più invidiabili di lui; ma lì in quel momento di fronte al paziente c'è lui, ed è lui che viene avvertito come il simbolo di tutte le cose che si vorrebbero avere e non si hanno. Di tutte le cose, a volte anche minime e indispensabili, che si vorrebbero e alle quali si sente di avere diritto e che la vita e la società, che nella situazione di cura lo psichiatra è l’unico lì a portata di mano a rappresentare, impedisce di avere.
 
 
Ma il conflitto non comporta necessariamente la violenza
 
Credo che siano pochi, tra i pazienti dello psichiatra, a non avere provato almeno in un'occasione uno dei sentimenti ai quali ho accennato, ma certo la maggioranza di loro sono persone buone e sensibili (e proprio con questi tratti forse spesso ha a che fare in parte la loro sofferenza) e non si sognerebbero mai di essere violente, né contro lo psichiatra né contro nessuno. Qualcuno lo sognerebbe forse, ma non lo farebbe. Sono una esigua minoranza dunque, tra i pazienti dello psichiatra, come del resto nella popolazione generale, coloro che non provano insieme a questi sentimenti anche quel “sentimento del valore dell'altro” in termini di compassione ed empatia (De Vincentiis e coll., 1972, p. 215; Ferro e coll., 2007) che impedisce di esercitare la violenza verso colui nel quale vediamo rispecchiata la nostra umanità. Pochissimi sono coloro che provano questo sentimento tanto poco da volergli fare male sul serio, o di volerlo uccidere.
Pure, non si può ignorare che questa possibilità esiste e in quei casi lo psichiatra (anche gli altri operatori della salute mentale, che però dispongono di minore potere sul destino della persona ed evocano quindi in essa minore angoscia e sentimento di persecuzione), può rischiare di trovarsi solo, ad affrontare a mani nude il rischio della violenza sperando che, come il più delle volte accade, tutto vada bene.
 
 
Martirologio
 
Il conflitto all’interno della relazione psichiatrica sta dunque nella natura di questa relazione. Non nasce certo dai movimenti antipsichiatrici, che semmai ne sono più un sintomo, che la causa. Né dipende da un modello di organizzazione dei servizi piuttosto che da un altro. Anche all’interno del manicomio, come è ovvio, la prevenzione del fatto che dal conflitto si arrivassde a reati di sangue non era assoluta, né gli operatori psichiatrici erano del tutto al riparo dall’odio del paziente. Ricordo anzi – il caso è ritornata in mente anche  a Pierpaolo Martucci che lo ha raccontato nei dettagli in questi giorni (segui il link) – che Marco Levi Bianchini, direttore di ospedale psichiatrico piuttosto celebre prima delle leggi razziali e uno dei primi psicoanalisti in Italia, fu a sua volta accoltellato da un paziente nel manicomio di Nocera Inferiore da lui diretto nel 1936. Lo stesso Levi Bianchini raccoglieva sulla sua rivista i delitti connessi alla malattia mentale commessi all'esterno del manicomio in una rubrica, che chiamava il “martirologio sociale”, e quelli commessi all'interno del manicomio in un’altra che chiamava “martirologio psichiatrico”, e aveva in entrambi i casi sempre abbastanza materiale di che scrivere. Martucci ricorda che nel 1933 Levi Bianchini raccolse e pubblicò 80 casi di psichiatri o infermieri uccisi o feriti dai malati dentro i manicomi, e raccolse anche casi di malati uccisi o feriti in manicomio per responsabilità del personale o di altri malati. Uno di questi ultimi, accaduto nel manicomio genovese di Prato Zanino, lo abbiamo pubblicato con Bollorino e Di Petta (2020) ed è stato più volte recensito su questa rivista (segui il link).  
 
 
Lo psicopatico: mad or bad?
 
Non solo. Fin qui abbiamo detto di situazioni nelle quali la violenza è l’epifenomeno di una condizione di conflitto all’interno di un quadro di malattia e di cura. Ma ci sono altre situazioni, nelle quali la violenza non ha a che fare con ciò che usualmente intendiamo per malattia mentale e con la cura. Ma neppure con una situazione che risponda alla logica degli interessi, o al terrorismo politico o a quello religioso come fenomeni collettivi, o alla guerra, che sono le cause di violenza di fronte alle quali la nostra società non si sorprende, e che considera “normali”.
Queste situazioni, che non rientrano nella malattia per come in genere la intendiamo ma neppure nel crimine come la legge è abituata a smascherarlo e perseguirlo, devono essere considerate anch’esse condizioni di malattia? E deve la violenza, essa stessa, quando appare immotivata o sproporzionata, essere considerata e/o essere trattata come una malattia? Esiste una malattia il cui sintomo principale è la cattiveria, o questo non è un giudizio morale anziché medico? E cosa può/deve fare la psichiatria di fronte a queste situazioni?
Sono interrogativi aperti da almeno due secoli, ma non cessano di riproporsi e possono modificare significativamente il numero di occasioni nelle quali si pone alla psichiatria il problema della violenza. Forse, una risposta generale non può essere data, e la cosa più saggia rimane, mutatis mutandis, quella che proponeva Andrea Verga già nell’Ottocento (Peloso e Paolella, 2016), l’individuazione cioè di uno spazio di competenza terzo, tra quello della cura e quello della sicurezza, per queste situazioni. Un’area di competenza rispetto alla quale la psichiatria non si chiami fuori del tutto, e possa fare la sua parte,  ma non si trovi a essere il solo attore, e forse neppure quello principale (Ferrannini e Peloso, 2000).
 
 
L’uno, l’altro, e gli altri
 
Chiudo questa parte, nella quale ho cercato di interrogarmi sull’odio verso gli psichiatri provando a immedesimarmi nel punto di vista di coloro che lo provano, con due considerazioni.
La prima è che il rischio di violenza, nelle due direzioni, è un elemento che abita inevitabilmente, come possibilità, la relazione di cura in psichiatria. Che è sempre incontro/scontro tra fragili corpi umani e istituzioni che si fanno talvolta rigide: la psichiatria, la società, la follia, l'odio. In questo caso, l'uccisione di una psichiatra da parte del paziente ci ha portato a riflettere su questa direzione della violenza; ma non molto tempo fa, la morte legato e abbandonato a se stesso di Franco Mastrogiovanni in un SPDC ci ha portato a riflettere sulla violenza esercitata nella direzione opposta. Si può (e si deve) fare tutto il possibile per contenere il rischio della violenza al massimo ed è possibile farlo con l’evitare, tra l’altro, che la relazione diventi chiusa, opprimente, asfittica, aprendola il più possibile all’équipe e alla comunità. La seconda considerazione è che, nel rapporto tra l'individuo malato di mente e la società, lo psichiatra deve sforzarsi sempre di essere mediatore, negoziatore; e, come spesso succede al negoziatore, a volte può rischiare di prendere botte da una parte e dall’altra, perché questo non accada deve sforzarsi di chiarire a tutti, il più apertamente possibile, il contenuto e il senso del lavoro che fa.
Questo nostro lavoro è sempre sotto accusa: chi ci vede illusi, astratti, inutilmente “buonisti”, lenti, inconcludenti nel contribuire alla sicurezza di tutti. E chi ci vede duri, oppressivi, noncuranti della libertà delle persone. Chi ci accusa di esserci troppo poco, e chi ci accusa di esserci troppo, in modo invadente, insistente.  Noi, in mezzo.
 
 
Quali strumenti?
 
Accennavo, all’inizio, agli strumenti che il sindaco di Pisa chiedeva che ci si sforzasse di individuare, per evitare che casi come quello del quale Barbara è stata vittima si ripetano, e vorrei proporre anche su questo qualche considerazione.
In queste settimane, abbiamo assistito a un profluvio di proposte.
Qualcuno ha colto l’occasione per lamentare la carenza in organici e risorse dei servizi per la salute mentale, il che è senz’altro un problema; però, a sforzarsi di essere obiettivi, forse in questo caso ha poco a che fare con un omicidio avvenuto mentre la collega rientrava a casa, in un momento nel quale, qualunque fosse stato l’organico del suo servizio, sarebbe stata comunque sola.
Qualcuno per lamentare la denigrazione della quale gli operatori pubblici sono stati oggetto da parte di una parte del mondo politico, nello stesso momento nel quale essa stessa tagliava ai servizi le risorse perché potessero funzionare; ma anche questo credo che possa spiegare l’aggressività verbale, la piccola violenza verso gli operatori sanitari; è vero che il clima può fomentare, ma che si arrivi a uccidere mi pare altra cosa.
Qualcuno naturalmente ha colto l’occasione per prendersela con la Legge 180 e con Basaglia, ma anche questo mi pare c’entri poco: una persona come l’assassino di Barbara anche qualora esistesse ancora l’ospedale psichiatrico, probabilmente sarebbe stata fuori. E oggi, semmai, fuori ci sono certo più servizi di quanti ce ne fossero prima della legge. È interessante poi, come ricorda ancora Martucci, che già nel 1933 Levi Bianchini non credesse nel manicomio come strumento di prevenzione della violenza, e sottolineasse anzi il fatto che una psichiatria più dura, a parte altri problemi che genererebbe, ha l'effetto di aumentare il “rancore” in chi ne è vittima. Con il rischio di alimentare una spirale nella quale all'aumentare della violenza in una direzione corrisponderebbe l'aumento nell'altra, ed è proprio la direzione opposta invece quella che dovremmo imboccare.
Qualcuno se l’è presa con la più recente Legge 81 che ha chiuso gli OPG e la sua fase ancora di assestamento, ma anche questo ho la sensazione che c’entri poco: non mi pare che in questo caso il problema sia stato nell’eventuale inadeguatezza delle soluzioni previste dalla legge, né nella loro indisponibilità in quel momento.
Semmai, un problema che avverto in relazione alla Legge 81 è nel fatto che, in molte situazioni, ad essa non ha ancora fatto seguito quel cambiamento nei rapporti tra mondo della sicurezza e mondo dell’assistenza che essa auspicava.
Se qualcosa si potrebbe fare oggi, allora – e mi fa piacere trovarmi del tutto d’accordo in questo con quanto Pietro Pellegrini (2023a, b) ha scritto in questi giorni in più di un’occasione (segui il link) –mi pare che si situi non “in” qualcosa, ma piuttosto “tra” qualcosa, e mi riferisco alla relazione tra le diverse agenzie  che operano per la sicurezza, per l’assistenza e per la cura.
Le quali, come ho avuto già occasione di scrivere quando la Legge 81 era appena stata emanata (segui il link), dovrebbero avere tra loro una vicinanza e una consuetudine continue, il più possibile dirette e personali, per individuare soluzioni agili, flessibili, calate nella realtà, ritagliate su misura per ogni situazione e sper ogni persona.
Questioni di sofferenza mentale, di povertà e di sicurezza si presentano spesso interconnesse e il benessere della comunità dovrebbe essere allora una costruzione a più mani, risultato di un lavoro comune di agenzie che dialogano, si parlano, si sforzano di comprendersi e rispettarsi a vicenda nel fare tutte tesoro di quel po’ di sapere e quel molto più di buona volontà che ciascuna può mettere in campo. Una comunità che concorre unita alla cura, all’assistenza e insieme alla sicurezza insomma, e impara così a prendersi cura, in primo luogo nei suoi membri più fragili, di se stessa.
 
 
Bollorino F., Di Petta G. (2020), La doppia morte di Girolamo Rizzo, Roma, Alpes.
De Vincentiis G., Callieri B., Castellani A. (1972), Trattato di psicopatologia e psichiatria forense, Roma, Pensiero Scientifico.
Di Petta G. (2023), Lions for lambs (mai visti simili leoni comandati da simili agnelli), POL. it, Psychiatry on line – Italia, 26 aprile 2023.
Ferro A.M., Peloso P.F., Ferrannini L. (2007): Alcune vicissitudini del sentimento del valore altrui, della responsabilità e della colpa nell’omicidio, Psicoterapia e Scienze Umane, 41, 2, pp. 171-190.
Ferrannini L, Peloso P.F. (2000), Il comportamento violento in psichiatria e il Disturbo Antisociale di Personalità: problemi e proposte nell'intervento del Dipartimento di Salute Mentale, Rassegna Italiana di Criminologia, 9, 3-4, pp. 423-451.
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