Leggendo la presentazione della proposta di legge dei radicali italiani di modifica della legge 180 (vedi), scopro di avere capito molto poco delle regole che da dieci anni applico nei servizi di salute mentale.
L’impianto normativo più volte elogiato dalla OMS sarebbe “fragile”, la tutela dei diritti del paziente del tutto inconsistente, il sindaco “figura ornamentale”.
La soluzione passerebbe per un giudice tutelare, non più garante e supervisore ma diretto responsabile della emanazione della ordinanza di tso, per un avvocato che difenda il paziente proprio come una persona arrestata o fermata.
Rimango molto stupita da queste affermazioni, come se la quasi quarantennale legge 180 non fosse stata ideata proprio nel tentativo di affermare i diritti della persona che in un momento importante della sua vita necessita di cure. Come se la massima autorità sanitaria locale, quel sindaco che deve rendere conto direttamente ai cittadini, non fosse stata chiamata in causa proprio per affermare la natura medica del trattamento sanitario.
D’altronde, a quanto pare, le incongruità della proposta non si limitano ad aspetti così volgarmente (o apparentemente?) “ideologici”. La proposta afferma che, ora, il giudice tutelare non applica a dovere la legge; che senso ha allora assegnargli un compito ben più importante e delicato? Senza peraltro entrare nel merito di un potenziamento e riorganizzazione dei suoi uffici (e dell’intera rete dei servizi di salute mentale)?
Nessun problema sembra di capire, i diritti del povero paziente sarebbero comunque garantiti (magari a costo zero per lo stato!) dal presidente del tribunale in persona, che con udienze ogni 4 giorni deciderebbe la sorte del malcapitato di turno.
Dalla padella nella brace, due magistrati per un atto medico…
Nel delicato momento in cui la malattia della persona bussa alla porta, magari nella forma del delirio, spesso la reazione è il rifiuto di ogni aiuto, di ogni cura. Paura, disagio, smarrimento possono prevalere, insieme alla sensazione che il mondo ci sia ostile.
Udienze, tribunale, avvocati, avete idea di quanto tutto questo possa sconvolgere le persone?
E poi, al posto dei Vigili Urbani (rappresentanti del sindaco, corpo di polizia locale, in un ordinamento civile) chi mettiamo? La Polizia di stato?
Per un periodo di studio da specializzanda in Psichiatria sono stata in Olanda. In quel paese il giudice decide (per pericolosità) il Tso, di solito si reca personalmente in ospedale ed esamina il paziente prima di esprimere il suo accordo o rifiuto al ricovero o al trattamento obbligatorio. Non a caso, a condurre i pazienti in ospedale è sempre la polizia. Ero lì nel 2006 per insegnare il modello italiano. In un paese in cui il servizio pubblico non era falcidiato da tagli, incuria e smanie privatizzatrici si rendevano conto che le garanzie offerte dalla loro legge di quasi cento pagine erano largamente virtuali, come dimostrava la protesta organizzata delle famiglie contro l’arbitrarietà dei ricoveri negli ospedali psichiatrici (ebbene sì, persi tra un codicillo e l’altro hanno dimenticato di chiuderli!).
Ora mi trovo in Italia nel 2017 e mi si propone la stessa identica cosa, con una bella riverniciata di “europeo”. Come è possibile?
Forse, mi dico, nei nostri servizi in questi anni ci sono stati terribili abusi e tragiche morti, anche perché si è perso il senso del servizio pubblico, che questo sia lo strumento principe di garanzia di diritti finalmente reali e non solo proclamati con roboanti parole.
E spesso, perché no?, che questo fondamentale compito comporti per ogni operatore del Sistema sanitario nazionale dei doveri.
Doveri verso tutti i cittadini.
Quante volte le giuste prescrizioni di leggi giuste sono state malamente realizzate o addirittura capovolte? E’ veramente scontato che lo psichiatra sia un “operatore di pubblica sicurezza” dal quale il cittadino (che se lo può permettere) va difeso per mezzo di giudici e avvocati?
Ricordiamo allora, ancora una volta, le principali direzioni di azione indicate dalla legge del 1978, invitando contemporaneamente a riflettere sulle difficoltà prodotte dalla crisi in corso (il lato della “domanda di cura”) e dai continui tagli a personale e strutture (l’ “offerta”).
Circostanze che spingono inesorabilmente verso una psichiatria “quantitativa”, coercitiva, anche se non devono e non possono in alcun modo giustificare i comportamenti violenti di operatori che hanno completamente smarrito il senso del loro lavoro e che troppo spesso lo stesso sistema giudiziario che si invoca come panacea lascia impuniti.
Il bisogno di trattamento, base dell’attuale legge determina un’azione immediata verso la persona da parte di uno psichiatra o comunque di un medico, che spesso può risolvere una situazione critica senza ricorrere all’ammissione obbligatoria.
Una delle principali ragioni per la sua introduzione era, lo ricordiamo, proprio il tentativo di fondare la relazione medico-paziente sull’obbligo morale di curare e su un impegno politico alla protezione della salute del cittadino, in alternativa all’obbligo legale di punire l’individuo e di proteggere la società.
La legge italiana ha avuto il coraggio di negare il pregiudizio anacronistico della pericolosità implicita e invariabilmente connessa alla malattia mentale. Per questo la parola “pericolosità” scompare completamente dal testo di legge.
Grazie a questo (e in tempi di garanzie vacillanti per tutti sorprende l’insensibilità proprio dei radicali a riguardo) dal 1978 un magistrato o le forze di polizia non possono più disporre una cura o un internamento. Ma ciò che forse rappresenta la peculiarità della legislazione italiana, ciò che la contraddistingue rispetto ad altre legislazioni europee, è l’attenzione al tema della volontarietà e della involontarietà. Proprio da qui scaturisce il dovere del medico di farsi carico della libertà della persona, adottando tutte le iniziative opportune rivolte ad assicurare il suo consenso nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio.
La legge del 1978 si interroga insomma su quel nodo centrale e delicato che concerne il rapporto tra malattia mentale e libertà.
Nei due sensi: in che misura siamo davvero liberi quando siamo in preda alla malattia? E viceversa: quanta libertà ci può concedere la società quando siamo malati?
Il compito che la legge indica al medico è quello di mettersi al centro di questi dilemmi etici, di cercare il consenso alle cure con pazienza e tenacia. E lì dove ciò non accada, di farsi carico del rifiuto con una scelta responsabile che garantisca i diritti della persona, primo fra tutti quello di essere curato. Riconoscendo che non ci si può nascondere dietro questo rifiuto per sostenere, in maniera generica e strumentale, il rispetto sempre e comunque della libera scelta dell’individuo. Per soggetti non dotati di mezzi adeguati, troppo spesso questo comporta l’abbandono in una condizione di solitudine e di miseria morale e materiale.
Da qui la risposta del servizio di salute mentale: pensata e articolata efficacemente sul territorio, con il trattamento ospedaliero ridotto a extrema ratio.
Bisogna ricordare che in tutta Europa, dove il sistema è spesso molto simile a quello proposto dagli amici radicali, si sta presentando una preoccupante crescita dei trattamenti obbligatori, concentrata nei paesi che accettano il criterio del pericolo. Alcuni studiosi sembrano concordi nell’individuare la causa di questo fenomeno nel costante e pervasivo allarme (minaccia terrorista, violenza ecc. ecc.) che da qualche anno agita con la medesima intensità tanto gli operatori quanto la società nel suo complesso.
Di fronte al pericolo ci si difende, una logica che un po’ ovunque in Europa ha ripreso ad alimentare la vecchia idea che la malattia mentale sia sempre qualcosa di incontrollabile e pericoloso.
Il «patto tra psichiatria e Stato», insomma, non è mai stato completamente spezzato, e ora nubi oscure si addensano all’orizzonte anche in Italia.
I radicali da che parte stanno?
Alessia de Stefano
da http://www.news-forumsalutementale.it
Bibliografia:
1. Dressing, H., & Salize, H.J. (2004) Compulsory admission of mentally ill patients in European Union Member States. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology 39(10);
2. Guaiana G., Barbui C. (2004) Trends in the use of the Italian Mental Health Act, 1979-1997. European Psychiatry 19(7);
3. Jonas, C., Machu, A., & Kovess, V. (2002) France. In H.J. Salize, H. Dreßing, Peitz M. (Eds.) Compulsory Admission and Involuntary Treatment of Mentally Ill Patients – Legislation and Practice in EU-Member States – Final Report. Mannheim (D): Central Institute of Mental Health, pp. 75-81.
4. Legge 13 maggio 1978, n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, pubblicata nella Gazz. Uff. 16 maggio 1978, n. 133.
5. Mulder C.L. (2005) Variations in involuntary commitment in the European Union. British Journal of Psychiatry 187(1), 91-92.
6. World Health Organitation (2005) Mental Health: facing the challenger, building solutions.
7. Riecher-Rössler A., Rössler W. (1993) Compulsory admission of psychiatric patients–an international comparison. Acta Psychiatrica Scandinavica 87 (4), 231-236.
8. Salize H.J., Dressing H. (2004) Epidemiology of involuntary placement of mentally ill people across the European Union. British Journal of Psychiatry 184(2), 163-168.
9. Szmukler G., & Holloway F. (2000) Reform of the Mental Health Act. Health or safety? (3), 196-200
Vedi anche
POLITICAMENTE
Vedi anche
POLITICAMENTE SCORRETTO: ma il problema della psichiatria è il TSO?
http://www.psychiatryonline.it/node/6736