Report – primo gruppo – a cura del dott. Fedele Maurano
Il gruppo è stato condotto dal dottor Luigi Tagliabue ed era composto da 17 partecipanti; vi è stato un clima costruttivo, vivace e partecipato; la sua composizione è stata significativa, infatti, vi erano operatori, familiari, utenti e amministratori e questo ha permesso una valorizzazione dei saperi e dei compiti proposti.
Fondamentalmente c’è stata una continuità rispetto alle relazioni della mattina, infatti rispetto alla relazione del dott. Harrison è stato ripreso il concetto di comunità, c’è stato un confronto e alcuni sostengono che non è affatto decaduto il concetto di comunità, ma piuttosto si ritiene che vada riformulato in termini di comunità locale anche per dare senso al lavoro di salute mentale di comunità, mentre c’è stata una continuità rispetto alla relazione del dott. Folgheraiter e al concetto di partecipazione.
Nello specifico, ciò che è emerso è che il fenomeno dell’associazionismo da movimento rivendicativo, rispetto soprattutto alla legge 180 e alla chiusura degli ospedali psichiatrici, si va trasformando nel corso del tempo in soggetto cooperatore e collaboratore dei servizi e questo aldilà dei vari progetti a cui partecipano, spesso in maniera paritaria, i soggetti del terzo settore e servizi pubblici pongono una domanda: ma se ci sta una sorta di istituzionalizzazione anche nel cosiddetto movimento dell’associazionismo in genere, quali sono allora gli spazi di contrattazione, di reale autonomia e di negoziazione da parte delle associazioni? Questo è stato uno dei punti vivacemente discusso.
Di pari passo al ruolo delle associazioni e degli utenti si è discusso del ruolo e l’identità dei servizi pubblici e soprattutto il ruolo e l’identità degli operatori che vi lavorano. Si è accennato alla formazione degli operatori e al lavoro di rete che diventa difficile per gli operatori che sono stati addestrati a fare altro. Tra le difficoltà emerge quindi il lavoro di rete e il sistema aziendalistico che privilegia di fatto una produttività centrata alle prestazioni e quindi di conseguenza la non valorizzazione di un approccio al lavoro di rete secondo il processo della presa in carico globale del bisogno e delle istanze della comunità locale e degli utenti; tutto ciò rimanda alla definizione di nuovi L.E.A. per la salute mentale e anche alla effettiva integrazione socio-sanitaria soprattutto in riferimento all’utente come soggetto sociale.
E’ stato affrontato il discorso dello statuto sociale della psichiatria anche questo molto dibattuto rispetto al rapporto tra psichiatria e salute mentale, ma la cosa più importante emersa è che dentro il paradigma biopsicosociale non vengano annullate tutta una serie di cose che sono ben presenti all’interno di una comunità sociale e che non possono rientrare all’interno di un discorso biopsicosociale. Sono state presentate delle esperienze di auto-mutuo-aiuto per esempio quelle della regione toscana che spesso hanno supplito a delle carenze di tipo organizzativo e di risorse del servizio pubblico e come fenomeno in continua espansione sono stati rilevati 209 gruppi di auto-aiuto attivati dal 2003 all’interno della salute mentale in Italia, quindi è evidente che i fenomeni innovativi quali quelli dei gruppi di auto-mutuo-aiuto non devono nascondere una serie di arretratezze che sono state denunciate purtroppo in molte regioni quali per esempio una pletora di posti letto all’interno di strutture private o di pratiche che non sono compatibili con un concetto di utente come soggetto titolare di diritti umani, quindi sembrano rimandare a fenomeni di vecchia e nuova istituzionalizzazione.
Rispetto al discorso dell’impresa sociale, quello che emergeva è che fare impresa sociale non significa fare cooperative sociali di serie b con fondi e finanziamenti del servizio pubblico ma bisogna riscrivere il discorso del lavoro e delle politiche del lavoro pensando che le imprese sociali possano fare servizio pubblico ma che lo fa soprattutto la comunità locale.
In ultimo è stata accolta l’esperienza di un utente che ha richiesto la presenza attiva dell’utente, citato nella relazione del Prof. Folgheraiter, dentro le decisioni prevalentemente di natura sanitaria da parte degli operatori dei servizi e questo rimane tutt’oggi una questione aperta
Report – secondo gruppo – a cura del dott. Andrea Gaddini
Il gruppo è stato condotto dal dottor Giuseppe Cardamone ed ha visto 18 partecipanti che hanno portato contributi diversi, che riflettevano la diversità nelle competenze e nelle esperienze di ciascuno; è stato peraltro interessante verificare nel corso dell’incontro la progressiva strutturazione di un terreno condiviso di discussione. In particolare, vi sono state delle convergenze su alcuni punti emersi anche negli altri gruppi, quali ad esempio il protagonismo degli utenti, e sul dato di fatto che adesso il protagonismo cominci a definirsi meglio rispetto al passato: può esprimersi in attività specifiche, quali il sostegno all’abitare, o attraverso una valutazione partecipata. e ancora attraverso una serie di interventi molto interessanti quali sono quelli realizzati dalla regione Toscana, che riguardano la lotta al pregiudizio e allo stigma e i corsi di formazione attivati.
Un altro punto che è emerso come elemento di assoluta priorità è stato quello di ripensare i L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza) non solo attraverso la lente dei diritti individuali, ma come riconoscimento del lavoro di rete: sono necessari più attori per ottenere dei risultati in questo ambito, il cui valore è inscindibilmente legato al welfare e al protagonismo dei soggetti. I Dipartimenti di Salute Mentale, è stato ricordato, non sono i soli referenti del disagio psichico: una loro funzione potrebbe essere proprio quella di "monitor" dell’organizzazione dell’assistenza, dove un ruolo essenziale è svolto dalle reti sociali. L’identità dei DSM – secondo alcuni talvolta troppo declinata sul piano sanitario o, all’opposto, su quello sociale – è segnata anche dai livelli di investimento degli operatori (in netto declino secondo alcuni partecipanti) e dalla necessità di percorsi di valutazione relativi alla qualità dell’assistenza e all’outcome dei trattamenti.
I DSM sono stati considerati poi nella loro posizione chiave di raccordo con il mondo della cooperazione e dell’inserimento lavorativo: l’incontro è stato pertanto anche un’occasione per condividere l’esistenza di nuovi programmi realizzati in questo ambito, riguardanti ad es. il sostegno e lo sviluppo di percorsi integrati e l’inserimento lavorativo dei soggetti con disturbi psichici. Su questo tema è emersa una convergenza circa la necessità di una migliore definizione a livello nazionale, e l’opportunità di tavoli di integrazione fra i Ministeri della Salute, della Solidarietà Sociale e del Lavoro. Anche a livello regionale e locale appare necessario attuare degli interventi più adeguati e meglio precisati, attraverso la messa in rete di tutte le risorse disponibili e comunque attraverso dei programmi che fossero adeguatamente definiti. Abbiamo appreso come il funzionamento di questi meccanismi presenti diverse lacune, alcune delle quali note e in fase di risoluzione, mentre altre sono ancora poco conosciute.
L’incontro è stato un utile momento di confronto rispetto a diversi altri temi, come quello dei sistemi di finanziamento dei servizi, con particolare riguardo alle iniziative in campo riabilitativo. Abbiamo avuto una migliore definizione del lavoro di rete e del concetto di campo, e in ultimo abbiamo condiviso che l’esperienza dei familiari è spesso un percorso parallelo a quello degli utenti, un’esperienza complessa che comporta molte frustrazioni, nel corso della quale è però possibile passare a momenti di reale integrazione con il lavoro degli operatori e di vera e propria "invenzione" di nuovi interventi.
Alla conclusione dell’incontro è emersa la richiesta sia di poter includere alcune delle aree trattate anche all’interno dei prossimi seminari (attraverso l’eventuale partecipazione ad es. di un rappresentante delle associazioni), e sia la possibilità di poter formulare un proprio contributo in forma più compiuta, da raccogliersi eventualmente nell’ambito di un forum telematico di discussione.
Report -terzo gruppo- a cura della dott.ssa Serena Giunta
Il gruppo è stato condotto dal dottor Marco D’Alema, era composto da 17 partecipanti ed omogeneo rispetto alla numerosa presenza di psichiatri e responsabili di servizi. Tale premessa sembra importante rispetto sia ai contenuti emersi, ma anche rispetto a come il processo del gruppo si è evoluto. Infatti nella prima sessione vengono ampiamente ripresi i temi principali delle due relazione della mattinata e nello specifico si discute di alcuni concetti quali quello del prendersi cura in riferimento ai propri modelli e agli aspetti normativi che oggi regolano la salute mentale.
Sembra emergere l’importanza dell’equipe multidisciplinare, ma ci chiede a cosa fare riferimento nell’integrazione di diverse figure professionali. E’ importante rilevare, a tal fine, la richiesta che viene fuori nel gruppo riguardante il bisogno di orientamento e di accompagnamento rispetto al fatto che, probabilmente, l’emergenza quotidiana in cui si incorre, sicuramente non fa crescere.
Altri temi rilevanti sono quello di rete, di relazione e di protagonismo che sono stati maggiormente approfonditi ed elaborati nella seconda sessione di lavoro. Nella seconda parte dei lavori, infatti, vengono approfondite le tematiche prima sottolineate recuperando sia la dimensione temporale poiché ci si chiede che senso ha parlare di questi temi oggi e poi viene altresì affrontata la dimensione culturale proprio perché dalle diverse esperienze raccontate sembra esserci una disomogeneità degli interventi nelle diverse regioni per cui ci si chiede quanto piuttosto la specificità culturale e locale abbia importanza nel lavoro sulla salute mentale. Si discute del concetto di rete in relazione all’individuo e alle esperienze relazionali del soggetto e si rileva che l’oggetto d’intervento non è tanto l’individuo preso a se ma, maggiormente, le sue relazioni.
Inoltre viene affrontato il tema del protagonismo come partecipazione attiva che sembra non poter prescindere da quello di responsabilità; responsabilità individuale, dell’utente, dei familiari, degli operatori e dell’equipe curante e dei servizi in senso globale.
Diverse sono le esperienze di auto-mutuo-aiuto a livello nazionale, pensate spesso come risorse dei servizi di salute mentale in quanto strumento che permette di rispondere contemporaneamente al bisogno di più utenti e, allo stesso tempo, dei servizi.
Si è passati a guardare il ruolo dei servizi e alle risorse disponibili ed è emerso che la cooperzione sociale costruisce capitale sociale come risorsa fondamentale per la promozione della salute mentale soggettuale e di comunità.
Diverse sono le esperienze regionali portate dai partecipanti ma ciò che il gruppo riporta con energia riguarda il fatto che bisognerebbe investire nell’impresa sociale per cambiare l’approccio dei territori ai servizi di salute mentale.
Il gruppo continua interrogandosi sul concetto di salute mentale centrando l’attenzione sul fatto che probabilmente non si può scindere la salute dal contesto e dal territorio di riferimento e ciò che serve non è tanto un modello omogeneo, ma ripensare ai propri modelli per creare nuove proposte. La sfida sembra essere quella di far in modo che ci siano valori fondamentali che però non si intreccino su un solo livello ma interagiscano per promuovere diverse tipologie di rete e reti di reti.
Su questa scia di ulteriori approfondimenti anche il concetto di cura sembra evolvere da quello che comunemente viene riportato come il binomio tra terapeutico e terapeuticità nel senso che sembra importante l’andar incontro non tanto all’utente, ma alla persona in senso globale.
Viene accennato, inoltre, il tema dell’inserimento lavorativo e il rapporto con la salute mentale ed emerge l’esigenza, dalle varie esperienze, di rivisitarli in riferimento alle modalità gestionali e nello stesso tempo di regolamentarli.
In conclusione viene citata una metafora che sembra rappresentare bene il lavoro che questo gruppo ha fatto; un partecipante dice: "sono arrivato senza valigia ed ora vado via con una valigia". Tale immagine sembra rappresentare perfettamente la condivisione, il confronto e lo scambio avvenuto nel gruppo.
Report – quarto gruppo – a cura della dott.ssa Monica Dondoni
Il gruppo è stato condotto dal dottor Raffaele Barone ed era composto da 20 partecipanti.
Sono stati elaborati molti dei temi emersi durante le due relazioni di stamattina; in particolare si è partiti chiedendosi che cosa sia oggi una comunità e che senso abbia oggi continuare a parlarne; inoltre è stato messo in evidenza che le comunità oggi esistono e sono specifiche, hanno una specifica peculiarità antropologica e culturale che va a costituire quella tramatura in cui sono inseriti gli utenti con le loro problematiche.
Il modo di percepire la cultura locale sembra influenzato dalla specificità del contesto, come se esistesse una lente di lettura dei fenomeni che accadono in quel territorio data proprio dalle relazioni che, in quel territorio, si costituiscono, e le istituzioni sembrano porsi come dei referenti che devono essere in grado di mettersi in ascolto proprio delle specificità di quella comunità.
Le identità culturali e antropologiche sono delimitate da confini amministrativi, comunali, economici.
Si è passati poi ad affrontare il concetto di rete locale e all’interno di questo discorso il cittadino è stato concepito come l’istituzione da cui partire per costruire il processo di una comunità e per promuovere, nello specifico, la salute mentale, in questo il cittadino è chiamato a farsi carico e a partecipare attivamente nello sviluppo della propria comunità locale. È emersa la difficoltà di costruire nodi che interconnettano le realtà tra loro, quindi non soltanto quelle specifiche legate al disagio psichico relazionale, ma tutte quelle realtà che risulterebbero meno difficili se venissero promosse da questa operazione di fare nodi, cioè di costruire relazioni in modo tale da far girare l’esperienza in una rete di servizi. La difficoltà è insita soprattutto nell’operazione di netting cioè nell’attivare, innescare reti, connessioni, nodi appunto, nel promuovere quella trama relazionale che collega tra loro le diverse realtà a cui la persona partecipa; un qualsiasi progetto, diventa forte, solo se condiviso.
Il gruppo ha adottato una logica ecologica e complessa cioè ha guardato all’utente come persona -come già emerso nel report che mi ha preceduto- e ha considerato l’utente non solo come fruitore di un servizio ma come una persona che ha una centralità nello spazio di vita che è il suo contesto e la sua comunità locale. Nello sviluppo di comunità è stato rilevato come fondamentale il fatto di riconoscere all’utente la competenza e cioè la capacità di utilizzare le sue reti relazionali, come, alle reti relazionali, la capacità di mettersi in relazione con la diversità. Una immagine molto interessante emersa nel gruppo è stata quella di una massa di fili che rimandano al concetto di rete, per intendere una serie di esperienze che si ripiegano su se stesse anziché dipanare questa matassa costruendo dei nodi per allacciare nuove relazioni, nuove reti che mettano in circolo nuove esperienze.
Nel discorso sulla promozione della salute mentale il gruppo ha suggerito che probabilmente c’è bisogno di mettersi in una logica diversa per esempio uscire dall’individualità per mettersi in una logica di gruppalità e questo il gruppo l’ha fatto sia come movimento gruppale, sia rispetto al concetto di rete sottolineando la necessità di uscire da questa massa di fili per allacciare nuove relazioni per far circolare le proprie esperienze.
Ha rivestito un ruolo particolare il tema della responsabilità di tutti gli attori e non solo degli operatori e degli utenti, proprio perché la salute mentale è un patrimonio di tutti e non solo del campo psichiatrico. La promozione della salute mentale è stata proposta in una configurazione organizzativa nella quale cogliere l’occasione in cui sperimentare l’interdisciplinarietà.
È stato suggerito, inoltre, il tema della formazione sia dei nuovi operatori, che forse si troveranno a gestire nuove cronicità, sia quella del contesto e della comunità locale in cui i vari servizi si declinano proprio perché si parla della formazione come trasformazione non solo delle persone, ma anche della logica con cui affrontare il disagio psichico; si è fatto riferimento, inoltre, alla possibilità di adottare nuovi modi per gestire il disagio psichico e relazionale, perché la presa in carico come si intendeva una volta, forse, non esiste più ed è necessario, dunque, cambiare prospettiva. A fronte delle nuove emergenze è indispensabile lavorare molto sulla formazione al careing e cioè al prendersi cura più che al curare (curing).
Si è evidenziato che troppo spesso, nei servizi, l’operatore si trova a dover rispondere da solo e con poche risorse ad una moltitudine di richieste e di situazioni. E di come sia gli utenti che i familiari chiedano un’assunzione precisa di responsabilità da parte dei servizi nella presa in cura della persona; e in questa direzione spesso l’operatore si trova in difficoltà se deve costruire per e con la persona un intervento teso al cambiamento. I livelli di responsabilità sono differenti: non è possibile delegare ai familiari, agli utenti, alle associazioni o ai gruppi di auto-mutuo-aiuto pezzi di responsabilità di gestione del percorso di cura che competono ai Servizi. L’assunzione di responsabilità non può partire sempre e solo dal basso: dal basso si è già fatto moltissimo. Si è fatta la supplenza delle assenze. Non siamo all’anno zero: per far fronte ad una domanda complessa e multiforme nelle comunità locali sono state costruite esperienze straordinarie.
Il ruolo dei familiari è, comunque, sempre centrale, ma forse deve ancora essere promossa sul piano nazionale una cultura di formazione che sostenga le famiglie nell’interazione con la persona portatrice di un disagio psichico-relazionale, membro di quel nucleo familiare.
Infine, si è passati a riflettere sulla questione dell’inserimento sociale e lavorativo degli utenti riconoscendo e sottolineando con forza il diritto di cittadinanza e definendo co-partecipativo il processo che porta a comporre il progetto di vita della persona e il progetto di intervento in vista di un cambiamento che deve essere percepito come tale non solo dagli utenti, ma anche dalle proprie reti relazionali perché può capitare che, nonostante l’utente faccia un buon percorso, le reti relazionali, impreparate in questo, rimandino all’utente una immagine di sé che non lo aiuti nel consolidare questo cambiamento. A tal proposito si è sottolineata la differenza che intercorre tra verosimile e vero: una comunità protetta non è una casa, una borsa lavoro non è un lavoro, i momenti di aggregazione nella comunità protetta non sono i momenti di aggregazione che si vivono nella comunità locale. È stata espressa una critica alle vecchie forme di assistenza economica erogata agli utenti: in accordo con i piani di zona devono essere promossi programmi di inserimento-addestramento lavorativo che immetta le persone con disagio psichico e relazionale nel mondo lavorativo vero e proprio più che assisterle passivamente.
Per fare una buona psichiatria di comunità è necessario, dunque, lavorare soprattutto nel territorio, senza negare l’apporto fondamentale di ciò che accade all’interno dei Servizi (si pensi, ad esempio, all’ambulatorio). Ci deve essere continuità tra i servizi e la comunità locale: nella programmazione politica spesso mancano obiettivi di salute. I Servizi dovrebbero essere più aperti, il che non significa privare le persone della protezione necessaria a contenere il loro disagio. Di solito i Servizi si configurano come articolazioni dotate di canali forti, chiusi, rigidi. Se il paziente non accetta questo tipo di configurazione soccombe nei cosiddetti circuiti della normalità. Anche tra i Servizi manca la comunicazione. E se manca la comunicazione a quale comunità diamo vita? Spesso non c’è un’analisi della domanda o i Servizi non sanno intercettare la domanda da soli e finiscono per replicare se stessi. Le politiche sociali di welfare devono calarsi nella comunità locale considerando le persone al centro del welfare municipale. Gli stessi livelli di governance devono fare rete tra loro per poter funzionare adeguatamente a fronte della domanda presente nel territorio.
Questa sessione gruppale si è conclusa rimarcando che la salute mentale può essere promossa se allo stesso tempo si promuovere lo sviluppo della comunità locale e l’insieme di reti relazionali i soli in grado di costruire nodi e relazioni con i quali attivare strategie, risorse umane ed economiche di una contestualità locale.
Intervento Prof. Gualtiero Harrison
Buon pomeriggio.
Prima di rispondere alle stimolazioni emerse ascoltando i reporters sul vostro lavoro di gruppo, mi sento di fare due brevissime premesse:
– la prima è il senso di invidia che ho provato rispetto a voi che avete vissuto questa esperienza di gruppo, e penso che se i futuri relatori avessero la possibilità di osservare il gruppo, senza essere visti, diciamo dietro il famoso specchio -perché partecipare direttamente al gruppo forse potrebbe interferire e creare un effetto distraente e/o inibente-, ma se ci fosse la possibilità di osservare senza essere visti, il relatore potrebbe cogliere alcune dinamiche interattive e concettuali e, nella restituzione al lavoro di gruppo, potrebbe apportare aggiunte, approfondimenti e correzioni alla sua relazione iniziale in maniera più organica. Dico questo perché penso che potrebbero emergere delle produttività interazionali importanti rispetto alle cause, ai percorsi e alle procedure che intervengono nella promozione della salute mentale, che questi seminari stanno avviando.
– La seconda premessa entra un po’ più nel merito alla presentazione dei quattro gruppi, che a me arrivano attraverso i reporters, e che io dividerei in due. Allora, le prime due relazioni mi sembrano due classiche relazioni -fatte da reporters- dove si dice noi abbiamo fatto questa e quest’altra cosa e io vi dico in breve a quale risultato siamo arrivati. Mentre le ultime due relazioni a me sembrano diverse. Perché? Perché intanto erano fatte da due donne piuttosto che da due uomini e questa potrebbe essere già una prima spiegazione. Ma una seconda spiegazione la colgo nel fatto che le due reporter non si sono messe al livello o nella posizione degli stakeholders, cioè di attori che oltre a partecipare ascoltando hanno in corso una scommessa, hanno, diciamo, degli interessi, ma hanno osservato, cioè hanno fatto quello che io avrei voluto fare se avessi avuto la possibilità di stare dietro al famigerato specchio; e forse non è un caso che entrambe le due reporter donne abbiano insistito nell’uso titubante del termine "utente", diversamente dall’uso sicuro operato dai reporter delle prime due relazioni. Bene, queste sono due considerazioni, due premesse che vorrei tenere sullo sfondo.
Detto questo aggiungerei, sostenuto da Korzbinski in, La semantica generale (un testo suggerito con vigore da Gregory Bateson) che la mappa non è il territorio come la parola non è la cosa. Di questo me ne rendo perfettamente conto. "Utente" è una parola che ha diversi valori in quanto parola, e non necessariamente in quanto cosa; ma fino a quando non arriveremo a capire cosa intendiamo per "utente" non avremo la possibilità di dire cosa sia questo "utente" in maniera chiara e convincente; e forse non è un caso che la terza e la quarta relazione propongano non tanto il termine "utente" quanto il termine persona che è un termine più filosofico e in relazione alle nostre scienze umanistiche, diventa, in un certo senso, il "nodo" di questa famosa rete. Questo ragionamento mi sembra importante, perché l’utente rischia di diventare, non solo nel vostro lavoro, ma in assoluto, un termine fuorviante come è un termine terribilmente fuorviante quello di "immigrato" che comprende il lavoratore, il rifugiato politico e peggio che peggio l’immigrato extracomunitario che dovrebbe contenere, contemporaneamente, lo svizzero e l’americano di Vicenza, come l’africano e il sud-americano. Ora se io prendo in considerazione due donne coetanee, che si trovano entrambe a vivere a Milano e che fanno entrambe le badanti o le cameriere in famiglie borghesi di Milano, entrambe extracomunitarie, solamente che una è una giovane donna somala e l’altra è una giovane donna filippina. Entrambe sono extracomunitarie, ma entrambe sono diversissime l’una dall’altra, e più di quanto lo siano rispetto a noi; tra di loro c’è veramente un abisso di lontananza: la somala è islamica, forse è analfabeta, è infibulata; l’altra invece parla spagnolo come lingua coloniale, si intende quindi con la sua datrice di lavoro, è cattolica, non è infibulata, molto probabilmente ha una laurea laddove la sua datrice di lavoro non la possiede.
L’esempio di queste due donne lo porto come aneddoto a sostegno dell’approfondimento del concetto di persona in relazione al termine utente. Ditemi cos’hanno in comune l’una con l’altra, però nel momento in cui le chiamiamo immigrate inevitabilmente le uniformiamo. Ecco io penso che forse la parola "utente" dovrebbe essere rivista nell’uso che ne viene fatto abitualmente. Un altro esempio proviene dal movimento della Psichiatria Democratica. Come mi diceva Armando Bauleo, quando era un mio collaboratore all’Università di Padova, Psichiatria Democratica nasce a Buenos Aires con Pichon Riviere che in uno sciopero degli infermieri del manicomio di Buenos Aires immette nell’attività lavorativa proprio i malati mentali ricoverati nell’ospedale psichiatrico. Questi cosa sono? Diventano utenti, diventano operatori, diventano che cosa? Diventano quello che vorremmo che diventassero nella prospettiva di questo seminario?: utenti-operatori, oppure operatori-utenti o ancora qualcosa di diverso, di nuovo, come auguro che propongano questi seminari? Perché continuando a chiamarlo utente lo si radica ancora di più nella condizione in cui si trova e cioè di paziente. Se avessi avuto più tempo -già stamattina e anche ora, ma sono rispettoso del tempo che mi viene attribuito-, mi sarei preoccupato di fare una cosa che non ho fatto e che non farò: cioè vedere di arrivare ad una definizione minima di "uomo". Perché quando diciamo "uomo" diciamo tre cose diverse:
– "uomo" sono io, siete voi, è Bush, è Ronaldo, tutti quanti praticamente siamo uomini;
– poi "uomo" è anche chi è andato sulla Luna, chi ha scritto l’Interpretazione dei sogni, chi ha creato delle opere d’arte, tutte quante cose che io non ho mai fatto;
– e "uomo", infine, è un elemento biologico, assolutamente simile a qualunque altro essere della stessa specie ma, contemporaneamente, completamente diverso da qualunque altro essere; e tra l’essere totalmente uguale e totalmente diverso ci sta il fatto che "lui" appartiene ad una comunità. Mi dispiace non essere d’accordo con voi sul termine comunità, la comunità locale che io pavento è il condominio, abbiamo avuto notizie di che cosa succede dentro un condominio, è quanto di più locale e quanto di più comunità possiamo immaginare. Il termine "comunità" è un termine che rimanda all’appartenenza, e come diciamo noi antropologi si può appartenere per due motivi. Si può appartenere "a quella comunità" per natura, per discendenza, per sangue, oppure si appartiene per raggiungimento — processi che comunemente si esprimono con i termini ascription e/o achievement.
E mi sarebbe piaciuto, ve lo confido, capire di più come avete trattato il tema dell’appartenenza, del raggiungimento, dell’achievement, nei vostri lavori di gruppi.
Per ragioni di tempo mi devo fermare qui, ma vi ringrazio ancora una volta sia per l’invito, sia per l’ascolto.
Intervento Prof. Fabio Folgheraiter
In termini molto generali, reagendo alle riflessioni emerse nei gruppi, mi sembra che si possa dire che il paradigma sociale, o della partecipazione, che ho presentato questa mattina sia stato ben recepito dai gruppi di lavoro. Mi rendo conto anche di tutte le difficoltà e di tutte le forze che ostano alla presenza di figure "altre" (vissute a volte come intruse) nelle organizzazioni della psichiatria. Stamattina non abbiamo potuto discutere di questo, ma mi pare di capire che comunque il paradigma della partecipazione è emerso nei vostri lavori di gruppo, emerge sia come buone intenzioni, sia come resoconto di attività che vengono fatte. Mi pare che ci si sia ben avviato un processo che si sta mettendo in piedi in questa direzione, ci sono esperienze che sono venute fuori molto bene.
Per quanto riguarda i punti su cui voi avete riflettuto ne posso scegliere solo alcuni, ma solo per motivi di tempo, non perché quegli esclusi siano meno importanti. Il primo quesito è inerente alla tendenza all’istituzionalizzazione dell’associazionismo. Ho detto stamattina che è sempre stato forte nella società civile il movimento di famiflieri e utenti che tende a contrapporsi frontalmente ai servizi, dove i servizi, attestati in una cultura di welfare classico, legittimano una specie di monopolio del professionale in tutte le pratiche terapeutiche, venendo così ad alzare un muro contro muro, Da una parte vi sono le richieste e le rivendicazioni, mentre dall’altra vi sono le chiusure.
Negli ultimi tempi però c’è un nuovo movimento di apertura, e voi lo avete sottolineato nei gruppi, una disponibilità alla collaborazione; voi sottolineate, però, che anche qui si può correre un rischio: il rischio che l’apertura, la collaborazione esterna, porti ad un inglobamento della società civile nelle istituzioni, generando un processo di colonizzazione. È chiaro che questo è un problema, perché nel momento in cui la società civile è colonizzata o entra totalmente dentro le strutture fino al punto da perdere la propria identità, tutto il processo sussidiario muore.
Il principio di sussidiarietà è, prima ancora che un principio organizzativo del potere, un principio antropologico che esprime una concezione globale dell'uomo e della società, in virtù del quale la persona umana è intesa come essere relazionale.
Quello che io propongo è di ragionare in un’ottica di rete autentica, dove non è necessario "mangiarsi" il partner per dire che c’è relazione. Al contrario, una relazione è più vera, quanto più ciascuno dei partner, interagendo, diventa più simile all’altro, ma contemporaneamente anche più forte nelle proprie caratteristiche. Allora direi che una finalità importante, di un progetto che parta dai servizi pubblici, è quella di rendere la società civile (le famiglie, le associazioni, i gruppi, ecc.) più forti, più autonomi, più capaci di voce e più capaci di interlocuzione costruttiva, per evitare di tornare a fare ancora una volta muro contro muro.
Inoltre, noi distinguiamo tra costruire reti oppure costruire un sistema dove tutto è organizzato, è definito e dove tutte le parti diventano gerarchicamente incastrate l’una all’altra. In una rete invece ciascuna parte mantiene la propria autonomia. Si sviluppa una riflessività comune, ma ciascuno rimane nella propria identità.
Un altro punto che è stato toccato in varie esposizioni è quello della necessità di costruire la rete, di costruire la comunità, di connettere nodi; questo è un linguaggio che ci rappresenta bene quello che dovrebbe essere il compito delle istituzioni che vogliono porsi in quest’ottica di lavoro; però anche qui vedo alcuni rischi. Dovremmo riconoscere, infatti, che una rete non si costruisce, nessuno costruisce di fatto la rete, così come nessuno può costruire la comunità. Diciamo che la rete e le relazioni si catalizzano. Per arrivare a questo esito sono necessari input forti e impegnativi sul piano organizzativo, tuttavia sarà la responsabilità nei diversi nodi a far scattare processi di rete; non c’è un demiurgo che costruisce la rete, non c’è un progettista onnipotente. L’esperienza ci dice che le reti più sane, più significative emergono, vengono fuori nelle relazioni; cose che non ci si aspettava di poter fare o di poter conseguire avvengono ad un certo punto e, se ci si guarda indietro, si dice che forse è avvenuto un "miracolo", o che si sono realizzate delle combinazioni fortunate. Per attivare una rete efficace, ci vuole tanto lavoro, tanto impegno da parte dei servizi, ma anche una certa disponibilità a lasciare indeterminato il processo.
Detto questo, un altro aspetto su cui mi preme dire qualcosa è quello della formazione degli operatori: un gruppo ha detto che effettivamente gli operatori, in modo particolare della psichiatria pubblica, hanno un ruolo centrale nella catalizzazione dei processi reticolari e partecipativi. Si dice, però, allo stesso tempo, che tanti operatori non sono formati a far questo, ed è vero. Il fatto che la formazione nelle nostre Università, che la nostra cultura accademica sia ancora di tipo tradizionale, unidirezionale, è un problema. Nello stesso tempo però dobbiamo riconoscere che molte reti, molte esperienze si sono messe in moto nonostante questa carenza di formazione. Questo vuol dire che c’è un qualcosa che qualifica la professionalità e che rende possibile il diventare efficaci "agitatori del sociale" che va al di là della competenza tecnica. Credo che la capacità riflessiva, la capacità di "accompagnare le competenze tecniche col pensiero", di stazionare sempre con un pensiero sensato sopra i processi, così come la capacità umana di mettersi in relazione, sono tutte competenze che non si possono insegnare direttamente all’Università. Spesso gli operatori efficaci le assimilano in altri luoghi, per esempio nelle esperienze dirette; tanti operatori le possiedono già in partenza, e poi soltanto affinano mettendosi in gioco nei processi relazionali. La mia esperienza in vari campi del sociale mi dice che gli operatori che si aprono alla relazione, pur se sono anche sguarniti o poco provvisti di abilità specifiche ma disponibili a mettersi in gioco, per esempio partecipando ai gruppi, o interagendo nei movimenti sociali, imparino dal processo. Potremmo dire che gli utenti e i familiari, se noi li ascoltiamo da operatori aperti, ci insegnano tante e tante cose. Se guardiamo bene, alla fine di un processo relazionale partecipato, si impara sempre sia in merito ai disagi e alle difficoltà, sia in merito a come effettivamente interagire, sia a come essere davvero costruttivi nell’interazione terapeutica. Nell’ottica della formazione dei professionisti, faccio qui solo cenno a quelle esperienze soprattutto anglosassoni in cui gli utenti ed i familiari sono chiamati nei corsi accademici o nei seminari tecnici per formare gli operatori professionali: mi pare un esempio belo e profondo di partecipazione
Un altro tema è quello della responsabilità condivisa tra i soggetti (nodi) di una rete; è stato detto da molti di voi che tutti gli attori devono essere responsabili e questo è vero in una rete, che per definizione è una struttura in cui tutti hanno lo stesso livello di status, tutti hanno una parità sostanziale di diritti e di doveri. Noi dobbiamo anche dire però che gli operatori stipendiati, che hanno responsabilità istituzionali o professionali, hanno delle responsabilità speciali nell’osservazione e nell’accompagnamento dei processi relazionali. Di questo bisogna tenerne conto perchè dentro le reti le persone partecipano volontariamente e realmente se sentono che determinate responsabilità sono assunte in prima istanza da chi è deputato a ad assumersele; da un altro lato le persone partecipano se ritengono le esperienze costruttive, se determinate dinamiche le aiutano. In definitiva fare lavoro sociale vuol dire creare opportunità e strutture relazionali nelle quali le persone sentono che la fiducia reciproca è ben risposta. Se non c’è questa evidenza le persone possono anche andarsene, possono di per se fare ciò che vogliono o che credono meglio per loro; potrebbero non partecipare, non coinvolgersi, anche essere irresponsabili L’esperienza ci dice che le persone che sentono di perseguire i propri interessi psichici e funzionali si impegnano, sono responsabili, diventano cittadini coinvolti e responsabili. E questo succede anche in funzione di quanto supporto, spesso sotterraneo, i servizi professionali riescono ad assicurare, in virtù di una maggiore responsabilità ed intenzionalità formale.