Aggiornamenti in psicoterapia: una prospettiva critica ed empirica, 17 anni dopo.

 

Presentazione

Nel 1990, su commissione del Direttore sanitario della ULSS 19 del Medio Brenta (Cittadella, PD), presso la quale lavoravo già da dieci anni come primario responsabile dell’allora dipartimento di psichiatria, pubblicai un opuscolo di 72 pagine con lo stesso titolo di questa relazione.
Il riferimento alla contestualizzazione temporale serve oggi, nel 2007, per segnalare una coerenza tenace fra le due pur lontane posizioni, oltre che una sottile ironia rispetto al fatto che, nel complesso, malgrado tanti aggiornamenti la situazione non è quasi per nulla cambiata a livello istituzionale, da allora.
Non faremo però, in questa sede, un riscontro filologico della mia affermazione, ma solo un più rapido excursus di alcuni spunti critici ed empirici a mio avviso particolarmente necessari per la nostra riflessione.
Farò pertanto solo due riferimenti specifici all’opuscolo sopra citato, il secondo fra qualche paragrafo.
Il primo è un fatto storico: lo stesso benemerito Direttore sanitario a cui ho fatto cenno divenne successivamente Direttore generale della Azienda Ospedaliera di Padova, e mi permise di andare in pensione il primo di aprile del 2004 senza ritorsioni, malgrado la mia decisione fosse un evidente segno di sfiducia nei confronti della politica sanitaria della Regione Veneto, di cui il Collega è significativo esponente.

L’organizzazione giusta è indispensabile anche per la psicoterapia

Simone Vender nella sua prefazione al libro di Andrea Giannelli "Follia e psichiatria: crisi di una relazione" esorta il lettore a lasciare "da parte le questioni organizzative che sono spesso avvertite come la panacea di ogni malattia mentale e di ogni problema psichiatrico".
Ora, uno psichiatra con 150 o forse solo 100 pazienti in carico che volesse fare una psicoterapia anche solo con due suoi pazienti, per i quali il modello teorico-tecnico nel quale si sente più versato fosse magari perfino indicato, è evidentemente già dentro ad una organizzazione perfettamente modellata per negargli qualsiasi possibilità di realizzare questa sua strana idea.
Come già sosteneva Elliott Jaques, nel libro con lo stesso titolo di questo paragrafo, l’organizzazione è sempre e comunque indispensabile per i fini anche non dichiarati di una certa azienda, i cui profitti invece sono molto chiari come risultati attesi nella mente dei suoi manager e degli azionisti.
Negare l’importanza dell’organizzazione ai fini della realizzazione di un certo mandato significa non voler far vedere il mandato, e in psichiatria pubblica la "mission" continua a non essere abbastanza chiaramente definita e neppure, di conseguenza, coerentemente implementata con ogni mezzo: vedi nel caso nostro l’indicatore della quantità di psicoterapeuti disponibili in un certo DSM.
Non si può continuare a negare l’importanza del modello organizzativo ai fini dell’orientamento funzionale ed operativo del servizio anche in forza dell’impatto sempre più significativo e destabilizzante del burn-out.
La psichiatria, prima fra tutte le organizzazioni socio-sanitarie, e alla pari delle organizzazioni scolastiche e di quelle religiose, è una organizzazione di cura, una care-giving organization che si realizza caratteristicamente ed ineludibilmente nell’incontro faccia a faccia fra due o più persone, con ruoli diversi.
Quando una organizzazione di cura che, copiando male ed anzi del tutto impropriamente le aziende che devono produrre prodotti radicalmente differenti da quelli dello sviluppo della salute (oppure, rispettivamente, con riferimento alle altre summenzionate caregiving organizations, dell’educazione e della religione), esprime alti livelli di burnout – sia per il tramite di singoli operatori sia per il tramite di singoli gruppi di lavoro — allora essa è una organizzazione malfunzionante, e il burnout del singolo o del gruppo di lavoro dovrebbe essere accolto seriamente come un sintomo non ricaricabile su qualsiasi psicopatologia individuale o gruppale, ma esattamente come un indicatore prezioso ed inequivocabile che l’organizzazione sta male.
E sempre più spesso operatori e gruppi di lavoro s’offrono come segnali di disumanizzazione del servizio, mostrano una demoralizzazione che è indicatore preciso della de-moralizzazione, della perdita di senso morale del servizio rispetto al suo scopo istituzionale.
L’ultimo punto da sviluppare riguarda l’evidenza empirica reale, non quella documentabile in qualche pubblicazione scientifica con un fattore d’impatto più o meno soddisfacente per la carriera accademica, ma quella che è già sotto gli occhi di tutti coloro che li tengano aperti.
L’importante ricerca Progres-acuti ha evidenziato recentemente come il numero di posti-letto per acuti su 10.000 abitanti in Italia sia da considerare tra i più bassi dei paesi industrializzati: gli Autori sono però piuttosto tiepidi nell’evidenziare come questo sia — invece, a mio avviso — un grande risultato diretto della organizzazione dipartimentale per la salute mentale, specialmente dopo la pur lentissima implementazione della normativa sull’integrazione socio-sanitaria, la scarsamente famosa 328/2000 che è in realtà la Legge (apparentemente tanto attesa ma ancora diffusamente misconosciuta) che porta a maturo compimento l’indubbiamente parziale e limitata indicazione della "180".
Il fatto è che il vero Dipartimento di salute mentale, quello sinceramente integrato con il Terzo Settore nella comunità locale e pienamente distrettualizzato, viene ad alta voce e incessantemente interpellato dal Privato sociale, dalle organizzazioni di volontariato, dai medici di medicina generale, perfino dai tirocinanti delle numerosissime Scuole di psicoterapia, perché contribuisca responsabilmente a restituire senso alle storie personali dei pazienti, perché in una sola parola garantisca appropriate psicoterapie, visto che gli psicofarmaci tante volte li prescrivono benissimo i medici di base, gli inserimenti lavorativi migliori li fanno la Provincia e le Cooperative sociali, e le "sistemazioni" abitative le garantiscono le innumerevoli comunità gestite da tanti psicologi travestiti forzatamente da educatori. 
Il fatto è che vivere in piccole comunità ben condotte da educatori o da psicologi e ben curate nella quotidianità da personale di assistenza attento, in un contesto territoriale abbastanza ospitale, ha curiosamente (per chi non sia sufficientemente versato nelle teorie gruppoanalitiche) effetti terapeutici nei confronti delle persone che ci erano state "sistemate".
In una attentissima valutazione, realizzata andando per gruppi da me con la Collega Laura Dalla Cia nelle numerose piccole comunità attivate a Treviso dal Consorzio "Restituire", consorzio sollecitato creativamente dall’Azienda USL per consentire finalmente la chiusura del locale ex-ospedale psichiatrico Sant’Artemio, il dato più consistente è la diffusa richiesta implicita ed esplicita, sia da parte dei pazienti, spesso molto anziani e spessissimo cronicizzati, sia da parte degli operatori e dei responsabili, di opportunità mirate ed appropriate di psicoterapia per tutti questi pazienti.
Sia con gli anziani sia con i cronici, lo voglio ricordare qui sia pure di passaggio, risultano più utili le terapie di gruppo, specialmente se centrate sui fattori terapeutici cosiddetti esistenziali.
In sintesi, mentre il modello organizzativo ospedaliero richiede e predispone interventi sempre più parcellizzati, inclusi perfino quelli psicoterapeutici, purchè ben manualizzati secondo le indicazioni della Scuola di pensiero più influente in quella certa realtà di potere culturale, il modello organizzativo dipartimentale maturo (180 più 328) richiede sempre più operazioni attente e rispettose di recupero e di costruzione di senso personale e comunitario, cioè in una sola parolapsicoterapie.

Ma quali psicoterapeuti?

La mia tesi è semplicissima: se la psichiatria pubblica non si pone come un servizio basilarmente psicoterapeutico, nel senso che andremo chiarendo, allora non realizza il mandato proprio di un servizio pubblico e spreca i soldi dei contribuenti ai quali garantisce solo, miseramente, la fidelizzazione aziendale di una modesta fetta di consumatori denominati "cronici"; e in tal caso, naturalmente, si espone al rischio oggi impellente di essere chiamata a "gestire" anche gli utenti degli ospedali psichiatrici giudiziari, oppure di scomparire dato che, se non lo fa (se non garantisce alla collettività tutto il controllo sociale che è chiaro che sa fare molto bene), non si sa poi bene a che cosa altro serve per davvero.
Una psichiatria pubblica che si rispetti (che rispetti se stessa) deve offrire molti più psicoterapeuti qualificati e competenti in psicoterapie a tempo limitato e in terapia di gruppo di quanti non ne lasci stentare obtorto collo con pochi invii privati, meglio se autoreferenziali, nel suo territorio di riferimento, come accade in molte grandi e piccole città, oltre che in tutte le restanti periferie.
La mia idea di psicoterapia prevede che la laurea di base sia del tutto ininfluente rispetto alla reale competenza psicoterapeutica, e che dunque fra medici e psicologhe siano da scegliere solo gli specialisti psicoterapeuti più utili per quel certo DSM lì, con quel certo Piano di Zona concordato e sviluppato da quel territorio lì, in quella realtà epidemiologica lì.
Anche se la sfumatura sembra superflua, aggiungerei che invece non mi sembra ininfluente l’identità di genere, dopo alcuni miei vecchi studi sulla civiltà dellagilania, e il riconoscimento addirittura a livello manageriale (mi riferisco qui ad una relazione in quel contesto di Marisa Galbussera intitolata "leadership al femminile") che "il pensiero femminile vero non si isola mai nelle torri d’avorio del pensiero cosiddetto puro, ma lo àncora sempre alla concretezza dei corpi e dei legami con gli altri".
Insomma, da questo punto di vista la risposta è "nel servizio pubblico ci vogliono abbastanza donne psicoterapeute per garantire una psicoterapeuticità del servizio".
A Padova, dove la Regione Veneto continua a lasciare che l’Azienda ospedaliera controlli l’Azienda ULSS anche in psichiatria, con una situazione istituzionale decisamente schizofrenica visto che la mission da realizzare nel territorio nazionale risulta essere ancora quella della psichiatria di comunità mentre l’azienda ospedaliera persegue intrepidamente la sua mission universitaria, il Primo Servizio psichiatrico del Dipartimento "integrato" di salute mentale non è però ancora impazzito.
Anna Palena, psicologa, insieme con Pio Peruzzi, psichiatra, hanno sviluppato – nell’attesa paziente di un adeguamento coerente dell’organizzazione aziendale locale e delle risorse di personale – un progetto di collaborazione con alcune scuole di psicoterapia per fronteggiare almeno il significativo incremento delle richieste di aiuto di persone con disturbi mentali comuni.
Una specie di "consorzio" del servizio pubblico con scuole di psicoterapia localmente selezionate (analogo del resto a quanto già efficacemente realizzato fra Pubblico e Privato Sociale per la cosiddetta "riabilitazione" dei malati più cronicizzati), come quello proposto dal Servizio Padovano può consentire di uscire anche dall’offensivo regime di sfruttamento mal-formativo dei tirocinanti psicoterapeuti (quasi sempre psicologi) attraverso una appropriata regolamentazione, garante sia delle linee di indirizzo del servizio, sia della qualità delle psicoterapie, sia soprattutto del diritto dei cittadini di ricevere tutti i trattamenti da loro esigibili nel contesto pubblico e ritenuti utili e non commerciali dal gruppo di lavoro nella specifica realtà epidemiologica.
Ad esempio, nel progetto in esame, gli invii avverranno, da parte degli operatori del servizio, secondo le abituali modalità e senza modificare regole e standard del servizio; ogni invio verrà monitorato attraverso regolari incontri e — in questa particolare prospettiva tecnica — anche attraverso uno strumento di valutazione (sviluppato a Palermo dal gruppo di Girolamo Lo Verso) che si basa sulla autovalutazione del cambiamento da parte del paziente; le Scuole a loro volta garantiranno spazi operativi e supervisioni cliniche agli specializzandi, che saranno a loro volta in diretto effettivo collegamento sui casi con i tutor istituzionali.

Perché "psicoterapia nel DSM" ?

E’ ben noto (cfr Pontalti e Fasolo) che spesso proprio le persone e le lobby (cosiddette) "colte" concepiscono modelli antropologici assai stilizzati, per dirla blandamente, dell’essere umano, ad esempio quando, nella loro sostanziale ignoranza (secondo il mio modello antropologico) della direzione attuale delle neuroscienze, pensano che basti davvero trattare solo con gli psicofarmaci qualsiasi malattia mentale, oppure quando spingono con forza per la trasformazione di tante diagnosi di schizofrenia in altrettante diagnosi di una più scientifica — a loro avviso — diagnosi di disturbo bipolare, oppure ancora quando ripropongono con le versioni più sofisticate del pur tristemente glorioso elettroshock.
La gente, nel frattempo, certamente consuma indifferentemente qualsiasi cosa venga immessa nel ricco mercato delle terapie psichiatriche, ma di mano in mano che matura, individualmente e collettivamente, una più discreta e rispettivamente condivisa esperienza su di sé si orienta decisamente a chiedere più "psicoterapie".
Le associazioni di ex-pazienti inglesi, come ho riassunto in un recente lavoro su "l’impasto" delle diverse lobby che fanno nel loro complesso il servizio della psichiatria, chiedono ad esempio le stesse cose che una ricerca molto recente ha rilevato essere particolarmente importanti per un buon numero di pazienti in carico presso il buon DSM di Ferrara.
La Fondazione Emanuela Zancan di Padova, in collaborazione attiva con l’Azienda USL di Ferrara e in particolare con il suo DSM, ha misurato la soddisfazione nei servizi di salute mentale di quella realtà socio-sanitaria, ed ha rilevato alla fine del 2006 quanto segue.
(Al lavoro che qui accenno, cooordinato e curato nei complessi dettagli tecnici da Alessandro Castegnaro, hanno partecipato GianMaria Gioga e Mariangela Zanella, oltre al sottoscritto come esperto del settore).
Considerando l’insieme dei servizi analizzati (tutti quelli tipici di un normale DSM, ndr) vi sono alcune dimensioni della qualità percepita che vengono sempre fortemente correlate dai pazienti (a differenza degli operatori) con la percezione dell’esito delle cure: queste dimensioni sono in ogni caso le stesse che in tutti i servizi vengono considerate dagli utenti anche come le tre più importanti in termini di soddisfazione: si tratta della capacità di rassicurazione, dell’umanizzazione e della comunicazione.
Rassicurazione, umanizzazione, comunicazione che teniamo buone come base sostanziale per una non generica ma positivamente non-specifica definizione della psicoterapia che ci sembra avere senso per la psichiatria pubblica.
Mi riferisco ad un lavoro recente di De Figuereido sulla demoralizzazione, un aggiornamento e rilancio del vecchio e grande libro di Jerome Frank sulla guarigione, lavoro nel quale si conferma come anche la ricerca più recente continui a porre in evidenza il fatto ben noto che ogni psicoterapia di qualsiasi approccio teorico condivida quattro caratteristiche che la rendono efficace: l’alleanza terapeutica (la coesione, nel gruppo), un setting o contesto per guarire, uno schema o mitologia concettuale che offra una spiegazione plausibile dei sintomi del paziente, e una procedura o rituale che richiede l’attiva partecipazione del curante e del paziente, purchè entrambi fiduciosi nella sua potenzialità guaritiva.
Una prima risposta alla domanda di questo paragrafo, insomma, è "psicoterapia, come ricerca e costruzione di senso, perché prima o poi la chiedono i cittadini che sono interessati in prima persona nella cura".
"Prima o poi", aggiungo, nel senso che come tutti i trattamenti anche per le psicoterapie ci sono momenti in cui dovrebbero essere tempestivamente realizzate, il prima possibile e anzi prima di qualsiasi altro intervento, e periodi invece in cui dovrebbero piuttosto essere attentamente preparate.
"Prima o poi" anche nel senso – che è stato ben chiarito dalla ormai solida ricerca (si veda Fava e Coll.) sul trattamento sequenziale della depressione — che una buona terapia farmacologica ad un certo punto deve passare il testimone ad una buona psicoterapia a tempo limitato, e che è questa sequenza di interventi quella che garantisce ai pazienti i risultati migliori, assai meglio della illusoria e co-interessata "continuità di cura" aziendal-farmacologica.
"Prima o poi", infine, nel senso che alla fine di ogni presa in carico la valutazione stessa dovrà essere fatta in termini valoriali, ricostruita come narrazione e depositata come storia locale e biografica: una psicoterapia va fatta almeno alla fine delle cure.
(Altri aspetti importanti della dimensione temporale verranno sviluppati in un paragrafo a sè stante).
Una seconda risposta relativamente al "perché" delle psicoterapie nel servizio pubblico è per la mia storia professionale talmente conflittuale che la esporrò in termini apertamente sarcastici.
Le psicoterapie, specialmente quelle individuali a tempo limitato e quelle di gruppo, a parità di efficacia, nel senso stretto del termine, rispetto ai trattamenti farmacologici riducono discretamente i costi per tutti: per i pazienti e per i loro familiari, in termini di convivenza, per le aziende pubbliche e private in termini di riduzione delle assenze per malattia, per l’organizzazione sanitaria in termini di riduzione dei costi per i ricoveri ospedalieri e per l’utilizzo di attrezzature diagnostiche, eccetera: tutte cose ben documentate e replicate in contesti diversi, a partire dagli antichi Anni Cinquanta.
Dunque si dovrebbero istituzionalmente far fare molte più psicoterapie di buona qualità ad un ben maggiore numero di psicoterapeuti di buon mestiere, perché fanno risparmiare differenti "agenzie", a partire dai pazienti interessati, su una lunga serie documentabile di costi evidentemente superflui, e inoltre migliorando la qualità della vita e la qualità delle cure.
Invece queste evidenze non hanno avuto, nei lunghi diciassette anni trascorsi dalla mia pubblicazione del 1990, nessun consistente effetto istituzionale visibile nella quotidianità dei fatti della ordinaria pratica psichiatrica, anzi ci sono sempre meno psicologi nei servizi, gli psichiatri fanno forse qualche cosa solo privatamente o altrimenti con grandissima fatica personale, la formazione psicoterapeutica degli operatori sembra troppo spesso solo una gradita occasione di svago.
In sintesi, la risposta dovrebbe dunque essere "psicoterapia perché necessariamente sì, aziendalmente parlando": ma invece nei fatti è sempre più spesso "psicoterapia no, perché non interessa alle altre aziende che ci influenzano di più perché ci interessano in termini più coinvolgenti di come non sappia o possa fare l’azienda ASL".
L’opposizione particolarmente sofisticata (nel senso di adulterata, senso etimologicamente prossimo alle goffe scuse dell’adultero colto in flagrante) che ho sentito recentemente è veramente degna del peggiore fraintendimento del senso naturalmente sano di "azienda": "immettere tecniche e competenze psicoterapeutiche in un DSM costa troppo".
Sulla base delle evidenze scientifiche sopra ricordate, e smettendo dunque di continuare, sotto sotto, a rimuoverle sistematicamente, una vera azienda sanitaria locale avrebbe già fortemente investito sulla trasformazione del suo DSM in senso radicalmente psicoterapeutico, ovvero esattamente "psichiatrico", fortemente sollecitata in tale senso specialmente dai suoi tecnici veramente "psichiatrici", facendo in tale modo come qualsiasi azienda veramente produttiva fa del tutto normalmente: prima investe, poi guadagna e fa guadagnare ai suoi azionisti, che nel caso delle aziende sanitarie sono costituiti dalla popolazione locale, rappresentata dai Comuni.. 
Alla fine dei conti, invece, in un sistema sociale in cui trionfa apertamente il consumismo, risparmiare o peggio far risparmiare la popolazione locale, facendole crescere il suo Capitale Sociale per davvero, risulta di fatto una parola d’ordine inaccettabile, incomprensibile, inconcepibile.
Non resterà alla fine, se continua così, che disporsi alla prevedibile necessità di far crescere comunque ulteriormente il sistema con le correzioni sistemiche del caso, rispondendo logicamente a queste esasperate lamentele con il massimo sviluppo delle psicoterapie delle dipendenze, meglio se con i servizi appropriati all’uopo, che saranno pertanto servizi specializzati nello svezzamento dalla dipendenza da servizi.

A chi servono le "psicoterapie nel DSM"?

Non mi è personalmente ancora chiaro se la Società Italiana di Psichiatria ha capito finalmente davvero che un DSM non deve e non può curare solo gli psicotici, anche se è chiaro che nella stragrande maggioranza dei discorsi e degli scritti dei suoi affiliati risulta tragicamente che gli psichiatri si concepiscono ancora, oppure si sentono costretti dalla realtà, o peggio si propongono strategicamente solo, come i "medici dei matti".
L’alternativa altrettanto balorda è il pullulare di ambulatori specialistici, di norma non fondati neppure su indicazioni epidemiologiche locali, come se i DSM fossero sedi decentrate delle Cattedre di psichiatria (idealmente) più vicine.
Per fare bene le cose giuste dovremmo semplicemente garantire ai cittadini in tutti i casi l’intervento minimo sufficiente per aiutarli a muoversi con maggior libertà personale nella loro vita.
E’ pur vero che sempre più spesso le richieste di intervento prefigurano arbitrariamente il Centro di salute mentale come un supermercato di prestazioni specialistiche, se non direttamente come una Città-fiera, postmoderna incarnazione del transpersonale manicomiale che permea la gente di questo mondo globalizzato anche più pervasivamente di quanto comunque già non influenzi, senza alcuna coscienza di malattia, tante organizzazioni professionali psichiatriche.
Ma, a semplice titolo di esempio, molto spesso potrebbe già bastare sganciarsi effettivamente dalla mentalità diagnostica così grossolanamente dominante, e provare a seguire i suggerimenti delicati di Galeazzi e Curci che ripropongono, per ridurne i rischi irritativi e fuorvianti sul rapporto utenti-operatori, la riscoperta della ormai storica formulazione dinamica, già ampiamente praticabile fin dai tempi dei miei Aggiornamenti del 1990, e oggi nuovamente aggiornata dal benemerito Gabbard.
E anzi, a duplice titolo di esempio, converrà ricordare, oltre alla formulazione dinamica come base tecnica per un recupero istituzionale della centralità della psicoterapia nei servizi psichiatrici, l’altro grande programma, specifico degli Anni Ottanta e con loro culturalmente scomparso, della terapeutica differenziale, empiricamente ben fondata ben prima dell’avvento della psichiatria affondata sulle evidenze.
La terapeutica differenziale ragionava fra l’altro sulla utilità, per le situazioni di crisi, di una tempestiva consulenza psichiatrica in Pronto Soccorso, fatta in una stanzetta tranquilla, con tutto quel poco di tempo che ci vuole, in fondo, per ri-avviare una costruzione di senso in tante storie di tentato suicidio, come ci ha insegnato Pavan a Padova, prima che fosse quasi impossibile recuperare quella famosa "stanzetta tranquilla" nel nostro pur grande ospedale.
Anche se in senso stretto riguarderebbe il capitolo delle teorie psichiatriche, anticipo il discorso sulla psichiatria dello sviluppo, perché ci può essere più utile qui.
La psichiatria dello sviluppo tenta di sostenere l’attenzione e le intenzioni curative del personale e dell’organizzazione caregiving sul fatto affatto biologico che ogni essere umano, anche i pazienti più squinternati e addirittura i più grandi disabili, è sempre impegnato nelle vicende della propria crescita personale, tentando di attraversare prima o poi tutte le normali tappe evolutive, fino alla morte.
Dopo attenti e annosi studi sulla condizione e sui compiti evolutivi dell’età adulta, stimolati dal formale affidamento al DSM della responsabilità della salute mentale di questa specifica età della vita, ma anche dall’imbarazzo per il modo singolare in cui la mia generazione esibisce la sua adultità nel campo politico e gestionale, dopo tutti i casini piantati e gli ideali dichiarati nel lontano e mitico Sessantotto, alla fine ho reperito una chiara configurazione teorico-clinica di come dovrebbe essere un adulto maturo, di come si può arrivare ad esserlo, e di come si dovrebbe essere aiutati a diventarlo; pongo perciò con particolare curiosità a questo punto il problema: la psichiatria dell’adulto dovrebbe soltanto rendere meno nevrotici o meno psicotici i pazienti, o non dovrebbe piuttosto, esaudito l’obbligo di ridurne la sofferenza senza stroncarne la capacità di sentire i propri sentimenti, aiutarli a diventare più maturi e quindi più capaci, oltre che di amare lavorare e giocare, in particolare di "custodire il significato" dell’essere umano per la comunità locale e per le generazioni future?
E’ in questo senso che ho proposto un nuovo e forse più appropriato significato per l’acronimo "C.S.M.", quello di Centro per le Separazioni Maturative.
Se però non vengono fatte diffusamente le debite psicoterapie per i pazienti semplicemente perché (cioè, se e quando) servono personalmente a loro, come sembrerebbe ovvio, ritengo che sia diabolicamente naturale la conseguente crescita dei gruppi istituzionali per i genitori… confidando naturalmente nell’aumento dell’attesa di vita della popolazione italiana. 
Ormai quasi tutte le istituzioni di cura non psichiatriche utilizzano regolarmente questo dispositivo (si veda al riguardo il libro curato da Fiorella Pezzoli) che è comunque essenziale anche per la psichiatria pubblica, dato che la presenza costante dei genitori, resa attiva da un dispositivo gruppale attentamente realizzato, garantisce di rimbalzo forti effetti di sostegno alle funzioni istituzionali dello stesso servizio psichiatrico pubblico.
In linea di principio, vorrei qui sottolineare che, nella prospettiva delle reti sociali e della gruppoanalisi ben intese, la psichiatria diventa "servizio per la salute mentale" ogni qual volta accetta o sollecita una connessione operativa con qualche altra realtà territoriale, ma che resta un buon "servizio di salute mentale" solo a patto che mantenga nel suo "core" (nel doppio senso inglese e napoletano, sia chiaro) la sua specificità di psichiatria.
Dunque è molto bene che vengano fatte buone terapie di gruppo per i genitori, perché fanno molto bene alla professionalità degli operatori.
Ma sostengo che le psicoterapie, se non per i pazienti o almeno per i familiari, devono essere fatte soprattutto per gli operatori.
Vediamo perché.
Uno dei risultati più inattesi delle varie e numerose ricerche che nell’arco di più di vent’anni ho fatto sulle terapie di gruppo, sulle reti sociali, e specificamente sulla carta di rete (si veda Fasolo, Ambrosiano e Cordioli) è l’aumento consistente della comprensione dei pazienti, dopo solo sei mesi di terapia di gruppo, sul senso dei comportamenti dei curanti nelle occasioni di crisi e di urgenza.
Si tratta ovviamente di un interessante aspetto collegato direttamente con la capacità oggi ben nota di alcune psicoterapie, specie se basate sulla teoria dell’attaccamento e se fondate sull’utilizzo consapevole dei sistemi di neuroni-specchio (cfr nota 1) di aumentare la capacità dei pazienti di attribuire e di cogliere le intenzioni personali (emozioni, desideri, credenze, intenzioni relazionali eccetera) dell’interlocutore, familiare o paziente o curante che sia, di risuonare empaticamente con le persone nella corretta percezione del contesto-che-dà-senso alla relazione in atto, e altre cose specifiche tutte del genere "aumento della mentalizzazione e riduzione della somatizzazione".
Sia con certe psicoterapie individuali, sia con certe terapie di gruppo centrate sul processo gruppale, almeno i pazienti con disturbo di personalità borderline, i pazienti deliranti, e i pazienti che somatizzano hanno miglioramenti prevedibili e consistenti.
Ma in un contesto istituzionale in cui queste psicoterapie siano istituzionalmente ben presenti, nei discorsi, nelle esperienze, nelle supervisioni, nei risultati aziendalmente attesi, non sembra troppo vana la mia certezza – fondata sull’esperienza di "vecchio primario" che la migliore formazione si configura direttamente per tutti gli operatori direttamente nell’esperienza quotidiana e consistente del servizio — che lentamente anche gli operatori diventeranno capaci di attribuire intenzioni e sentimenti e desideri e insomma una completa soggettualità agli stessi pazienti, altrimenti facilmente intesi fin troppo spesso, in troppi servizi, a causa di fondativi apprendimenti accademici o di sostanziosi aggiornamenti aziendali, come cronici, handicappati su base eredocostituzionale, "ragazzi schizzati", indiscriminatamente incapaci di motivazioni personali e mossi altresì soltanto dalle cieche spinte della patologia.
In questo modo è prevedibile, in particolare, una discreta riduzione del burn-out oggi così diffuso nei servizi (peggio) aziendalizzati, dato che riconoscendo che i pazienti sono esseri umani come noi si recupera il senso fondativo di questo difficile lavoro anche per noi.
Lavorare, non solo per i brevi periodi collegati con qualche ricerca scientifica ma in termini istituzionalmente consistenti, in contesti operativi che praticano le psicoterapie per motivi non occasionali ma culturali ed anzi aziendali, farebbe insomma veramente bene a tanti psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali, direttori sanitari, direttori generali, eccetera.

Sui tempi e sugli approcci delle psicoterapie 

Pochi appunti su questo tema dovrebbero essere drasticamente sufficienti.
Le psicoterapie dovrebbero essere in psichiatria pubblica a tempo limitato, ma non mai aprioristicamente brevi.
Anche se è un fatto quasi inconcepibile, si deve riconoscere che talora sembra che ci dimentichiamo la nostra comune ma antica appartenenza alla professione sanitaria: noi psichiatrici siamo davvero gli unici sanitari al mondo ad accettare prescrizioni aziendali o peggio linee guida professionali (?) di brevità, quando qualsiasi chirurgo non discute nemmeno il tempo che gli ci vuole per fare quella certa operazione.
E’ il fattore "limitazione temporale", anche descrivibile come un professionale "atteggiamento temporale a termine", quello che risulta sia teoricamente (si vedano Migone e, rispettivamente, MacKenzie) sia nella pratica quello che serve effettivamente per fare psicoterapie utili ai pazienti ed economiche per l’azienda.
Le supervisioni analitiche competenti sulla relazione psicotica, quella che si pratica diffusamente in certe configurazioni mentali organizzate come particolari famiglie o inefficaci sistemi di cura, sono di norma efficaci ad attivare scansioni temporali maturative, discontinuità terapeutiche, dubbi riflessivi, insomma a far concepire una limitazione temporale utile a modificare la relazione psicotica.
Un cattivo uso di mal assimilate nozioni aziendalistiche ha comportato l’abuso diffuso del termine "progetto", con il completo scotoma del fatto tecnico che il progetto è una visione complessiva sul senso della cura di una certa persona, che si realizza però solo tramite successivi e ben disegnati programmi attuativi, che devono essere di volta in volta fattibili da qualche professionista o da qualche retina di lavoro ben individuate, sostenibili da tutti e capaci "per progetto" di favorire esplicitamente la "convalescenza" del paziente, cioè lo sviluppo di ulteriori capacità relazionali (riassumibili come miglior funzionamento mentale), e non di continuare a disabilitarlo progressivamente.
Nella prospettiva psicoterapeutica della psichiatria, "continuità di cura" o peggio "di presa in carico" allude gravemente ad una intenzione affatto diversa da quella della terapia, che invece si realizza in una giusta discontinuità di cura, cioè attraverso episodi di cura che richiedono di norma gli intervalli adeguati di convalescenza fra una terapia e la successiva, perfino nei casi di allegata cronicità, laddove per la psichiatria dello sviluppo la cronicità semplicemente non esiste.
L’ultimo appunto sul tempo riguarda il "tempo libero".
Libero di fare ciò che vuole, libero dalle cure, libero di praticare quel "vuoto" che dà senso all’esistenza ed alla terapia stessa, ritengo nella prospettiva che sto tratteggiando che dovrebbe essere un tempo personale e non personalizzato, del tutto libero da qualsiasi attività di svago e di ricreazione organizzate per servizio: se proprio vogliamo occuparglielo ai pazienti, anche questo tempo, sarebbe da negoziare con loro la possibilità di utilizzarlo eventualmente solo per farci una psicoterapia, individuale o meglio di gruppo, ma non altro.
La paradossalità della proposta dovrebbe aiutarmi a chiarire il senso di "psicoterapia" che voglio mettere in discussione fra di noi.
Ma qualche breve (!) nota sugli "approcci" potrebbe essere di ulteriore vantaggio a questo scopo.
In un clima istituzionale e in una cultura di servizio psicoterapeuticamente (e non diagnosticamente o neurologicamente) radicati ed orientati probabilmente sarebbe meglio avere a disposizione la maggior quantità di approcci differenti, da poter scegliere oculatamente di volta in volta, come si fa naturalmente sempre per i trattamenti farmacologici. 
Ma finchè gli psichiatri credono che le cose psicologiche siano di esclusiva pertinenza degli psicologi o al massimo degli educatori, e che quelle sociali siano di competenza solo degli assistenti sociali, e riducono i loro pazienti a strani supporti di terapie neurologiche continuative, da sistemare appena possibile con fragili inserimenti abitativo-lavorativi, restiamo in contesti da città-fiera e si dovrà arrivare allora dappertutto ad integrare le offerte di prestazione perfino con i fiori di Bach, da un lato, e con le gite in barca a vela dall’altro.
Tutto serve, in medicina come in psichiatria, ma fa effetti differenti a seconda della precisa cornice di riferimento entro la quale acquista significato.
Nella prospettiva dell’antica medicina, quando ero in servizio nel Pubblico tenevo efficiente l’attrezzatura per l’elettroshock che, inteso come estrema tecnica rianimatoria, una volta in 21 anni di responsabilità primariale ci è anche servito: ma tenersi a disposizione una scelta di opzioni psicoterapeutiche non è una impropria operazione da supermercato solo se in tutto il servizio e nella comunità locale viene intenzionalmente, chiaramente e programmaticamente implementata e condivisa qualche teoria psichiatrica sufficientemente ampia, ed appropriata al compito, da essere capace di prevedere l’utilizzo anche di eventuali tecnologie "spicciole", sempre però rigorosamente entro una forte ed unitaria cornice di senso specificamente "psichiatrico".

Quali teorie per dare senso alla psicoterapia nel DSM? 

La psichiatria dello sviluppo, cui abbiamo già accennato, è comunque una teoria sviluppata a partire dalla psicoanalisi, che resta a sua volta una teoria della cura centrata sullo sviluppo della persona.
Ai fini della realizzazione del compito ovvero della mission della psichiatria pubblica dell’adulto, però, ritengo che la psicoanalisi sia insufficiente e che debba essere articolata sistematicamente con la gruppoanalisi.
Per dirla metaforicamente, se per la navigazione nell’alto mare del lavoro psichiatrico è certo indispensabile la bussola della psicoanalisi (per riprendere un bel testo recente di Renato De Polo, presidente della COIRAG), è chiaro che la bussola non è sufficiente ma che si deve utilizzare sistematicamente anche ilsestante della gruppoanalisi.
Un’altra metafora possibile per esprimere la mia tesi è che, come in una ciliegia, il nocciolo sarebbe la psicoanalisi, mentre tutto il resto è la gruppoanalisi: senza il primo, la stessa ciliegia non ci può essere, ma si mangia la polpa, non il nocciolo.
Non c’è dubbio che la gruppoanalisi sia uno sviluppo naturale della stessa psicoanalisi, ma essa è ormai maturata al punto che il suo contributo specifico alla psichiatria pubblica è necessariamente complementare a quello psicoanalitico.
Mentre la psicoanalisi si riferisce basicamente al gruppo familiare, la gruppoanalisi sposta l’accento decisamente sui gruppi di pari estranei, che nella biologia umana sono altrettanto importanti del gruppo familiare nella costituzione della persona, come ormai una importante trattatistica sul lavoro di comunità riconosce con forza, e sia pure a differenza di altre posizioni anche significative come quella di Tansella e Thornicroft, che di fatto si limitano ad astrarre come teoria un modello organizzativo certamente, di per sé, valido.
Mentre la psicoanalisi utilizza al massimo il piccolo gruppo terapeutico, la gruppoanalisi utilizza anche il gruppo mediano, che è però definito da configurazioni dinamiche diverse, centrato come è sulla comunità locale.
Mentre i valori maturabili, e poi sempre da attraversare, in un gruppo familiare sono quelli riassumibili nella morale, con l’importanza dell’autorità e del dovere, lungo una linea relazionale di tipo verticale, i valori maturabili in un gruppo terapeutico gruppoanaliticamente inteso e trattato sono quelli riassumibili nell’etica(che, vorrei qui ricordarlo, per Levinas viene prima della stessa religione), con l’importanza della lealtà verso il gruppo e del rispetto per gli accordi presi, ma anche per le discrepanze irrisolte, fra noi pari ed estranei, e che restiamo comunque sempre tali.
Mentre la psicoanalisi privilegia l’attenzione al funzionamento psichico, la gruppoanalisi lo include nel più articolato concetto di funzionamento mentale, esattamente come in epoca nazista i tedeschi che salvavano gli ebrei perseguitati li includevano nella, per loro, rischiosissima categoria degli esseri umani come loro, e anche loro tedeschi ancorché ebrei.
La mente non è solo la psiche, che a sua volta non è solo il cervello, che a sua volta è necessario ma non sufficiente per la psiche e per la mente, come sostiene in filosofia morale e nelle scienze cognitive il principio di sopravvenienza
Esattamente come la psichiatria istituzionale guarisce, diventando sempre più se stessa, quando viene interpellata dalle realtà territoriali, Privato sociale, Terzo Settore e perfino, anni fa, da una inizialmente corretta idea di aziendalizzazione; esattamente come il DSM guarisce, diventando sempre più se stesso, quando pratica l’integrazione socio-sanitaria invece di restare isolato nello splendido accademismo in cui indulgono troppe sue lobby; allo stesso modo il paziente guarisce, diventando sempre più se stesso, solo quando può integrare le sue esperienze familiari, magari opportunamente corrette da successive esperienze di attaccamento più sicuro, con esperienze di gruppi non familiari, nei quali può dire la sua, nei quali confronta attivamente pensieri differenti dai suoi nella fiducia che siano altrettanto interessanti, e contribuisce alla crescita di una nuova cultura e di una nuova comunità locale.
In termini ancora più astratti, una teoria particolarmente sintona con le attese che ufficialmente la Società civile italiana, attraverso la normativa ufficiale, coltiva nei confronti della psichiatria pubblica è la teoria delle reti sociali.
Mentre rinvio al mio lavoro recente con Ivan Ambrosiano ed Anna Cordioli su questo tema, voglio qui sottolineare solamente che tanti discorsi sul lavoro di rete, sull’"essere in rete" eccetera, risultano spesso chiacchiere alla moda poco fondate sulle conoscenze invece assolutamente necessarie in merito.
Le reti devono essere differenti a seconda dello scopo per cui vengono costruite; devono avere bordi ben definiti e con una buona tenuta; le reti tecniche devono avere buchi adeguati in modo tale da tenere certe cose e da lasciarne andare via tante altre; i legami fra i nodi individuali devono essere costruiti che la consapevolezza del tipo di pressione che devono sopportare; ci sono nodi individuali che devono essere particolarmente densi e forti (si chiamano hub, nel gergo specialistico, sarebbero i dirigenti di secondo livello a un certo livello, gli psicoterapeuti ad un altro livello, eccetera); i legami deboli sono almeno altrettanto importanti di quelli forti ai fini della resilienza della rete; le reti sociali sono un buon modello per il funzionamento mentale delle persone; le reti non servono affatto a qualsiasi sostegno sociale se non tengono grazie ad un attivo coinvolgimento fra di loro dei nodi che le costituiscono; eccetera.
Tutti questi spunti hanno precisi riferimenti operativi.
La terapia di gruppo, intesa come rete sociale intermedia fra quelle primarie e quelle secondarie o di servizio, ha evidenziato – in numerose ricerche del mio gruppo di lavoro, attualmente confermate dal gruppo indipendente di Giorgio Magnani a Carpi – alcuni precisi effetti pur limitati nella loro puntuale utilità per lo specifico della psichiatria pubblica: migliora alcuni aspetti significativi delle reti primarie (riducendole, in particolare, quando sono rese eccessivamente presenti da qualche disturbo emozionale comune, ma estendendole nei casi di psicosi), allarga le reti secondarie, e soprattutto mobilizza decisamente le caratteristiche complessive dei legami sociali riconosciuti dai pazienti nella personale stesura della loro carta di rete.
Se il mandato della psichiatria pubblica fosse veramente quello di reinserire il paziente psichiatrico nel suo contesto comunitario, con una miglior competenza mentale/sociale di coinvolgimento proattivo nelle sue reti sociali, fra le quali includiamo anche la sua eventualmente ancora presente famiglia, allora la teoria delle reti sociali sarebbe uno strumento concettuale prezioso per rendere ragione della specifica e mirata utilità della terapia di gruppo per i pazienti "propri" della psichiatria pubblica.
Mi limito poi ad un solo altro esempio applicativo, quello di come devono essere, per la teoria delle reti sociali e per la gruppoanalisi , tutti i responsabili di quelle reti sociali specializzate (come tutte le reti che servano per un servizio) che si chiamano "équipe".
Se si riconosce la necessità per ogni essere umano di appartenere nel tempo a numerose e ben diversificate reti sociali flessibili ma resistenti, allora lo stesso burnout in psichiatria risulta non poter più essere scaricato come l’effetto di una fragilità individuale, prevedibile in circostanze lavorative frustranti come quella psichiatrica in cui non si riesce a vedere quasi nessun paziente guarito, ma piuttosto come l’effetto o ancora meglio la segnalazione da parte di qualche suo attendibile e sensibile componente che il gruppo di lavoro non funziona come dovrebbe.
Le logiche conseguenze aziendali della applicazione di questa teoria comporterebbero l’impegno da parte della Direzione strategica nel garantire che ogni gruppo di lavoro (équipe), perché sia utile e produttivo, venga doverosamente condotto da un professionista adulto abbastanza maturo, capace – naturalmente o per obbligatoria formazione – di curare tecnicamente il suo gruppo (coesione, clima, verifiche ed aggiustamenti di rotta, sostegno e coinvolgimento, qui-e-ora, coerenza progettuale, tenuta dei margini nel contatto con altre "reti", eccetera) molto più di quanto non sappia essere ossequioso o ciecamente compiacente nei confronti delle indicazioni "politiche" di chi l’ha messo in quel posto.
La mia stima per il Direttore sanitario dei tempi del primo Aggiornamento è rimasta poi sempre, ad esempio, sostanzialmente invariata a seguito della sua pur faticosa capacità, anche negli anni più recenti, di lasciare che il suo dirigente di secondo livello andasse al bisogno contro le sue stesse indicazioni "politiche" ogni volta che fosse necessario per difendere l’opera del gruppo di lavoro ed il senso del lavoro psichiatrico.
Ad un ulteriore livello ancora più astratto, più che una precisa teoria "scientifica" conta basicamente, infine, l’atteggiamento culturale che pervade una certa realtà locale quale si incarna in un DSM più o meno coerentemente integrato in una rete di servizi più o meno orientati da un Piano di Zona più o meno autenticamente costruito insieme dalle più o meno differenti forze sociali e politiche coinvolgibili o coinvolte.
Si potrebbe chiamarlo, con Corrado Pontalti, il modello antropologico fondativo della psichiatria, ovvero più semplicemente "quale è l’idea del paziente che abbiamo e che cerchiamo di curare, o che lasciamo che ci venga imposta o venduta?": quale è la persona del paziente psichiatrico?
La nostra Costituzione, base normativa ed ispiratrice del senso di esistere dei nostri Servizi pubblici anche in un’epoca di globalizzazione spinta come questa in cui ci troviamo a riflettere per lavorare meglio, definisce inequivocabilmente la persona come persona sociale, situandola sempre nel suo contesto reale, in quanto espressivo di tutte le sue diverse modalità di esserci con gli altri.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel 1948, aveva avviato il tentativo di reagire alla linea biopolitica che, allora con il nazismo, schiacciava l’essere umano sul suo nudo supporto corporeo: ma oggi la globalizzazione prosegue forse inconsapevolmente l’opera nazista con la assai più vasta impresa tanatopolitica, ben servita allo scopo anche da quegli psichiatri che riducono le persone ai loro geni, o al loro cervello, o alla loro psicopatologia, o ad altro ancora purchè (arbitrariamente e violentemente, dico io) "privato" del maggior numero dei suoi aspetti vitali.
Nel suo ultimo libro, "Terza persona", Roberto Esposito rintraccia oggi nella storia del concetto di persona una contraddizione profonda, osservando che la definizione di persona nasce nel mondo romano e cristiano, ma nasce in negativo a causa della differenza presupposta fra il pater familias e quegli altri esseri che non sono persone o che lo sono solo parzialmente e temporaneamente: allora ad esempio erano, fra gli altri, gli schiavi, oggi ad esempio sono naturalmente gli handicappati e i malati psichiatrici, specialmente quando vengono trattati da utenti, da clienti, da consumatori fidelizzati alla meno peggio, da potenziali votanti per la destra o per la sinistra.
La persona è complessa, dunque, già nella sua stessa fondazione storico-istituzionale, e gli psichiatrici possono curarla solo rispettandola in questa sua piena ed evolutiva complessità, e non hanno nessun diritto, e non hanno anzi nessun mandato, di semplificarla in qualsiasi modo per quanto arbitrariamente "scientifico", neppure per ridursi il carico comprensibilmente pesante delle inevitabili complicazioni.

 
Conclusioni

Nella psichiatria dello sviluppo, è un dato certo, particolarmente ben consolidato dalle ricerche di David Goldberg per i disturbi emotivi comuni, l’importanza della presenza attiva di reti sociali numerose e resilienti (famiglia inclusa) come fattore protettivo nei confronti del rischio di insorgenze psicopatologiche nell’adulto a seguito di eventi stressanti, traumatici, o semplicemente vitali come i passaggi della vita ordinaria; a sua volta, è ben accertato nella estesa letteratura che fa capo in particolare a George Vaillant che l’adulto sano caratteristicamente tiene con cura le sue reti sociali e se ne inventa sempre di nuove.
La ricerca "prescrittiva" sulle psicoterapie ha confermato anche la correlazione positiva fra l’efficacia di pur differenti tecniche psicoterapeutiche e la presenza nel mondo vitale del paziente di reti sociali significative: qualsiasi psicoterapia sarà tanto più utile quanto più il paziente stesso è coinvolto in reti sociali di appartenenza non rigida e però di riferimento solido.
Una psichiatria pubblica che cerchi non solo di rendere asintomatici i pazienti ma anche di farli maturare da adulti sani, e che con équipe ben funzionanti e gruppi terapeutici a tempo limitato appropriati promuova la disponibilità di accesso anche a psicoterapie tempestive, non ha bisogno di coprire i bisogni del territorio inventandosi una responsabilità, che istituzionalmente non ha affatto, nel promuovere i gruppi di auto-mutuo-aiuto: pazienti ben curati psichiatricamente nel senso fin qui esposto, cioè specificamente, se proprio hanno bisogno di un gruppo AMA se lo fanno da soli, fra di loro; il proprio tempo libero lo consumano come preferiscono loro; hanno maturato produttivamente (si veda il capitolo di Fasolo in Psichiatria senza rete) il senso antropologico del lavoro; sanno giocare e gli piace amare nel registro della reciprocità e della intimità, di cui hanno fatto piena esperienza anche in psicoterapia; quando i loro genitori invecchiano, possono occuparsene insieme con fratelli ed estranei; dicono liberamente il loro parere alzandosi in piedi, ed ascoltano sempre attentamente il parere di tutti gli altri, nelle pubbliche assemblee, come erano già abituati nei loro gruppi terapeutici, in reparto, nelle strutture intermedie, e nelle comunità terapeutiche e al CSM: insomma, stanno anche loro guarendo come tutti, e come ciascuno di noi.

Nota 1 

Nel caso specifico delle terapie di gruppo, la scoperta di questi sistemi di neuroni sinestesici, di cui quelli "specchio" sono solo una sottocategoria, consente addirittura una fondazione neuroscientifica di alcuni dei fattori terapeutici già noti, quelli dell’area del rispecchiamento come l’universalità, l’apprendimento vicario, l’apprendimento interpersonale, e giustifica ulteriormente la mia vecchia asserzione che la terapia di gruppo sia, se condotta secondo le linee operative centrate sul "qui-e-ora", una vera e propria terapia biologica, nel senso specifico che il gruppo umano è, se trattato consapevolmente in tale direzione, una vera e propria "sostanza farmacologicamente attiva" in psichiatria.

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Calensario seminari progetto salute mentale