di Stefano Pini, Adolfo Bandettini di Poggio
Il termine "insight" è entrato nel lessico psichiatrico per definire il grado di consapevolezza di malattia, anche se non vi è tuttora una completa univocità sulla sua definizione.
La correlazione tra assenza di consapevolezza di malattia, sia totale che parziale (il cosiddetto "poor insight" o "unawarness of illness"), e la non compliance al trattamento è stata ampiamente studiata in questi decenni considerando il problema dal punto di vista sia psicopatologico, sia clinico, sia neurologico, con risultati spesso contraddittori.
Solo gli studi più recenti, a partire dagli anni ottanta con McEvoy e collaboratori, hanno cercato di quantificare in qualche modo l’insight al fine di valutarlo come parametro predittivo dello sviluppo e del decorso di malattia (McEvoy et al., 1989a,b,c).
Storicamente questo termine fa la prima comparsa in ambito psichiatrico nel 1836, nel "Lehrbuch der Psichiatrie" di Krafft-Ebing, come "einsichtslos" proprio per indicare la incapacità del paziente di riconoscere la sua condizione delirante.
Nel 1913 Jaspers propose una distinzione tra consapevolezza di malattia e insight propriamente detto che presupponeva, invece, una corretta interpretazione sia del tipo che della gravità dei propri sintomi: "The term ‘awareness of illness’ is applied to the patient’s attitude when he expresses a feeling of being ill and changed, but there is no extension of this awareness to all his symptoms nor to the illness as a whole. It does not involve any objectively correct estimate of the severity of the illness nor any objectively correct judgement of its particular type. Only when this is present… can we speak of insight". E Kraepelin, negli anni immediatamente successivi, usò questo termine per spiegare l’impossibilità di alcuni pazienti schizofrenici a fornire spiegazioni valide sui loro comportamenti: "i pazienti non hanno una reale comprensione della gravità della malattia; come rappresentazione della incomprensibilità e morbosità della loro condotta, i pazienti danno una risposta esplicativa la quale non dice niente….".
Per quanto concerne la visione psicoanalitica del fenomeno, Freud parlò di "sapere ed al tempo stesso non sapere" e Richfield (1954) identificò due tipi di insight, uno intellettuale ad uno emozionale. Per insight intellettuale si fa riferimento alle capacità personali di identificare importanti tratti personologici, conflitti, eventi vitali stressanti che potrebbero giocare un ruolo determinante per lo sviluppo di una malattia psichiatrica o comunque di sintomi connessi a questa. L’insight emozionale riguarda, invece, la più profonda capacità di raggiungere una comprensione effettiva delle motivazioni e dei conflitti inconsci, una comprensione, quindi, diretta nel contesto di una terapia psicodinamica. Il punto di vista psicoanalitico, tuttavia, è fuorviante se applicato alla psichiatria clinica poiché pone l’accento su elementi, quali l’introspezione o la comprensione di conflitti e di motivazioni inconsce, che sono lontani dal concetto di insight nei soggetti psicotici e quindi, in certa misura, non pertinenti: d’altra parte lo psicotico non è certamente il fuoco principale dell’interesse della psicoanalisi come lo è, invece, per la psichiatria.
Nel 1934, Aubrey Lewis osservando quanto poco era stato scritto in relazione all’insight in quanto problema psichiatrico, cercò, in un articolo pubblicato sul British Journal of Medical Psychology, di inquadrare il problema e di darne una definizione. Ed in poche pagine riuscì a dare una visione moderna dell’insight, che definì come "il corretto atteggiamento nei confronti dei cambiamenti patologici in se stesso e, inoltre, il rendersi conto che la malattia è mentale", anticipandone in qualche modo i complessi rapporti con la compliance ("Insight is concerned primarily with the awareness of change, and secondarily as to whether it is illness o demoniacal possession or insanity or religious conversion."), mettendone in risalto le analogie con la anosognosia e la patologia del lobo frontale e sottolineandone la particolare correlazione con la diagnosi di schizofrenia. Non meno importante, infine, è il suo rilievo della modularità dell’insight, in contrapposizione all’allora più diffusa convinzione che si trattasse di un fenomeno del tipo tutto-o-nulla.
Dopo Aubrey Lewis, il problema dell’insight cadde praticamente nell’oblio fino a che l’avvento degli psicofarmaci non lo ha riportato alla ribalta nell’ipotesi di una correlazione tra l’assenza di consapevolezza di malattia, sia totale che parziale (il cosiddetto "poor insight" o "unawarness of illness"), e la non compliance ai trattamenti, per cui, negli ultimi 2-3 decenni, si è assistito alla ripresa dell’interesse per questo argomento che è stato indagato da diversi punti di vista (psicopatologico, clinico, neurologico) con risultati spesso non univoci.
Il primo tentativo di misurazione dell’insight risale al 1973 allorché, nell’ambito del Pilot Study of Schizophrenia coordinato dalla World Health Organization, da un lato fu proposta una definizione operativa di insight come "capacità del paziente di riconoscere con consapevolezza di essere affetto da una malattia emotiva" (e la mancanza di insight risultò presente nel 97% dei soggetti), dall’altro, si cercò di codificare le risposte fornite dai pazienti in forma libera entro una serie di categorie sistematizzate al fine di poter dare una valutazione statistica dei valori di insight ottenuti dallo studio del campione di soggetti schizofrenici.
Questa visione categoriale, che prevedeva solo la possibilità di codificare in maniera dicotomica la presenza o assenza di consapevolezza, è stata successivamente modificata ampliando la graduazione mediante l’introduzione, ai due poli opposti, dei concetti di sealing over e di integration che indicano, il primo, la condizione di negazione della malattia o almeno della sua gravità, tipico di alcuni pazienti psicotici in fase di remissione e, il secondo, la particolare attenzione e l’interesse nel valutare l’esperienza psicotica ed il tentativo da parte del paziente di comprenderla e collocarla in una corretta prospettiva (McGlashan, 1976a).
La prima intervista strutturata mirante ad analizzare l’insight in maniera più articolata fu proposta da McEvoy nel 1989 ed altre, come vedremo, sono state messe a punto successivamente.
Questo rinnovato interesse nei confronti dell’insight non ha trovato, comunque, un generale consenso e, anzi, alcuni Autori hanno espresso nei suoi confronti perplessità e critiche, quando non addirittura ostilità, come ben espresso da espressioni quali "né illuminante né utile … essenzialmente arrogante", "semplicistico, dannoso, confuso".
LA NATURA DELL’INSIGHT
La mancanza o la riduzione della coscienza di malattia è ampiamente presente nei disturbi psicotici: abbiamo appena visto che nell’ambito del Pilot Study of Schizophrenia del WHO era presente nel 97% dei soggetti e studi successivi hanno confermato sostanzialmente questi dati. Il problema dell’insight non è comunque limitato ai disturbi psicotici in senso stretto, ma ha rilevanza clinica anche in altre condizioni psichiatriche quali i disturbi bipolari e schizoaffettivi, la depressione, il disturbo ossessivo compulsivo, i disturbi di personalità ed in altre patologie psichiche. Nonostante questa diffusione la natura del fenomeno è tutt’altro che chiara: due sono i modelli interpretativi principali che sono stati proposti: quello psicologico-psichiatrico e quello neuropsicologico.
Il modello psicologico-psichiatrico
Da un punto di vista storico, il primo approccio all’insight è stato quello di tipo psicologico, che interpretava la sua assenza o riduzione come un meccanismo di difesa o come una strategia adattiva di "coping". In particolare Mayer-Gross, negli anni Venti, studiando i pazienti con schizofrenia, distingueva quattro tipi di strategie difensive, la negazione del futuro, la creazione di una nuova vita dopo la malattia, la negazione dell’esperienza psicotica e l’inserimento dell’esperienza psicotica nell’insieme delle esperienze della vita. Queste categorie erano viste come un continuum di difese capaci di aiutare il paziente ad adattarsi alle sue esperienze abnormi. In due di queste categorie si potevano osservare tipi differenti di deficit di autocoscienza; nella categoria della "negazione del futuro", i pazienti negavano la possibilità di eventi futuri positivi anche quando tali eventi erano altamente probabili; allo stesso modo, nella categoria della "negazione dell’esperienza psicotica" ai pazienti mancava tipicamente la consapevolezza nei confronti dei segni e dei sintomi propri della malattia. In sostanza, Mayer-Gross interpretava i diversi ambiti per i quali gli schizofrenici presentavano deficit di coscienza come documentazione di categorie distinte di difesa psicologica. Egli sosteneva anche che il grado di negazione si modificava nel corso della guarigione.
In una review della depressione postpsicotica, McGlashan e Carpenter (1976b) hanno rilevato che, secondo la maggior parte degli Autori, i pazienti con insight, che riconoscevano ed accettavano cioè come tale la loro esperienza psicotica, sviluppavano con maggior frequenza la depressione, rispetto a coloro che, per mancanza di insight, negavano la malattia:
punto di vista, questo, che conferma il concetto che, nella schizofrenia, la negazione ha una funzione difensiva.
I risultati di molti altri studi sono stati interpretati in maniera analoga, cioè che i diversi livelli di insight sono in rapporto o a meccanismi psicologici di difesa o a strategie di coping.
Anche lo scarso insight che frequentemente è associato ad umore espanso/grandiosità è stato interpretato come un meccanismo di difesa.
Sackeim e Wegner (1986), confrontando un campione di studenti di college depressi con uno di non depressi, osservarono che i primi descrivevano con maggiore esattezza la propria condizione. In uno studio successivo che comprendeva, oltre a depressi ed a controlli sani, anche un gruppo di schizofrenici, emerse che i soggetti schizofrenici ed i controlli sani, ma non i depressi, utilizzavano "self-serving biases" (cioè una sorta di autogiustificazione aprioristica) nella valutazione dei loro comportamenti e delle conseguenze a questi legate. Secondo gli Autori, questo meccanismo cognitivo rappresenterebbe la modalità normale di funzionamento. Il fatto che gli schizofrenici utilizzino il medesimo meccanismo cognitivo dei controlli, indicherebbe che la loro mancanza di consapevolezza potrebbe essere considerata come il risultato della disinibizione del normale meccanismo, piuttosto che un deficit dello stato cognitivo; in altri termini la mancanza di consapevolezza, riscontrata nei pazienti schizofrenici, può essere vista come il risultato di un ricorso eccessivo del sistema di adattamento cognitivo. Gli stessi Autori hanno ipotizzato, inoltre, che la negazione è adattativa ed essenziale per la condizione affettiva di eutimia (Sackeim e Wagner, 1986). Tale visione sembra essere in un certo senso supportata da uno studio di Van Putten relativo al rapporto tra insight e compliance nei confronti del trattamento nel quale venne riscontrata una correlazione inversa tra insight e grandiosità in base alla quale fu ipotizzato che coloro che rifiutavano la terapia "preferivano" una condizione di grandiosità psicotica, al più "normale" stato determinato dalla terapia (Van Putten et al., 1976).
Il modello neuropsicologico
Babinski, nel 1914, definì con il termine di anosognosia, cioè di mancanza di coscienza di malattia, un fenomeno di frequente osservazione nei pazienti con lesioni dell’emisfero cerebrale destro i quali, pur presentando un’emiplegia sinistra, negano tale deficit manifestando mancanza di conoscenza, di consapevolezza o di cognizione del loro disturbo. Babinski introdusse, per questi pazienti, anche il concetto di anosodiaforia in riferimento al comportamento di questi soggetti che, nonostante l’emiplegia, appaiono particolarmente placidi ed indifferenti.
Nel 1934 Aubrey Lewis aveva messo in evidenza, come abbiamo accennato, l’esistenza di analogie tra la mancanza di insight dello psicotico con l’anosognosia e con la patologia del lobo frontale. In effetti, l’anosognosia che si osserva nell’ambito dei disturbi neurologici ha marcate somiglianze con la perdita dell’insight che si osserva nei pazienti psicotici:
così come l’emiplegico continua a rifiutare la propria emiplegia e non recede di fronte all’evidenza della realtà mostrandosi, anzi, indifferente, anche lo schizofrenico mostra un’incrollabile certezza circa le proprie convinzioni deliranti, che non mette in discussione neppure di fronte alla lapalissiana evidenza della realtà. L’anosognosia può fornire, perciò, un modello per la comprensione della perdita di insight degli psicotici.
Alcune teorie neuropsicologiche (Goldberg e Barr, 1991) mettono in rapporto la carenza di insight con un errore del sistema di monitoraggio, un sistema costituito da tre componenti:
- la rappresentazione interna di risposte volute;
- un sistema di feedback sulla risposta;
- un meccanismo di confronto tra la risposta voluta ed il feedback sulla risposta eseguita.
L’alterazione di una o più di queste componenti, interrompendo il circuito iniziazioneesecuzioneconfronto, e dunque il sistema di monitoraggio, sarebbe alla base della condizione di mancata consapevolezza di malattia che si riscontra, ad esempio, nell’anosognosia, ovvero, inconsapevolezza di deficit, mancanza di insight e non percezione di malattia.
Nelle teorie più recenti è stato ipotizzato che le alterazioni della consapevolezza siano il risultato di una disgregazione dello schema corporeo (body scheme o body image) localizzato nel lobo parietale destro. Si suppone che il body scheme sia un sistema rappresentativo che include aspetti sia intenzionali che sensoriali di consapevolezza del corpo. Bisiach e Berti (1987) ne forniscono un modello comprensivo consistente in un trasduttore sensoriale che produce una rete rappresentativa dell’output desiderato. Alcuni disturbi caratterizzati da "rifiuto" o diniego possono derivare da un’incapacità di realizzare le rappresentazioni richieste, mentre altre condizioni, come i disturbi comportamentali anosognosici, possono essere il risultato di un’utilizzazione impropria di queste rappresentazioni.
È stata avanzata l’ipotesi che le lesioni dei sistemi cerebrali superiori pre-frontali determinino un danno ai meccanismi di consapevolezza e che siano responsabili delle sindromi frontali caratterizzate, non solo da gravi deficit cognitivi, ma anche da una profonda mancanza di consapevolezza e di preoccupazione per questi (Goldberg e Barr, 1991).
Uno studio neuropsicologico di Cuesta e Peralta (1994), non solo non ha riscontrato alcuna associazione tra ridotti livelli di insight ed anormalità neuropsicologiche, ma ha rilevato invece, mediante test valutanti compiti visivi immediati e ritardati e di memoria verbale, una relazione tra scarsa consapevolezza di malattia e migliorata funzionalità, suggerendo con questo che la mancanza di insight potrebbe non essere correlata ad anormalità cognitive della schizofrenia, ma potrebbe essere essa stessa un sintomo primario, "bleuleriano", della schizofrenia.
I risultati dell’osservazione e dello studio di pazienti con disfunzioni cerebrali acquisite concordemente documentano che questi soggetti possono presentare un vasto range di disturbi riguardanti la consapevolezza e l’insight. Alcuni pazienti possono, ad esempio, insistentemente negare gravi ed evidenti segni o sintomi neurologici, altri, invece, possono sviluppare errate convinzioni nei confronti dell’ambiente e delle persone che li circondano.
Molte teorie sono state elaborate per spiegare questi disturbi della consapevolezza risultanti da lesioni cerebrali.
Secondo alcune di queste teorie l’anosognosia sarebbe il risultato di un danneggiamento intellettivo più globale, di un declino delle funzioni cognitive: questo appare poco probabile dato che spesso i soggetti con anosognosia non presentano compromissioni cognitive e che, alcuni soggetti possono essere anosognosici per un deficit ma avere piena coscienza di altri deficit.
Secondo altre teorie le funzioni specifiche di insight risulterebbero alterate in conseguenza di lesioni focali cerebrali. In realtà, la maggior parte della letteratura neurologica classica ha evidenziato una correlazione tra le sindromi della consapevolezza e i disturbi della corteccia infero-temporale destra ed i suoi collegamenti con il talamo e con i lobi frontali, e molti Autori hanno spiegato queste sindromi come il risultato di un disturbo della rappresentazione interna dello schema corporeo. Altri hanno ipotizzato che tali sindromi siano il risultato di una disconnessione delle aree deputate alla consapevolezza del corpo, localizzate nell’emisfero destro, dalle aree del linguaggio, localizzate invece nell’emisfero sinistro. In altre teorie si parla di alterazioni localizzate nella corteccia parietale e del loro ruolo nell’integrazione degli stimoli esterocettivi ed interocettivi. Una concezione teoretica del ruolo del lobo frontale nella consapevolezza ipotizza un modello gerarchico di funzionamento del lobo frontale nel quale il meccanismo di autoconsapevolezza è considerato il livello più alto di attività. Attraverso questo meccanismo il soggetto monitorizza il funzionamento complessivo del cervello ed interagisce con l’ambiente.
Goldberg e Barr (1991) hanno ipotizzato che il danneggiamento della funzione di controllo esecutivo della corteccia pre-frontale può deteriorare in modo significativo l’apparato di autoconsapevolezza incidendo sulle manifestazioni cognitive sia nell’auto-rilevazione di errori, sia nella comprensione delle conseguenze sulla propria vita. Una delle caratteristiche comuni dei disturbi della consapevolezza e delle sindromi deliranti è quella di derivare entrambe da un disturbo nelle funzioni sensoriali primarie o nelle funzioni cognitive più elevate, le quali sono associate alle funzioni della corteccia posteriore destra e ai suoi relativi collegamenti con i sistemi frontali più anteriori.
È stato rilevato che semplici alterazioni dell’insight che si osservano in un’emiplegia o in un danno emisensoriale, possono essere il risultato di un danno al lobo parietale destro, mentre la negazione di queste alterazioni può essere il risultato di condizioni che comportano un danneggiamento ai collegamenti tra il lobo parietale e le proiezioni talamiche.
La parte anteriore del giro cingolato sembra essere coinvolta nella funzione del mantenimento della distinzione tra immagine e percezione: i soggetti che hanno subìto una cingolectomia anteriore riportano infatti la generazione spontanea di immagini con contenuti percettivi (Johnson, 1991). L'aumentata attività di questa regione durante lo svolgimento di compiti che richiedono risposte agli stimoli esterni, ma non durante lo svolgimento dei compiti che richiedono il monitoraggio di eventi mentali interni, suggerisce che il giro cingolato anteriore possa determinare l’amplificazione degli eventi mentali generati esternamente i quali, attraverso i processi cognitivi coinvolti nel monitoraggio della realtà, riescono ad identificare la loro origine come esterna al soggetto. Il processo atto a posizionare l’informazione nel suo giusto contesto è mediato dalle regioni prefrontali. Pertanto, sulla base di ciò che conosciamo circa le funzioni della corteccia prefrontale, essa gioca un ruolo critico nel processo di discernimento fra eventi mentali generati internamente e quelli generati esternamente. Le disfunzioni della corteccia prefrontale associate a deficit della memoria, dei processi contestuali, o del sistema supervisore dell’attenzione che esamina l'origine degli eventi mentali, possono dare luogo ad agnosia autonoetica ("deficit nell’abilità di identificare eventi mentali auto-generati") nelle psicosi. Per esempio, un atto motorio viene iniziato tramite proiezioni che partono dalla corteccia prefrontale allo striato, e da qui al globus pallidus, il quale invia le sue proiezioni ai nuclei anteroventrale e ventrolaterale del talamo. Questi nuclei talamici si proiettano successivamente sulle aree premotoria, motoria secondaria e sulla corteccia del cingolato anteriore, infine sulla corteccia motoria (Frith, 1987). Disfunzioni in una qualsiasi di queste aree potrebbero condurre ad un deficit nelle risposte auto-generate, come si osserva nel morbo di Parkinson e nei pazienti con una specifica lesione prefrontale. Frith e Done (1989) suggeriscono che i sintomi positivi della schizofrenia sarebbero dovuti ad un danneggiamento della funzione di monitoraggio delle azioni, risultante da un’alterazione delle vie nervose che connettono i lobi prefrontali allo striato. Quando un atto motorio è stato generato ed eseguito, ed ancora la regione che ha iniziato il processo (corteccia prefrontale) è stata dissociata dal movimento stesso in seguito ad un danneggiamento nei collegamenti tra la corteccia prefrontale e la corteccia motoria, il movimento può essere esperito come generato da forze esterne al self, come si osserva nei deliri di controllo. La nozione secondo cui una disconnessione tra regioni cerebrali sarebbe responsabile dell’agnosia autonoetica ha attinenza con la perdita dell'insight riscontrata nei pazienti con schizofrenia. Dato che la corteccia prefrontale ed i collegamenti tra lo striato e le altre regioni cerebrali risultano essere le aree maggiormente associate all’auto-monitoraggio degli eventi mentali, è possibile che i deficit dell’insight nella schizofrenia siano associati a disfunzioni in queste stesse regioni cerebrali.
IL RAPPORTO TRA INSIGHT E COMPLIANCE
Spesso l’insight viene considerato come un predittore di compliance al trattamento. Per analogia, la richiesta di un trattamento psichiatrico è stata assunta da qualcuno come indicativa di presenza di insight. Entrambe queste posizioni possono essere fonte di errore poiché è stato documentato in diverse ricerche che pazienti psicotici con un buon insight non assumevano i farmaci che erano stati loro prescritti (o che non seguivano, comunque, le indicazioni terapeutiche) mentre altri, che non avevano insight, li assumevano regolarmente (o seguivano le indicazioni terapeutiche).
Dall’insieme delle ricerche fatte su questo argomento si ricava che la presenza di insight favorisce certamente la compliance ai trattamenti, anche se i pazienti che non hanno coscienza di malattia possono accettare (o richiedere) il trattamento ed anche il ricovero (e ricavarne benefici). Non è eccezionale, infatti, che un paziente possa richiedere (o accettare) una terapia perché gli attenua o gli toglie alcuni sintomi che lo disturbano fortemente ma che neghi decisamente di avere un disturbo psichico.
Oltre alla compliance, la presenza di un buon insight può favorire la messa in atto di efficaci strategie di coping: non è eccezionale che, ad esempio, soggetti che soffrono di allucinazioni uditive anche rilevanti possano, grazie ad un buon insight, mettere in atto validi comportamenti adattivi che consentono loro di condurre una vita sufficientemente adeguata ed integrata. In altri casi, può favorire una precoce identificazione di segni e sintomi prodromici del ripresentarsi del disturbo e consentire quindi un ricorso tempestivo ai trattamenti.
La presenza o l’assenza di insight non sembra essere direttamente correlata con la gravità del quadro psicopatologico e con le sue variazioni nel corso del trattamento (Pini et al., 1999; Pini et al., in stampa). Anche il rapporto con la prognosi non appare particolarmente stretto o, meglio, sembra avere un andamento diverso, nel senso che la presenza di un buon insight non appare predittiva di un’evoluzione favorevole del disturbo, mentre la mancanza di insight sembra correlare maggiormente con una prognosi sfavorevole.