Venticinque anni fa la legge 180 mutò la risposta della società italiana al problema della malattia mentale. Liquidò la legislazione speciale espulsiva che confinava gli infermi di mente nei manicomi e negava loro i diritti riconosciuti a tutti gli altri malati. Inserì la psichiatria, a pieno titolo, nel servizio sanitario nazionale e ne collocò i presidi nel pieno e vivo contesto della società civile.
 
La legge fu il risultato di una lunga stagione di elaborazioni culturali, di tensioni riformistiche, di confronti, anche conflittuali, sfociati, infine, in sintesi legislative di cui ho ben viva memoria essendone stato partecipe. Al di là delle mitizzazioni, delle personalizzazioni e delle mistificazioni, possiamo oggi serenamente affermare che la legge varata venticinque anni fa ha oggettivamente prodotto, pur con ritardi ed errori, radicali e positive trasformazioni nelle condizioni di vita dei malati psichici e delle strutture psichiatriche del Paese, sostituendo alla logica della rimozione e dell’espulsione quella della cura e del reinserimento.
 
In questi mesi sono stati presentati e discussi progetti di legge tendenti ad introdurre drastiche modificazioni alla disciplina attualmente in vigore. In ogni caso siamo alla vigilia della totale assunzione delle competenze sanitarie da parte delle Regioni.
 
A fronte di tale evolutiva situazione non sembra opportuno scegliere la via dell’arroccato e pregiudiziale rifiuto di ogni innovazione normativa. Tuttavia, senza indulgere a "guerre di religione", occorre ribadire alcuni punti fondamentali che meritano ferma tutela nella stagione che ci attende.
 
Essi sembrano così sintetizzabili: rifiuto di ogni legislazione speciale per la psichiatria e del ripristino, sotto qualunque forma, degli Ospedali Psichiatrici; limitazione degli accertamenti e dei trattamenti non consensuali ai soli casi di emergenza sanitaria; collegamento in forma dipartimentale di tutti i presidi per la salute mentale come tali inseriti a pieno titolo nel servizio sanitario nazionale.
 
 
 
1 Rifiuto di ogni legislazione speciale
 
Il principale obiettivo dei riformisti è stato, almeno a partire dagli anni 60’, non solo quello di abolire l’iniqua legislazione manicomiale allora vigente, ma anche quello di rifiutare qualsiasi legislazione psichiatrica speciale , perché essa , di per sé, avrebbe segnato un vallo, una diversità normativa, e, quasi inevitabilmente, uno stigma nei confronti dei malati di mente.
 
Tale traguardo divenne raggiungibile nella seconda metà degli anni 70’ per due concomitanti e rilevanti accadimenti.
 
Il primo, maggiore, fu costituito dall’avvio del generale processo di riforma della sanità italiana per cui il Parlamento, al fine di superare esclusioni, separatezze e disuguaglianze, pose mano all’elaborazione e alla definizione di un sistema globale e unitario, aperto in condizioni di eguaglianza a tutti i cittadini che superasse la logica corporativa e assicurativa del mutualismo: il Servizio Sanitario Nazionale.
 
Il secondo evento, rilevante, fu costituito dallo sviluppo e dal consolidamento di straordinari progressi nella terapia delle psicosi che, rendendo meno severe le prognosi ed attenuando l’entità e la durata delle manifestazioni morbose più gravi, diminuivano le dinamiche espulsive nella pubblica opinione nei confronti dei malati di mente.
 
Però tutto ciò non sarebbe stato sufficiente se la temperie culturale sociale e politica di quegli anni non avesse favorito la convergenza di forze e di persone, di diversa provenienza ed estrazione, su comuni obbiettivi di civile progresso che, per quanto concerne il superamento dei manicomi, certamente contribuì a creare le condizioni per includere, sin dai primi mesi del 1977, nel testo stesso del disegno di legge sull’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale che si stava elaborando sulla Commissione Sanità della Camera dei Deputati, l’abrogazione della legge manicomiale del 1904.
 
Ma ,naturalmente, per evitare che la discriminazione connessa alla legislazione speciale si riproducesse sotto altre forme, occorreva far sì che modalità, collocazione, sede, natura, responsabilità gestionali dei nuovi servizi per la salute mentale, venissero delineati nel contesto della legge generale di riforma sanitaria.
 
Ciò avvenne il 23/12/78 allorchè fu definitivamente approvata la legge 833/78, istituiva del Servizio Sanitario Nazionale, che, agli art. 33,34,35,36,64, includeva norme relative alla salute mentale e fu raggiunto attraverso battaglie culturali, politiche parlamentari che condussero a sintesi difficili ma solide e vincenti, cui molti dedicarono impegno e passione.
 
Due delle proposte di legge presentate sulla salute mentale nel corso della XIV legislatura in corso, obbiettivamente configurano il ritorno ad una legislazione speciale per le malattie mentali e per molti aspetti, regolano materie oggi divenute di esclusiva competenza delle Regioni. Ciò giustifica una critica, preliminarmente, metodologica nei loro confronti.
 
2 Il carattere sanitario dei trattamenti sanitari non consensuali per malattie mentali
 
Secondo la legge del 1904, e il suo regolamento attuativo il ricovero coatto veniva adottato nei casi in cui il malato di mente fosse pericoloso per sé o per gli altri o desse pubblico scandalo, in una logica di difesa sociale dall’attuale o potenziale violenza dei folli, ponendo così la sicurezza pubblica al centro delle motivazione e dell’attuazione del provvedimento. Per contro le norme della 180 hanno stabilito che il trattamento sanitario obbligatorio fosse disposto dall’autorità sanitaria e finalizzato alla tutela della salute del paziente.
 
Infatti, come è noto, esso diveniva possibile, in condizioni di degenza ospedaliera, solo "se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengono accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni per adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere".
 
La procedura esecutiva corrispondeva alla sua natura sanitaria : proposta medica convalidata da un secondo medico della struttura pubblica, provvedimento del sindaco "nella sua qualità di autorità sanitaria locale".
 
Talune posizioni, presenti nel dibattito in corso, sembrano tendere a riproporre la sicurezza pubblica come motivazione di interventi coattivi nei confronti dei malati psichici.
 
Tale impostazione non può essere accettata.
 
Il punto di equilibrio raggiunto venticinque anni fa sul carattere sanitario del ricovero non consensuale va mantenuto non soltanto perché si è dimostrato costituzionalmente corretto, tecnicamente gestibile e, dopo una prima fase dialettica, socialmente accettato, ma anche perché segna il discrimine tra interventi per la salute mentale e tentazioni espulsive e custodialistiche .
 
Il carattere sanitario del T.S.O è quindi un punto fermo non rinunciabile.
 
 
 
3.Sede e durata dei trattamenti sanitari obbligatori
 
I TSO per malati mentali, previsti dall’art 6 della legge 180, sono regolati da norme finalizzate a dare una risposta rapida e tecnicamente valida a ben definite ad oggettive emergenze sanitarie. La sede dei ricoveri obbligatori, (i servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura) e la loro breve durata (sette giorni rinnovabili) concorrono a configurarli come misura sanitaria con carattere di straordinarietà da adottarsi in caso di emergenze sanitarie acute altrimenti non fronteggiabili.
 
Il testo unificato del p.d.l. Burani-Procaccini disegna uno scenario radicalmente diverso. Infatti essa porta la durata dei TSO a due mesi rinnovabili, ne consente l’effettuazione non solo nelle istituende divisioni ospedaliere di psichiatria, ma anche in non ben definite strutture extra-ospedaliere, indicate dalla Regione, nonché in SRA (strutture residenziali di assistenza continuata) previste per "persone affette da disturbi mentali in fase cronica".
 
Tutto ciò, certo al di là delle intenzioni dei proponenti, rischia di trasformare i TSO in strumento di collocazione forzosa e massificata di disabili psichici indesiderabili in sedi di incerta idoneità.
 
E’ innegabile che per lungo tempo il problema della cronicità psichiatrica è stato rimosso e va oggi affrontato i termini realistici
 
Bisogna anche ammettere che il massimalismo psichiatrico ha talvolta sovrapposto alla lotta contro il manicomio una sorta di pregiudiziale diffidenza contro ogni forma di di risposta residenziale ai problemi posti dalla patologia mentale.
 
Ma è certo semplicistico ed erroneo pensare che la questione del trattamento a lungo termine dei disabili psichici, carenti di risorse autonome e quindi di autosufficienza, possa essere risolta, ampliando a dismisura l’area e la durata del ricovero obbligatorio. La via da percorrere sembra, piuttosto quella della personalizzazione delle risposte di protezione a fronte di bisogni spesso reali ed ineludibili.
 
Ciò comporta l’utilizzazione di tutte le risorse socio-sanitarie disponibili per elaborare ed attuare adeguati progetti individuali, a termine, operando per acquisire il consenso dell’assistito, ma, in ogni caso, attivando gli strumenti tutelari necessari, ivi compresi quelli previsti per i casi di perdurante compromissione della capacità di gestire i propri interessi primari tra cui quelli connessi alla salute psico-fisica.
 
Si apre qui, davvero, un ampio spazio per innovazioni legislative (ma di ben diverso segno) per integrare le misure civilistiche attuali con altre, più rapide e flessibili nella procedura, nei termini e nella gestione, meglio adattabili al modificarsi delle condizioni del paziente, quali l’amministrazione protetta e di sostegno, la curatela provvisoria, l’affidamento. Ed anche per identificare, nel mutevole panorama della legislazione dei servizi socio sanitari del Paese, i soggetti e le risorse idonei a delineare modalità e caratteristiche delle risposte, anche residenziali e semi-residenziali, ad oggettivi e crescenti bisogni reali, trovando il difficile, ma necessario equilibrio fra principio di legalità, di beneficialità, di autonomia.
 
Tutto ciò conservando l’attuale legislazione sui servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura (SPDC) che, venticinque anni fa, segnò la positiva sintesi, da non disperdere, di allora divergenti posizioni.
 
Ricordo bene infatti che la proposta del relatore della 180 di istituire negli ospedali civili, servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) ove ammettere anche le persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio, ebbe un ben difficile cammino.
 
Molti la consideravano espressione di quella "medicalizzazione" della psichiatria che veniva drasticamente contestata.
 
Altri, più realisticamente, temendo che tali servizi avrebbero potuto potenzialmente riprodurre aree di segregazione di tipo manicomiale, tesero
 
a ridurne il numero al minimo, a ritardarne l’effettiva istituzione, a privarli di qualsiasi specifica identità. Del resto ancora oggi , in alcune Regioni italiane, si è lungi dal raggiungere nei servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura, la prevista capienza di un posto ogni diecimila abitanti.
 
Nonostante tali resistenze, che si protrassero a lungo e non sono ancora oggi del tutto estinte, credo si possa dire che i SPDC sono stati e sono essenziali per rispondere alla necessità oggettiva di gestire efficacemente emergenze psicopatologiche acute, anche nei casi estremi e relativamente infrequenti in cui il paziente non consenta al trattamento, non avendo consapevolezza di malattia. Essi, inoltre, hanno contribuito efficacemente all’integrazione dell’assistenza psichiatrica con gli altri ambiti della medicina, favorendo un costante e fecondo scambio di collaborazioni e di esperienze e giovando così sia alla salute mentale che a quella fisica di tutti i cittadini.
 
Inoltre essi non hanno compromesso il carattere unitario dei servizi per la salute mentale. Infatti sin dal Maggio 1978, in sede di elaborazione della 180, fu sancito, all’art.6 della legge, che i SPDC, "al fine di garantire la continuità dell’intervento sanitario a tutela della salute mentale sono organicamente e funzionalmente collegati, in forma dipartimentale, con gli altri servizi e presidi psichiatrici esistenti sul territorio".
 
Si evitò così il temuto rischio che l’istituzione dei nuovi servizi attenuasse la scelta strategica di una nuova psichiatria incentrata sul territorio, presente in mezzo alla gente, capace di tutelare la continuità terapeutica attraverso l’istituzione di una struttura dipartimentale che mettesse in rete i diversi livelli e le diverse sedi di intervento.
 
4 Il Dipartimento di Salute Mentale
 
Non è eccessivo affermare che il dipartimento di salute mentale, inteso come strumento di coordinamento e di integrazione di tutti i presidi per la salute mentale di ogni singola ASL, è stato uno dei cardini essenziali della riforma psichiatrica del 1978. Proprio per questo, introducendo la presente conversazione, è stato indicato come uno dei punti "fondamentali ed irrinunciabili" da tenere ben fermi nell’attuale fase di rielaborazione istituzionale e normativa dei servizi psichiatrici.
 
Chi elaborò, propose e approvò la Legge 180 sapeva bene che la liquidazione degli Ospedali Psichiatrici – operazione che nessun altro Paese europeo aveva tentato – implicava una grande sfida: la realizzazione, sul campo, in tempi tali da evitare vuoti assistenziali e terapeutici inaccettabili. di risposte efficaci, alternative alle strutture fondate sulla custodia e sull’esclusione
 
Tale impresa, dì per sé difficile, era resa ancora più ardua delle divaricazioni che si andavano profilando, anche nell’area riformatrice, in materia di ispirazione e di configurazione dei nuovi servizi. Del resto, il clima politico generale, mutato a partire dal 1979, favoriva le contrapposizioni, talvolta anche strumentali. Inoltre, nella fase di programmazione dei nuovi presidi per la salute mentale, emergeva il ruolo, costituzionalmente sancito, delle Regioni che non sempre lo esercitavano con criteri omogenei.
 
In una situazione così divaricata e conflittuale l’avvio della riforma conobbe momenti difficili, particolarmente avvertiti da chi, all’inizio degli anni 80’, aveva responsabilità nel governo della sua attuazione.
 
Anche sulla base di quelle esperienze, credo si possa oggettivamente affermare che l’istituzione dei Dipartimenti di salute mentale, in quella fase, costituì uno dei punti su cui far leva per trovare convergenze operative e porre concretamente mano ai primi elementari strumenti di una efficace psichiatria extra- manicomiale. Senza i Dipartimenti, negli anni successivi alla riforma, l’attivazione della mobilità del personale degli ex OOPP verso l’esterno sarebbe stata ancora più scoordinata e difficile, i servizi territoriali non avrebbero avuto né la necessaria interconnessione né un comune indirizzo e riferimento, i nascenti servizi psichiatrici ospedalieri avrebbero potuto, davvero, svilupparsi in forma di nuclei autoreferenziali, avulsi dalla complessiva "rete dei servizi" e da quel tanto (o poco ?) di continuità terapeutica che da essa ci si può attendere.
 
Ma la centralità del Dipartimento di salute mentale non deriva tanto dal ruolo in passato rivestito, quanto dalle esigenze e dai problemi che oggi ci stanno dinanzi. Il primo di essi mi sembra costituito dalla necessità di radicare in modo inequivoco nel servizio sanitario nazionale i molteplici aspetti delle varie attività indirizzate alla tutela della salute mentale. La tentazione di considerare la psichiatria come cosa anomala e diversa, se non "altra", rispetto alle discipline finalizzate alla salvaguardia della salute umana, è antica, ma ancora oggi ben presente in molteplici forme palesi e inespresse.
 
Del resto la generalissima " missione" dei servizi psichiatrici — " tutela della salute mentale"- implica, nel loro agire, il concorso di culture, professionalità, presidi, interventi di ben varia natura. Il fatto che il compito degli operatori della salute mentale non sia solo quello di "curare" ma anche quello di "prendersi cura" del sofferente psichico grave, evidentemente amplia il loro raggio di azione alla sfera assistenziale e sociale.
 
Tutto ciò può problematizzare e innescare processi di marginalizzazione nel rapporto tra alcuni servizi di salute mentale ed il complesso del Servizio Sanitario Nazionale.
 
Naturalmente la correlazione tra interventi sanitari ed interventi "sociali" è da sempre generalissima questione di rilievo istituzionale, recentemente oggetto persino di revisioni costituzionali, che travalica ampiamente l’ambito psichiatrico.
 
Tuttavia l’integrazione in forma dipartimentale di tutti i servizi e i presidi per la promozione e la difesa della salute psichica previsto dalla riforma del1978, è rilevante anche sotto questo aspetto. Il Dipartimento di salute mentale costituisce, infatti, la condizione preliminare per evitare che l’agire di diversificati servizi e presidi pubblici e convenzionati a fronte di un’utenza variegata e fluttuante si risolva in una tale frammentazione e diluizione operativa da comprometterne la complessiva identità sanitaria. Non si tratta di indulgere alla restrittiva visione di una psichiatria omologata sul modello medico, ma di garantirne e salvaguardarne, nel suo carattere multidimensionale, l’appartenenza e l’inclusione, così a lungo negata, nel complesso dei servizi sanitari del Paese.
 
Il Dipartimento, collocato nel crocicchio che, insieme, interconnette e separa servizi territoriali, residenziali e ospedalieri, ha quindi un ruolo insostituibile nella dinamica che, tra specificità ed inclusione, intercorre tra psichiatria e Servizio Sanitario Nazionale.
 
Inoltre, in una fase in cui, anche nell’ambito della salute mentale, il servizio pubblico non è più erogatore unico di prestazioni, ma anche garante, supervisore e controllore di una rete complessa che comprende il privato sociale ed imprenditoriale accreditato e convenzionato, il livello dipartimentale appare indispensabile per gestire, insieme, una responsabilità sociale non delegabile ed un rapporto libero ma integrato con altri soggetti.

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