Introduzione
Pier Francesco Galli, medico e psicologo clinico, ha studiato psichiatria e psicoanalisi prima a Basilea poi a Zurigo.
La sua attività in campo editoriale è nota anche al grande pubblico: ha fondato e dirige dal 1961 laBiblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica della casa editrice Feltrinelli, con Gaetano Benedetti; dal 1964 la collana Programma di Psicologia, Psichiatria, Psicoterapia della casa editrice Bollati Boringhieri; dal 1967 la rivista Psicoterapia e Scienze Umane, edita da Franco Angeli.
Nel 1962 ha formato insieme a Berta Neumann, Marianna Bolko, Enzo Codignola, Emanuele Gualandri e Gianbattista Muraro il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia che organizzava seminari di formazione a cui partecipavano – oltre a numerosi psicoanalisti e psichiatri italiani – anche Franco Basaglia, Giovanni Jervis e Agostino Pirella che furono protagonisti della riforma psichiatrica in Italia.
Ritengo che la sua testimonianza sia di grande interesse proprio perché ha promosso da oltre trent'anni, insieme al suo gruppo, iniziative culturali e formative, su temi di cruciale importanza per la formazione degli psichiatri in Italia.
Ho inserito in queste pagine anche la relazione di grande attualità L'epidemia della normalità: dagherrotipo del nuovo che avanza, recentemente presentata al convegno New trends in schizophrenia.Ten years later, organizzato dal Prof. Vittorio Volterra a Bologna nell'aprile 1998, in cui analizza con grande precisione lo stato di crisi in cui versa oggi l'istituzione psichiatrica. (Anna Grazia)
L'attività del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia negli anni 1960.
A.Grazia: Dott. Galli, innanzi tutto siamo lieti di avere un suo contributo per l'iniziativa di questo numero Speciale di Psichiatry on-line sul ventennale della 180, in relazione alla sua conoscenza storica di quel periodo, che l'ha vista in molti passaggi anche come protagonista di momenti importanti che hanno caratterizzato l'evoluzione della psichiatria in Italia.
Lei ha avuto diversi incontri con Basaglia e con il gruppo che lavorava a Gorizia in relazione anche all'attività dei seminari di formazione che si svolgevano a Milano all'inizio degli anni '60 organizzati da lei e dal Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, a cui partecipavano anche psichiatri e psicoanalisti stranieri.
Può raccontare ai nostri lettori qualcosa di quel periodo?
P. F. Galli: Devo, prima di entrare nel merito delle questioni che lei pone, fare una premessa. Non desidero con l'occasione di questa intervista centrata sul ventennale della 180, che peraltro accetto volentieri, entrare nella dimensione della celebrazione dell'evento perché ho l'impressione che negli ultimi anni in Italia delle questioni sostanziali ci si ricordi solo in occasione delle celebrazioni o della ricorrenza di date per così dire 'storiche': questo modo di analizzare i fatti non contribuisce certo a chiarire gli sviluppi del processo storico stesso. Le rievocazioni celebrative si collocano, a mio parere, all'interno delle 'revisioni critiche', che tendono di fatto ad espellere il più rapidamente possibile quello che è accaduto dalla memoria collettiva, creando un vera e propria 'cesura' sul piano storico – e questo accade a vari livelli, non solo per ciò che concerne la psichiatria – scambiando la faccia del 'nuovo' con l'annullamento del passato …
L'altro motivo di disagio scaturisce dal constatare come molte persone – che in quel periodo partecipavano attivamente a quei processi di riforma dell'istituzione psichiatrica – abbiano nel corso di questi anni fatto per così dire 'il salto della quaglia': ma non voglio qui ridurre tutto a critiche alle persone o agli errori fatti allora … e quindi come spettatore di prima fila, ma anche da protagonista di quegli anni, devo sottolineare che non rievoco il passato con gioia o nostalgia, ma piuttosto con un senso di amarezza, anche perché molte delle critiche sommarie che oggi vengono fatte a ciò che accadde allora, erano emerse in dibattiti e confronti in quel periodo: quindi la mia critica non è certo ex post facto.
A. G.: Come giudica lei oggi la legge 180? Da molti esponenti di Psichiatria Democratica viene sicuramente considerata un buona legge (si veda anche l'intervista a Sergio Piro). Varie proposte di modifica sono state presentate nel corso di questi anni: anche se alcune, in parte, avevano spunti interessanti – ispirati alle legislazioni vigenti in altri paesi europei – nessuna di queste è stata mai presa in considerazione. È evidente anche il timore da parte di molti psichiatri, che proprio a causa del fallimento della sua applicazione si ritorni a formule di mero custodialismo. Cosa può dirci in proposito?
P.F. Galli: Come può capire, date le premesse che prima ho esposto in via preliminare, non vale la pena di cadere nella trappola di stabilire se la legge 180 sia stata una buona legge o meno: ciò che può forse interessare ed essere utile è capire, ricostruendo vari passaggi non necessariamente lineari di quel periodo, che cosa quel particolare momento della storia italiana ha provocato, e in questo senso, se qualcosa ha provocato, bisognerebbe valutare con obiettività quegli effetti che sono oggi misurabili.
In Italia è diffuso un fenomeno già molto studiato dai sociologi americani funzionalisti: i meccanismi della fuga nella legge e della fuga nei valori come modi per eludere i problemi: dinanzi ad ogni problema 'forte' si pensa sempre ad una legge o modifica di legge piuttosto che attivare comunque quanto consentito dalle leggi vigenti.
A. G.: Può spiegare meglio il punto della fuga nei valori, cosa intende precisamente?
P. F. Galli: Nel settore della sanità questo fenomeno è evidentissimo soprattutto nei contenuti della cosiddetta 'formazione' nell'area sanitaria in genere … vengono oggi propagandati slogan del tipo la centralità della risorsa umana che spostano il fulcro di molte contraddizioni inerenti invece all'organizzazione dei sistemi, su di un discorso di 'valori', mascherando la compressione sulla risorsa umana che è in atto, anche nell'attuale organizzazione dei servizi psichiatrici.
Assistiamo frequentemente a quelli che ho chiamato tempo fa i convegni della mutua, in cui ci si muove sul piano concettuale in elevatissimi discorsi sui 'valori', a cui stanno arrivando anche i formatori, che diventano puri discorsi di 'predicazione' sganciati dai 'fenomeni reali' determinati dai sistemi di organizzazione. A questo punto sarebbero necessarie scelte politiche: ma mi chiedo, sono possibili scelte politiche 'forti' nel momento in cui è stata lasciata completamente nelle mani burocratico-amministrative la linea di comando?
Per esempio, da un lato – nell'attuale organizzazione cosiddetta aziendale della sanità – abbiamo un'ipertrofia della questione della 'dirigenza', col il paradosso che fino a qualche anno fa sembrava che una sorta di 'rambo' potesse risolvere in modo rapido ed indolore la questione dell'organizzazione sanitaria.
Ora il sistema è entrato in crisi su due livelli: su quello della 'leadership' e su quello del coordinamento. Quindi è inevitabile che l'organizzazione dei servizi sul piano pratico tenda a disgregarsi. Questo fenomeno nella psichiatria è senz'altro più evidente che in altri settori più tecnici della medicina, e per questo ovviamente possono essere individuate delle precise ragioni, come ho segnalato nella relazione L'epidemia della normalità: dagherrotipo del nuovo che avanza.
A. G.: Mi sembra di capire che in questa fase attuale della psichiatria il rischio è di tornare ad una situazione quasi 'ottocentesca'….
P.F. Galli: Non proprio, piuttosto ad una caricatura. Inoltre l'attuale struttura dell'organizzazione sanitaria, centrata sul puro risparmio finanziario a breve termine, anche dal punto di vista strettamente aziendale, impedisce di prevedere ciò che accadrà anche nell'immediato futuro. Su questa base, ciò che vediamo oggi, la carenza di progettualità dal punto di vista del calcolo dei 'costi vivi' che dovremo assorbire fra qualche anno, con l'attuale livello di 'compressione' sulla risorsa umana, gabellata per aumento di produttività. Il problema oggi sarebbe almeno di poter prevedere il danno economico futuro. In psichiatria questo è particolarmente evidente.
A.G.: Certo, questa sua analisi dell'oggi è molto puntuale e senz'altro condivisibile. Ma bisogna ricordare che, almeno in Italia, il processo che si avviò trent'anni fa, non ha dato poi i risultati sperati. Quali sono i motivi della mancata attuazione della legge?
P. F. Galli: Bisogna infatti analizzare un altro punto importante: ovvero capire in che misura quello che ha provocato la legge 180 fosse una sorta di 'fantasia' che si muoveva nell'area della propaganda, oppure se abbia dato l'avvio a processi reali di modifica delle istituzioni psichiatriche a livello nazionale. Oggi abbiamo delle situazioni più o meno dislocate a 'pelle di leopardo' sul territorio nazionale. E questo è un altro fatto di cui bisogna tenere conto. Molte di queste realtà, anche per i motivi già espressi prima, sono oggi costrette a muoversi in una cultura di sopravvivenza piuttosto che di progettualità, quindi con una forte tensione difensiva rispetto alla ripresa di una linea decisionale politica, si intende di politica sanitaria nell'ambito della psichiatria. Sono quindi questi gli elementi da considerare, salvo non volere rimanere sul livello degli aspetti formali della legge e da questi voler derivare il momento etico. Questo aspetto può aver funzionato come spinta motivazionale da un lato, e dall'altro aver determinato l'aspetto pratico che ha continuato a svolgersi con quei criteri, pur con i coefficienti di altissima stagnazione che caratterizzano il nostro sistema organizzativo, a tutti i livelli e in particolare nell'area sanitaria e nell'area psichiatrica. Questo è un discorso che ho fatto diverse volte, e ripreso in vari ambiti: tutte 'le psichiatrie' in Italia sono sopravvissute nel tempo e sono andate avanti in parallelo. È emerso nel tempo solo l'aspetto propagandistico di una piuttosto che di un'altra, ma nessuna 'psichiatria' è mai scomparsa …
A. G.: … certo ognuno di fatto manteneva i suoi spazi, questo si è visto molto chiaramente sia nell'ambito accademico che in quello delle strutture private. Quindi il rinnovamento non è avvenuto in tutti i settori?
P.F. Galli: Certamente no. Pensiamo proprio alle case di cura private dove si poteva comunque continuare a fare l'elettroshock, giusto o sbagliato che fosse … ma tutto ciò al di fuori dall'emersione di quella che si può definire come l'area della propaganda. Sembrava che circolasse a vari livelli la fantasia che un aspetto 'assertivo' di tipo ideale della psichiatria fosse di fatto anche concretamente operante sul piano delle scelte istituzionali: questo non è stato vero, ma allora se non è stato vero significa che bisogna comunque agire perché diventi il più possibile vero, piuttosto che di nuovo inseguire il fatto che cambiando la legge cambi la situazione.
L'aziendalizzazione della sanità e i problemi della psichiatria
A. G.: Quale processo deve quindi attivarsi perché molte istanze rimaste per così dire sul piano teorico e ideale possano concretizzarsi nella pratica?
P.F. Galli: Bisogna sempre partire da un'analisi di come funziona il sistema nel suo complesso. Tra l'altro bisogna ricordare che il punto di demarcazione di questo processo si è avuto proprio negli ultimi anni, con il cambiamento di gestione della sanità.
Quindi se prima quello che operava e ha funzionato per anni, anche come sistema motivazionale,era il legame 'tecnico-politico', oggi c'è un salto, un cambiamento in atto.
Il politico oggi ha l'alibi di trincerarsi dietro le scelte di ordine tecnico-burocratico, o per così dire amministrativo-dirigenziale (questa non è una definizione ma la descrizione di una sorta di coacervo di situazioni che convivono nel modo di operare nei sistemi di direzione attuali).
Il secondo aspetto è relativo alla cooptazione delle leadership tecniche, nel sistema dirigenziale. Questa operazione nei settori a tecnologie di maggiore spessore – pensiamo ad un settore come quello della chirurgia – funziona meglio perché è più forte lo 'spessore' della linea decisionale tecnica e perché il 'valore aggiunto' per un certo tipo di tecnico o di chirurgo, scompare totalmente se si mette a fare il dirigente: un medico che esce dalla sala operatoria scompare dal punto di vista professionale.
In psichiatria vediamo che la situazione funziona diversamente dal resto del comparto sanitario. Ed è diversa su due livelli: innanzi tutto diventa un 'valore aggiunto' per uno psichiatra potersi esprimere con linguaggi del tutto estranei alla psichiatria. E come capita di vedere in questo ultimo periodo, per uno psichiatra essere cooptato a livello tecnico-burocratico diventa un sorta di gratificazione narcisistica, anche sul piano personale e non solo professionale. E non si tratta qui, si badi bene, solo di acquisizione di 'potere' perché 'avere potere' in un sistema decisionale significa portare ad un alto livello di probabilità il fatto che una decisione presa venga anche posta in atto e posta in essere sul processo. Quello è esattamente ciò che non sta accadendo perché si è creato nell'ambito della psichiatria, in rapporto a questi fenomeni, il fenomeno delle 'doppia leadership'.
Abbiamo una prima leadership che si muove per piani esclusivamente burocratico-amministrativi, completamente sganciata dalla linea operativa, che è assegnata alla seconda 'fascia', i dirigenti di primo livello, che rimangono ancora sul campo ad operare e che assieme al proprio personale deve prendere delle decisioni nella quotidianità e che su questa base non ha più nessuna identificazione con quegli stessi colleghi che si muovono nei livelli burocratico-amministrativi del sistema. C'è quindi uno 'scollamento' tra questi due piani, e le due 'leadership' lavorano in parallelo, mentre una – quella burocratico-amministrativa – non ha pregnanza identificatoria sull'altra. Questa è la mia analisi di fenomeni abbastanza diffusi.
A. G.: Può essere interessante, a questo punto, capire quali sono le radici di questo fenomeno, di scollamento tra il piano burocratico-amministrativo e quello clinico, ad esempio…
P.F.Galli: Il punto è proprio questo: il fenomeno si manifesta oggi con questa connotazione sociologica particolare, ma è anche l'espressione di quei fenomeni che avevo segnalato già in altri miei lavori ed interventi, cioè la 'stratificazione sociale' fortissima che è avvenuta in questo settore. Quello che avevo già indicato ormai da tempo era che ci si trovava di fronte ad un fenomeno di accumulazione di leadership intellettuale di 'vertice'; si riteneva che partendo da operazioni 'di vertice' si potesse trasformare l'intero sistema.
Su questa base, la leadership cooptava i vari livelli presenti nella professione psichiatrica – medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali – fino ai livelli più bassi, dando l'illusione di muoversi nella stessa situazione e con lo stesso tipo di condivisione del potere. Questa era una grossa falsificazione.
A.G.: Quindi era già quello che accadeva nel primo esperimento di Basaglia a Gorizia, dove per definizione si cancellavano i ruoli degli operatori che allora lavoravano nella comunità e anzi ciò veniva considerato il requisito fondamentale per consentire al paziente di liberarsi dal proprio ruolo subordinato, e assumere quindi una nuova veste. Lei quindi sostiene che questo era già il primo passo di un processo che oggi è evidentemente entrato in crisi?
P.F. Galli: Certamente, quelle analisi 'sociologiche' dei ruoli, per esempio molto utilizzate all'epoca, trovavano una risposta immediata in certe analisi di tipo marxista della 'sovrastruttura'. È poi accaduto che dal primo momento in cui ci si è scontrati con delle situazioni e difficoltà pratiche all'interno delle équipe di lavoro, si sono subito ristabiliti i 'ruoli' e i vantaggi legati al ruolo professionale. E quindi è chiaro che i 'vertici' – coloro che di fatto prendevano le decisioni – già allora potevano godere del 'vantaggio narcisistico' accessorio della funzione di psichiatra, che tutti conosciamo molto bene attraverso la pubblicistica o il presenzialismo ai convegni, mentre gli altri tornavano nell'oscurità del lavoro quotidiano, peraltro – dato il tipo di patologia – anche sicuramente poco gratificante.
E questi sono fenomeni sociologicamente prevedibili.
In Italia, più che altrove, c'è stato un legame più stretto – anche a causa della pregnanza della cultura marxista in quel periodo – con operazioni che venivano impropriamente riferite ad es. al concetto marxista di 'prassi' rispetto a quelle che erano invece delle 'pratiche sociali'. Tant'è vero che nel momento degli anni 'di fuoco' il temine che veniva adoperato, era 'prassi' (e devo sottolineare che era un termine usato da parte di persone che conoscevano perfettamente i limiti dell'uso di questo termine). Nel momento in cui invece il discorso doveva portare alla elaborazione del documento di fondazione di Psichiatria Democratica vedremo che il termine che verrà usato sarà quello di 'pratica sociale' al posto di 'prassi'.
E questi erano degli equivoci teorici che avevano un riscontro anche sul piano istituzionale: l'analisi sociologica oggi non va fatta solo 'a posteriori', ma bisogna riprendere le tesi di chi la faceva già allora. Ci sono poi state radicalizzazioni del discorso politico che portavano anche a degli aspetti grotteschi. D'altra parte molti dei protagonisti di quel periodo erano 'neofiti' della politica, quindi si proponevano con atteggiamenti di radicalizzazione che nell'ambito della sinistra si manifestavano con atteggiamenti tipo 'togliere il saluto' al nemico.
Non bisogna dimenticare che in quegli anni si verificavano anche delle vere rotture di rapporti personali, che sul piano più generale provocarono una interruzione di dialogo anche all'interno di componenti che dobbiamo pur sempre collocare nell'ambito della sinistra. Comunque un fatto è che in quegli anni ci fu uno scontro tra diverse componenti della sinistra: ci fu evidentemente una linea 'vincente' sul piano della propaganda.
A. G.: Tornando però al tema della legge, anche se è senz'altro condivisibile la sua osservazione sul fatto che è improprio discutere se la legge 180 sia una buona legge o meno, bisogna però considerare che certamente in questi ultimi quindici anni molti drammi si sono consumati all'interno di quelle famiglie dove sfortunatamente è rimasto il malato, spesso anche giovane, senza particolari cure o interventi terapeutici se non quelle della somministrazione di farmaci depot. Abbiamo oggi malati praticamente abbandonati a se stessi e al loro destino. Ed mancata in particolare l'organizzazione di luoghi di cura 'alternativi' al manicomio o allo stesso Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), dove trattare a medio-lungo termine soprattutto i disturbi psicotici che tendono inesorabilmente a cronicizzare.
Oggi è riconosciuto che ci troviamo davanti alla cosiddetta nuova cronicità che si manifesta anche per coloro che non sono mai stati in manicomio. Qual'è il suo punto di vista su questo problema?
P.F. Galli: La sua analisi è senz'altro corretta e bisogna sempre considerare che lei osserva per così dire 'dal basso' i fenomeni per come sono osservabili nella concretezza della quotidianità, rispetto invece alla 'forbice' che si apre sul piano dei discorsi di propaganda, di quei discorsi che invece sono sovente calati 'dall'alto'. Anche in Emilia Romagna c'è stata poca lungimiranza nel capire che ad un certo punto erano indispensabili le strutture intermedie da utilizzare in rete con i servizi territoriali esistenti: si trovarono allora – e questo non molti anni fa – delle incredibili 'opposizioni' di tipo ideologico, che usavano ancora l'argomentazione di non voler attivare dei 'piccoli manicomi', muovendosi con categorie di fissità istituzionale e non di processo. Il piccolo manicomio non si riproduce perché si fa un'istituzione, ma si riproduce se questa viene isolata nel sistema, cioè se si perde la connessione di 'rete' tra le strutture. Questo è infatti uno dei grossi rischi che corriamo adesso, dal punto di vista di un certo tipo di scelte. Se da un lato ha una valenza senz'altro positiva la scelta del 'privato sociale' rispetto ai luoghi di affidamento della patologia che ha bisogno di degenze più prolungate – comunità terapeutiche o strutture di questo tipo – il punto critico è che se noi, con la diminuzione dell'organico dei servizi territoriali in quanto tali, corriamo il grosso rischio che nelle stesse comunità (dove il personale non ha un'alta qualificazione professionale) il supporto psichiatrico divenga soltanto un forma di 'supporto' nel momento in cui si crea all'interno di queste strutture una situazione di emergenza. E quindi di nuovo si torna ad una gestione della psichiatria basata sull'emergenza, piuttosto che sulla gestione del processo continuo, e quindi anche di assistenza continua alla patologia, con tutto ciò che questo comporta.
Le situazioni a cui lei faceva riferimento come situazioni di abbandono, si sono concretamente verificate: da una lato per mancate scelte di investimento, dall'altro per il fatto che di nuovo la questione della psichiatria in Italia rappresenta una sorta di 'ventre molle' dal punto di vista formativo, per cui il 'problema' della 180 non può non essere inscritto nella 'nascita' della psichiatria in Italia. Quindi il momento è molto pre-datato rispetto al periodo in cui fu espressa la legge.
Da un certo punto di vista ha rappresentato – in carenza di una preparazione psichiatrica e di un'alta professionalità psichiatrica nel sistema (è un dato di fatto) – un ventre molle dal punto di vista della penetrazione di linguaggi che allora erano linguaggi 'politici' e che hanno avuto una notevole forza motivazionale, che è durata molti anni, producendo vantaggi ed errori o mancate scelte, questo è evidente.
Ma il punto critico è rappresentato dal fenomeno della penetrazione dei linguaggi 'non psichiatrici' nell'ambito della psichiatria stessa: vent'anni fa era quello politico, oggi è quello burocratico-aziendale. È sempre lo stesso fenomeno.
Sul problema della formazione degli psichiatri italiani
A. Grazia.: Perché la psichiatria italiana è così facilmente influenzabile dai sistemi ideologici, in che cosa è stata dunque carente?
P.F. Galli: Bisogna ricordare che la psichiatria italiana, fino agli inizi degli anni '60, come fenomeno istituzionale non esisteva se non nella forma dei manicomi e quindi del personale che lavorava nei manicomi.
Di conseguenza anche la psichiatria italiana, dal punto di vista accademico non esisteva: nelle altre nazioni il 'luogo' manicomiale era anche il luogo della clinica psichiatrica universitaria. Ad esempio il manicomio svizzero di Zurigo, è anche il luogo della psichiatria e della ricerca psichiatrica, o quello di Basilea; o le tante istituzioni universitarie manicomiali in Germania, in Francia, per cui il percorso accademico muoveva all'interno della necessità di conoscenza della psichiatria e di quello che questo proponeva sul piano della psichiatria descrittiva, fenomenologica, psicodinamica.
Tutto questo in Italia semplicemente non esisteva: e tutti i luoghi universitari erano orientati verso la neurologia. Nel momento in cui s'inventa la psichiatria in Italia quelli che allora si potevano considerare psichiatri in senso mitteleuropeo si contavano sulle dita: la maggior parte di loro si muoveva nell'ambito della psichiatria descrittiva, l'insegnamento a livello universitario non esisteva, la situazione ospedaliera non sto a descrivere quale fosse … e si contavano sulle dita le persone che si occupavano in modo specifico di psichiatria, per un interesse personale evidentemente, perché non era certo con quei lavori che avrebbero potuto fare carriera. E il posto di direttore di ospedale psichiatrico generalmente era il posto che veniva dato a coloro che non riuscivano ad andare in cattedra a neurologia. Questo fu anche quello che accadde a Basaglia: andò a Gorizia perché lì era chiaramente indirizzato dal direttore della cattedra nella quale svolgeva il suo lavoro scientifico precedentemente e anche per un suo interesse specifico per la psichiatria, non certo di tipo opportunistico, ma legato ai suoi interessi personali.
Questo spiega poi la successiva 'accelerazione' di un movimento che diventa essenzialmente politico senza mediazione tecnica. Bisogna poi togliere di mezzo l'equivoco che la psichiatria fenomenologica abbia prodotto cultura nell'ambito della genesi della legge 180: questo non è assolutamente vero. Nessuno dei maggiori rappresentanti della psichiatria fenomenologica o della psichiatria descrittiva, che in genere andavano a dirigere gli ospedali psichiatrici (erano sempre coloro che non facevano carriera in neurologia) sono state poi le persone che hanno trasformato qualcosa nelle strutture che dirigevano.
Quindi voler dare una dimensione politico-culturale alla fenomenologia, per il solo fatto che da questo punto di vista veniva ripresa e ricollocata la questione della 'persona totale', è un fatto puramente metodologico, legato a vicissitudini disciplinari della psichiatria di quel periodo, ma non aveva alcuna connotazione per cui dovesse in forma immediata produrre trasformazioni. E questo va detto anche perché un certo recupero di questi ultimi anni della psichiatria fenomenologica, dal mio punto di vista, non significa assolutamente nulla.
Significa ricollocare le conoscenze che la psichiatria ha e poteva avere e che non sono state fornite agli studenti…
La psichiatria assume in Italia una connotazione universitaria e viene legittimata a partire dal 1950 (la prima cattedra di Psichiatria nacque a Milano, in convenzione con l'amministrazione provinciale di Milano, e venne allora affidata al prof. Cazzullo). Comincia in quel periodo il fenomeno di riconversione dei neurologi verso la psichiatria. Bisogna tenere presente che le cliniche psichiatriche universitarie erano poi di fatto 'sganciate' dalla gestione del malato mentale a differenza di quello che accadeva in altre nazioni, e quindi ci si poteva permettere il lusso di insegnare qualsiasi cosa, secondo i gusti o le 'riverniciature' di chi si era occupato fino a qualche tempo prima solo di aspetti neurologici. Su questo si innesta la 'questione politica' di trasformazione dell'istituzione manicomiale, ma s'innesta con una 'debolezza intrinseca' di conoscenza della psichiatria da parte dei tecnici di allora.
A. G. : Negli atti del convegno del '70 organizzato dal vostro gruppo, buona parte del dibattito è occupato dal tema del rapporto tra società repressiva e le problematiche dell'individuo ……
P.F. Galli: Anche qui abbiamo l'immissione di linguaggi derivati dalla sociologia all'interno di una debolezza intrinseca della professionalità e della competenza di ordine psichiatrico, che in altre nazioni invece c'era. In quegli anni il problema della formazione – che il mio gruppo sosteneva attivamente, era evitato da molti psichiatri, e addirittura considerato 'de-formazione': si diceva che la formazione andava fatta sul campo, ricorrendo quindi ad una impostazione che chiamerei di 'empiricismo volgare', con effimere soluzioni durate pochissimo come la questione grottesca dell'operatore unico, che sembrava volesse annullare la stratificazione sociale interna al sistema. Bisogna aspettare la metà degli anni '70 perché la questione della formazione venga di nuovo affrontata, anche se spesso con proposizioni di ordine demagogico.
Voglio ancora sottolineare il fatto che ormai simili questioni legate ad un quarantennio della psichiatria italiana, non possono essere descritte semplicemente in bianco e nero: del tipo 'alcuni che avevano capito tutto', e altri che rimanevano ancorati a posizioni 'tradizionali'.
I percorsi in realtà erano molto più contorti di quello che oggi viene spesso semplicisticamente delineato, e molto più sofferti di quanto possano apparire. Oggi potremmo dire che allora c'erano delle ambiguità: ma in realtà era il riflesso della ricchezza della sofferenza di molti intellettuali che si assumevano responsabilità sociali, e che attraverso il 'fare i conti' con le ambiguità insite nel sistema finivano col prendere delle decisioni, ma forse anche col cambiare parere… e con l'avere impostazioni diverse e molto meno lineari di quanto non si voglia far apparire.
A. G.: Il ruolo degli psichiatri come lavoratori intellettuali non era dunque così lineare come oggi molti invece vogliono rappresentare….
P.F. Galli: Certo, perché come dicevo anche prima, altro è rievocare quel periodo in modo acritico e personale, altro è fornire chiavi di lettura più generali sul quel periodo, anche per recuperare quel tipo di sofferenza che c'era in chi era politicamente impegnato come intellettuale sul campo. Certe contraddizioni sono frutto di quella sofferenza e di quello che poteva produrre. Non è un caso che se da un lato c'era il discorso anti-istituzionale di azzeramento del manicomio, dall'altro lo stesso Basaglia faceva parte con il prof. Venturini della commissione che a Ravenna, per conto dell'amministrazione provinciale, stava progettando il nuovo ospedale psichiatrico che non venne fatto per una scelta politica fatta alla fine degli anni '60. Queste sono contraddizioni legate alle difficoltà insite nel ruolo di chi allora agiva e operava come intellettuale; i percorsi sono molto meno lineari da questo punto di vista, e posso affermarlo proprio perché dalla metà degli anni 1950 sono nel settore e quindi queste di cui riferisco sono situazioni che ho conosciuto direttamente.
Il terzo dei fattori che mi dà disagio oggi in questo clima di rievocazioni, è assistere a quei processi di falsificazione storica che cercano di dare linearità a processi la cui ricchezza era proprio nel fatto di non essere lineari e intrisi di sofferenza.
Lo stesso Piro che ha fatto cose egregie, ebbe uno scontro molto aspro a Firenze, in occasione del Festival dei Popoli del 1968, organizzato da Tullio Seppilli, al quale anch'io avevo partecipato per l'organizzazione della parte psichiatrica: in quella occasione Sergio Piro portò un filmato su alcune trasformazioni che stava tentando di attuare come modernizzazione dell'ospedale psichiatrico e fu violentemente attaccato dalla componente più radicale.
Su questa base nacquero poi collegamenti di ordine diverso, e la partenza anche di diverse posizioni politiche: rivendico la non linearità di questi processi proprio come ricchezza e non come debolezza. Ritengo sia invece una debolezza voler dare una connotazione celebrativa, museale o monumentale agli eventi che caratterizzarono quel periodo.
A questo punto posso anche dire che la 180 è una buona legge. C'erano e ci sono state le condizioni per attivare tutti i passaggi del 'processo reale' rispetto alle necessità del trattamento del disturbo mentale, con gli strumenti che sarebbero stati necessari per completare il processo che iniziò allora, e che vengono attivati oggi con un ritardo ultra-trentennale.
A. G.: Certo il ritardo è purtroppo grave in questo settore, anche se pensiamo alla possibilità che oggi hanno le singole regioni – attraverso strumenti finanziari decentrati – di adottare procedimenti mirati di politica sanitaria; ma anche qui si nota una certa lentezza nel modificare certi aspetti strutturali della gestione delle risorse in psichiatria. Perché tante difficoltà nel passare alla pratica?
P.F. Galli: In questa legislatura abbiamo un fattore senz'altro positivo nella politica psichiatrica oggi: è di avere un ministro come Rosy Bindi che ha raccolto soluzioni non solo sul piano burocratico-amministrativo, ma anche con istanze di tipo etico, per cui sta raccogliendo il meglio di quelle che sono oggi le proposte in campo psichiatrico. Questo è un aspetto importante, perché non ci si può limitare all'attuazione del decreto di chiusura dei manicomi. È altresì importante avere oggi meccanismi di controllo efficienti della spesa e di gestione, soprattutto in psichiatria. L'anello debole può essere di nuovo la gestione delle singole Regioni che hanno degli spazi di manovra che possono portare a nuove falsificazioni del sistema.
Il processo di aziendalizzazione della sanità è iniziato già dall'inizio degli anni 1990 e oggi il ministro si trova a dover compiere scelte difficili, in cui le istanze etiche non devono essere semplicemente eluse, ed è quello che sta facendo, con forti assunzioni di responsabilità e senza cadere nella trappola economicistica. Altri problemi potranno derivare dal mancato ricambio generazionale degli psichiatri: paradossalmente quello che potrà ritardare una spinta innovativa nel settore potrà essere proprio l'invecchiamento dell'organico. Oggi in media uno psichiatra entra in ruolo dopo un lungo periodo di precariato, in genere dopo i quarant'anni, con tutto ciò che questo comporta. Ciò significa che la nuova spinta innovativa, trovi una componente forte nelle associazioni di base dei familiari, ovvero di chi non può comunque eludere il problema della malattia mentale, perché ci vive accanto: sarà questo elemento che spingerà il sistema verso un ulteriore cambiamento.
A.Grazia: …noi tutti ce l'auguriamo di cuore. La saluto e la ringrazio per la sua attenzione.