La necessità di radicalmente innovare le norme sull'assistenza psichiatrica, chiudendo la lunga fase in cui essa era stata concepita e gestita come entità scissa e diversa dal complessivo sistema sanitario italiano e ghettizzata da una legislazione speciale, era largamente condivisa da decenni.
Già qualche anno dopo l'emanazione del regolamento alla legge Giolitti n. 36 del 1904 – che inquadrava le misure pubbliche nei confronti della malattia mentale nell'ottica della custodia e della difesa sociale – si manifestarono opposizioni e critiche, ben presenti sulle riviste psichiatriche del tempo.
Si lamentava, soprattutto, l'esclusione della psichiatrica e dei malati di mente dalla tutela mutualistica, la modestia delle risorse destinate ai ricoveri psichiatrici (il cui costo era radicalmente inferiore a quello per le altre degenze), la conseguente dequalificazione degli operatori, l'utilizzazione degli ospedali psichiatrici più come deposito di indesiderabili e di disturbatori che come strumento terapeutico.
Tale opposizione si rafforzò parallelamente all'evolversi delle conoscenze e delle tecniche terapeutiche che, sviluppando la comprensione delle dinamiche della sofferenza psichica e riducendo drasticamente nel tempo e nell'entità le più palesi manifestazioni psicopatologiche, rendevano sempre più inaccettabili segregazioni, discriminazioni, misure repressive e poliziesche, esplicitandone il ruolo negativo sullo stesso evolversi della malattia.
Si diffuse così fin dagli anni '50 la pressione per riformare una legislazione ormai inaccettabile e palesemente in contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione varata nel 1947.
Tuttavia la crisi si fece esplosiva ed investì anche le aree non tecnicizzate della pubblica opinione a partire dal 1960, sotto la duplice spinta della contestazione da un lato e del riformismo psichiatrico dall'altro.
Tali spinte, del resto, erano presenti, almeno nei paesi occidentali, su scala internazionale e confluivano in una perentoria richiesta di liberazione della psichiatria e dei malati di mente dalle coercizioni di cui erano oggetto e in una diffusa (e a volte anche confusa nella sua radicalità) domanda di deistituzionalizzazione.
Sono di quegli anni le opere di Goffman in USA, di Laing in Gran Bretagna, di Basaglia in Italia, la nascita di associazioni e di gruppi, la presa di posizione di società scientifiche e di associazioni sindacali, il fiorire di convegni e proposte, in rapporto ai nuovi stimoli della sociologia, dell'antropologia culturale, della psicoanalisi.
Né va sottovalutata la circostanza che l'avvento degli psicofarmaci, mutando il quadro sindromico e prognostico delle psicosi, attenuava paure e pregiudizi.
In questo quadro un primo modesto, ma significativo, successo fu colto dalle forze riformistiche. Dopo lunghe trattative, cui fui partecipe, fu varata la legge 18/3/68 n. 431 denominata “Provvidenze per l'assistenza psichiatrica” che limitava a 560 il numero massimo dei ricoverati in ciascun O.P., stabiliva un rapporto numerico accettabile tra curante e malati, introduceva nuove figure professionali, disponeva la creazione di centri e servizi di igiene mentale territoriali, prevedeva ricoveri volontari, aboliva l'ignobile norma concernente l'iscrizione dei ricoveri nel casellario giudiziario.
Mentre la legge 431 conosceva la sua lenta applicazione, si aprì nel Parlamento e nel Paese la discussione sulla riforma sanitaria, che doveva ridisegnare l'impianto istituzionale della sanità italiana.

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