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Una psichiatria dispnoica.. ma chi è che la rianima?

7 Giu 23

Di FRANCESCO BOLLORINO

Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”     

Giovanni Falcone 

 

 

Caro Gilberto, 

ricordo, come fosse ieri, la tua “Lettera a un giovane specializzando” (1) di qualche anno fa. All’epoca anch’io ero, ancora, uno specializzando. Per me fu un’illuminazione.                                                                                              Pochi mesi fa, invece, leggo sulla tua rubrica la lettera di Carlo Cattaneo (2). I miei pensieri che risuonano nelle parole di un collega meno giovane (Cattaneo ha 16 anni di psichiatria sulle spalle, io solo 4, e a oggi meno di 2 nel servizio pubblico). Parla di una psichiatria esanime, di passione schiacciata dalla stanchezza, di esaurimento di energie degli operatori – e con esse, dell’attenzione da dare ai pazienti. Delle nuove spinte custodialistiche, mai davvero sopite. Degli equilibrismi, continui, per sopravvivere non alle vicende dei nostri pazienti, ma alle falle del sistema dentro il quale abbiamo il mandato di curarli. In breve, di una legge 180 che forse ha fallito, di una psichiatria pubblica nuda e impotente, dispnoica, che regge perchè qualcuno, ancora, sceglie di restare. 

Ancora più recente, l’omicidio di Barbara Capovani. Ed ecco voci di protesta, moti di rabbia, paura, sdegno. Ecco il solito tavolo tecnico-ministeriale, a sedere i soliti portavoce della psichiatria mainstream, che discuteranno – con parole forse nuove, forse no – di temi (la crisi della Salute Mentale) vecchi anni, ormai decenni, da sempre ignorati, oppure declinati (di questi tempi soprattutto) in chiave neo-manicomiale. 

 

Qualcosa, a dire il vero, sembra muoversi. Un movimento dal basso. Chat che raccolgono psichiatri di tutt’Italia, che si conoscono, si sfogano, provano a riflettere. Ci sto anch’io, in una di queste chat. E’ un prezioso luogo di scambio, dove acquisire esperienze, condividere preoccupazioni, abbozzare proposte. Qualcuno – es. il Coordinamento degli Psichiatri Toscani – sta cercando di usare attivamente l’attenzione che si è creata, di smuovere il terreno (in agenda la proposta, sacrosanta, di stringere le maglie della non imputabilità per i soggetti con diagnosi psichiatrica e autori di reato).                                              L’indignazione per la Capovani è molta, per le misere condizioni della Salute Mentale sembra altrettanta. Potrebbe essere una cosa promettente. Potrebbe, tutta questa indignazione – reattiva per alcuni, in altri già presente da tempo – offrire il giusto slancio per ridare linfa al sistema, rimetterlo in piedi, impedirne il (prossimo?) tracollo.  

 

E però, passa il tempo, e sento che manca qualcosa. Di basilare. La nostra capacità di fare autocritica.  

Molte delle criticità che fronteggiamo nel lavoro quotidiano – e che, urliamo, ci stanno sovrastando – si alimentano della direzione che diamo alle nostre condotte: fatte spesso di ordinaria approssimazione, accondiscendenza alle varie richieste (di colleghi, superiori, altre istituzioni) del volemose bene invece del facciamo ciò che serve ed è giusto; dominate dalla fretta, dalla compulsione a dare risposte pratiche e veloci a problemi delicati e complessi. 

Lo svilimento crescente della psicopatologia, la fatica, i timori personali, l’indisponibilità caratteriale di molti: sono questi, a vario titolo, gli ingredienti che – mi accorgo – stanno erodendo l’etica e il senso del nostro lavoro. Un processo di declino a cui partecipiamo attivamente. Quasi come i condannati a morte che scavano, loro stessi, la fossa in cui verranno buttati dentro. 

 

La psichiatria pubblica è sottoposta a gravi carenze strutturali, e a pressioni di ogni tipo, in primis quelle di custodia e controllo. E’ esperienza di tutti noi. Da giovane psichiatra, in molte occasioni già ho ricevuto forti pressioni, da parte di colleghi, o Forze dell’Ordine, perché sbrigassi, e in fretta, la “pratica” con un ricovero in psichiatria. Ho sentito l’obbligo, in quelle occasioni, di spiegare a chiare lettere che faccio il medico, non il controllore sociale, e che non ho alcuna intenzione di diventarlo. Chi non nascondeva fastidio e rabbia, chi mostrava rispetto per la mia valutazione.. eppure, da tutti ho ottenuto ascolto. 

Credo sia un primo bivio: se una posizione del genere la pensiamo eccezionale o eroica, non credo ne usciremo. Se invece tutti – o tanti, almeno – crediamo sia imprescindibile (seppur faticosa) per tenere in vita il nostro lavoro, potremo aprire spiragli. 

Il nostro ruolo ha grande responsabilità, ma anche ampi margini di autorevolezza, potere negoziale e di indirizzo. E questo non solo sul paziente, ma anche sulle istituzioni. Il punto è: siamo disposti a farcene carico, ad esercitarlo? 

In cuor mio, sento il bisogno di difendere queste posizioni (fino pure in tribunale, se dovesse mai servire) per proteggere qualcosa di molto prezioso, e oggi in pericolo: l’identità dello psichiatra, le questioni etiche su cui si radica, il ruolo pubblico dentro cui la esercito, al servizio del mio paziente. 

 

So di un tizio (noto ai servizi di salute mentale) che, subito dopo la Capovani, ha minacciato diversi operatori di ripetere l’aggressione ai loro danni. Nei giorni successivi qua e là, tra gli operatori, si aggirava un certo messaggio: “Sta provocando, se continua così dovremo fare un TSO”   

Ora, se questo è un caso singolo, se nasce dalla paura, da faciloneria, sono amico del maresciallo, del direttore di Dipartimento, tengo famiglia e/o non voglio problemi, a me interessa poco. Mi interessa molto di più quel che significa. Se queste istanze trovano spazio nel nostro mondo, aumenta il timore (e la fatica) a starci dentro. Perché è proprio in questo mondo (psy) che certe istanze andrebbero contrastate. Non cavalcate. 

 

Certo, il clima culturale non aiuta. Sempre più pazienti, ad esempio, del loro disagio dicono: “Dottore, dobbiamo risolvere il problema” e tu semmai a spiegare che abbiamo “una difficoltà da affrontare” e la differenza, enorme, tra le due. Oppure “Dammi il farmaco giusto” e tu a dire perchè, in questa prospettiva, nessun farmaco sarà mai adeguato. Quest’approccio permea la mentalità della società odierna.                                      Il punto ora è: come arginare questa spinta culturale, che porta oggi sempre più persone a vedersi come macchine da riparare?  

 

La psichiatria organicista, che oggi popola accademie e mezzi di informazione, entra di diritto nell’immaginario della gente. Che impara a considerarsi una massa di recettori e disfunzioni. L’ho vissuta sulla mia pelle: è una visione che “sterilizza” la complessità, trasforma le correlazioni in cause, comprime e svilisce il vissuto (umano) a sintomo (di malattia).                                                                                                      

Allora sono andato nel pubblico, dicendomi: lì troverò attenzione per la persona, i fattori sociali, la relazione. Cose che infatti ho trovato. Ma ho trovato anche qualcos’altro: lo sfascio del sistema. Sempre meno risorse – economiche e di personale – operatori alla corda, sfruttati, stremati nello spasmodico (e controproducente) tentativo di “turare” le falle.                                                                                                             Quasi tutti, in chat, denunciano questa deriva, i carichi impossibili di lavoro, che offuscano la mente, e spengono la sensibilità verso i pazienti. Lo dice anche Cattaneo, nella sua lettera. E’ un tema su cui anch’io, costantemente, stresso i “miei” operatori.                                                                                                                                   E’ questo che alimenta il burn-out degli operatori (ma un servizio in burn-out, serve a curare?) e poi la loro perdita (sul serio vogliamo raccontarci che mancano medici perché i posti in Specializzazione sono pochi?). E in quelli che restano, può nascere una sofferenza neanche troppo diversa da quella dei nostri pazienti (siamo esseri umani, soffriamo per le stesse cose, o no?). E i pazienti, in questo scenario rivedono il manicomio (qualcuno oggi lo chiama terricomio) la cui prima, inevitabile tappa è medicalizzare il disagio. Non perchè vedi davanti a te una malattia, o pensi che la risposta sia davvero un farmaco, ma perché è questo, in concreto, che ti è rimasto da offrire.                                                                                                                                                          

 

E però, a questo punto, tu dici, chi sta nel pubblico si scalderà per questi problemi, farà muro, si ribellerà allo stato delle cose. Non è così. Da più parti prevale l’inerzia. Un muro, si, ma di impotenza, disinvestimento, accettazione passiva.                                                                                                                                          Penso alle Ong, che salvano vite, con i mezzi che hanno a disposizione. I servizi mi sembrano oggi Ong che raccattano disperati in mare. Con scialuppe, però, che anno dopo anno diminuiscono. E sempre più disperati ammassati sulla stessa scialuppa. E i disperati siamo anche noi, che ci inventiamo soluzioni sempre più acrobatiche (e improbabili) per tenerla “a galla”.                                                                                                           Messi alle strette, finiamo pure per cannibalizzarci tra noi. Nelle equipe, nelle chat, si sente molta paranoia, ambivalenza, proiezione: la psicopatologia oggi dovremmo declinarla non tanto sui pazienti, ma nei servizi.                                                                                                                                                                                            Mai, però, che rivolgiamo un’azione concreta verso chi quelle risorse ce le sottrae, tradisce in modo inaccettabile il nostro mandato, chiede (pretende) risposte impossibili. 

 

La crisi della Salute Mentale è evidente. Ma di cose – poco utili per i pazienti, se non dannose – che facciamo, ogni giorno, dentro i servizi in risposta alla precarieta’ in cui versano, ne vedo costantemente.                                                                                                                                                                            E’ un altro snodo. Se vogliamo realmente cambiare passo, credo dobbiamo cambiare qualcosa in noi stessi.. smetterla, ogni volta, di metter le “pezze” ai problemi, aggirare le criticità con scorciatoie, delegare situazioni, accettare soluzioni che oggi ci risolvono la pratica, domani ce la riconsegnano piu’ difficile di prima. Questioni in cui spesso ci sentiamo assolti, ma siamo invece coinvolti.                                                            E dobbiamo cominciare a rivendicare, seriamente, il nostro ruolo di curanti, i presupposti e i mezzi per i quali possiamo, o non possiamo curare.                                                                                                                                                                                 Lavorare dentro i servizi non significa recepirli passivamente, ma agire da dentro (in vari tempi e modi) per dirigerli e plasmarli. È un principio basilare, imprescindibile ma verso cui, detto senza remore, vedo poca disponibilità. Il problema è che questo ha ripercussioni dirette, e negative sui problemi di cui poi ci lamentiamo.  

 

La situazione, ma certo, è difficile. Le motivazioni sono note. Ma i problemi sono di ogni epoca. E noi, siamo attori o spettatori? Quanto era critica la situazione in era manicomiale? Eppure i manicomi sono stati chiusi. Mi chiedo, oggi Basaglia potrebbe esistere? Ne dubito, non vedo un clima di cui possa farsi portavoce.                                                            Ai tempi della riforma la gente si appassionava, faceva delle idee un’arma. Oggi, chi combatte per le sue idee è “malato” di idealismo. La riflessione non innerva più il nostro agire, è residuale, da “sacrificare” sull’altare dell’operatività (le incombenze che divorano gli stessi presupposti che ci servono per affrontarle). E se rimane, gira spesso a vuoto; riflette dentro la cornice, non si occupa mai seriamente della cornice, nella quale le cose avvengono. Si guarda bene dall’entrare in merito alle questioni strutturali.                                                                                                                                                        

Su questa strada, la Salute Mentale si avvia ad essere una grande rete di dispensazione farmacologica, e il disagio psichico appiattito (e sfigurato) nella forma di un male da contenere o “silenziare”.                                                      

I cittadini dovrebbero saperlo. Gli operatori dovrebbero rifiutarlo.  

 

Pensare, ovviamente, di cambiare da soli l’attuale scenario è onnipotente, ma esercitare il nostro ruolo passivamente significa delegare, autoassolverci, abdicare.                                                                                                                                                 

Noi psichiatri non siamo semplici tecnici. Ci piaccia o no, il nostro ruolo ha anche una chiara valenza politica. Uso le parole (tue e di Vanacore) a commento di Janzarik, che ne “La crisi della Psicopatologia” (3) già nel ‘76 ci metteva “..di fronte ad un bivio, se divenire “custodi di psicotici istituzionalizzati” (non solo negli asili, ma – aggiungeremmo noi – nei servizi, nelle residenze) oppure “psichiatri della società”.  

C’è chi di noi questo mandato lo rivendica e lo esercita in modo naturale, chi preferisce dimenticarlo o negarlo.. costui non dovrebbe, e non solo per motivi etici, ma perché è (l’unico) mezzo con cui possiamo intervenire sulla nostra realtà, invece che sia lei ad imporsi su di noi. Ma questo purtroppo non succede, o succede troppo poco. 

 

Bisognerebbe, in ultima analisi, riflettere sul significato che ha oggi essere psichiatra del servizio pubblico. Se ti spinge il “posto fisso”, la “vicinanza a casa”. O se piuttosto lo hai scelto perché credi nel suo significato. Nel primo caso è possibile che terrai molto in conto le richieste aziendali (lontane, spesso anni luce, dai bisogni dei pazienti) che accetterai senza troppe difficoltà le pressioni di controllo e custodia sociale, i carichi di lavoro che ti “spremono”, dirai che in fondo è così che funziona.                                                        Nel secondo caso, invece, sentirai che proteggere il senso e la dignità del tuo lavoro tocca i motivi profondi per cui hai scelto di ingaggiarti in questo campo. Dunque, una prospettiva irrinunciabile. E non negoziabile. E allora forse ti batterai, contro le condizioni avverse. Sentirai un destino comune tra te e il tuo paziente. Sentirai, da psichiatra del pubblico, che è tuo compito affrontarle.                                                                                     Sono due posizioni molto diverse, quasi diversi orientamenti esistenziali. Dovremmo chiederci dove stiamo. E verso cosa ci dirigiamo. 

Ognuno si sceglie le battaglie che desidera. O se desidera lottare. Ma per me, chi oggi vuole fare lo psichiatra pubblico deve sapere che questa sfida o la sente dentro, o gli conviene imparare a sentirla, per sua sopravvivenza. Oppure si disinteressi, si abitui al “compitino”, a recepire i dettami aziendali e istituzionali, che con la cura (e l’interesse) per i pazienti hanno (molto) poco a che fare.                                                                                                                                                     Chi, tra i pazienti, in questo non si riconosce, dovrà aver fortuna a trovare il curante che, ancora, trova il modo di garantire dignità e autenticità al suo disagio. E chi, tra gli operatori, vuole affermare la verità delle cose, dovrà risalire la corrente come i salmoni, finchè ne avrà forza.         

Spero che, in futuro, avremo chiare le perversioni a cui, come psichiatri, siamo ogni giorno sottoposti. Quali conseguenze possono avere queste perversioni sui nostri pazienti, e quante su di noi, come persone e curanti. La necessità di non disconoscere le nostre responsabilità, di farci carico, con autorevolezza, passione e coraggio, del nostro percorso e del nostro destino. Che se non ci aiutano i colleghi piu’ grandi, dovremo farlo noi giovani (per sopravvivere).  

 

E soprattutto, che se non lo facciamo, siamo tutti poco autorizzati a lamentarci.    

 

Grazie, sempre, per le tue riflessioni. Mi aiutano a sentirmi meno solo. A ricordarmi che ho scelto la psichiatria per passione. E che la controfaccia della passione, può essere il dolore. E che va bene così. 

 

Uno che nella psichiatria dispnoica, se ci riesce, vuole restare 

 

 

 

Note 

(1) Lettera a un giovane specializzando in psichiatria                                           (http://www.psychiatryonline.it/node/7247) 

 

(2) Una psichiatria dispnoica, esanime, che comunque regge                            (http://www.psychiatryonline.it/node/9682) 

 

(3) Introduzione a “La crisi della Psicopatologia” di Werner Janzarik (https://www.psicologiafenomenologica.it/introduzione-a-la-crisi-della-psicopatologia-di-w-janzarik/) 

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