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Il consenso informato come regola del rapporto medico-paziente
L’evoluzione del rapporto tra medico e paziente rileva sul piano culturale e deontologico, al quale il diritto non è estraneo: infatti “è alla norma giuridica che si chiede di consolidare e rendere effettiva questa evoluzione, anche attraverso l’allestimento di sanzioni per i comportamenti inosservanti del nuovo principio”1. Pertanto, è opportuno iniziare l’analisi partendo dai presupposti giuridici del consenso informato. È diffusa la convinzione che l’acquisizione del consenso informato è un obbligo professionale di rilevanza anche giuridica2. Tuttavia, sono ancora controversi sia gli effetti, sia il fondamento normativo di tale regola, questioni fondamentali la cui soluzione influenza gli ulteriori aspetti delle conseguenze sanzionatorie e della rilevanza del rifiuto opposto dal paziente3. Il consenso informato è un istituto giuridico destinato a costituire il fattore decisivo di innovazione e rifondazione sul piano culturale del rapporto medico-paziente come rapporto interpersonale in cui confrontano il principio di autolegittimazione del medico ed il principio di autodeterminazione del paziente: questi sono, in sintesi, i due poli che caratterizzano le due posizioni e che in un rapporto considerato in termini di giuridica rilevanza ne costituiscono l’unico aspetto di autentico equilibrio o, rectius, di tensione verso un possibile equilibrio4. L’obiettivo, in termini di qualità di contenuti culturali e giuridici, è quello della condivisione di un’esperienza che sia possibile desumere da una documentazione clinica che deve tendenzialmente evolvere a costituire non una cronaca di una malattia, ma la storia di un malato e di un rapporto umano in cui il valore e la dignità della persona, quella del medico e quella del paziente, assumono valenza speciale in un contesto drammatico5. Il consenso informato, per iniziare in medias res, nell’ambito della medicina e chirurgia è stato formalmente riconosciuto come presidio per la tutela del diritto all’integrità fisica e psichica della persona nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nel testo approvato dal Consiglio Europeo di Nizza del 7-9 dicembre 20006 e dunque, dopo i primi due articoli dedicati alla dignità umana e al diritto alla vita, si afferma all’art. 3 in termini assoluti e di primato il “diritto all’integrità della persona”: “1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. / 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: consenso libero e informato della persona interessata”7. Nell’enunciato si possono individuare due profili del diritto di libertà ed alla libertà che sottende necessariamente ogni diritto che non solo sia enunciato ma sia tutelato – e sia concretamente esercitabile, id est politicamente in un contesto autenticamente democratico – e in tutti gli aspetti i cui può essere manifestato per essere integralmente recepito e dunque compiutamente esercitato. Il “consenso libero” sta ad affermare solennemente la facoltà di potersi determinare senza imposizioni e senza ingiunzioni manipolate, senza strumentalizzazioni o scopi più o meno occulti perseguiti in nome di ideologie o regole, che siano in contrasto con il rispetto e la dignità della persona8; è prevista in particolare la possibilità per la persona di autodeterminarsi, cioè di valutare la situazione clinica in cui si trova e che le si prospetta, per fare scelte libere perché consapevoli, tanto più libere in quanto consapevoli, tanto più consapevoli in quanto compiutamente informate9. Questo istituto giuridico ha trovato una generale formalizzazione nella legge n. 145 del 2001 che ha recepito la Convenzione, stipulata ad Oviedo il 4 aprile 1997, sui diritti dell’uomo e la biomedicina, oltre alla conferma con il recepimento della direttiva 2001/20/CE sulla sperimentazione dei medicinali, con la legge n. 211 del 2003 in cui la preoccupazione della tutela del paziente e soprattutto della sua libertà di scelta è un tema centrale risalente, che muove cioè dalla dichiarazione di Norimberga del 1946 e dalla Dichiarazione di Helsinky fin dalla sua prima formulazione nel 1964 nei successivi aggiornamenti da parte dell’Associazione Medica Mondiale10. Anche se la legge 145/2001 non ha avuto modo di conoscere la sua entrata in vigore, non significa che il consenso informato non sia istituto generale del nostro ordinamento giuridico, pur prescindendo dalla considerazione che è previsto in modo anche articolato in varie leggi settoriali11. Va rilevato innanzitutto, che la Convenzione di Oviedo all’art. 33 in particolare comma 4 prevede un’entrata in vigore successiva per i Paesi che non siano tra i primi firmatari e per i quali la stessa è fissata nella data del 1° giorno del mese successivo trascorsi tre mesi dalla data del deposito presso il Segretariato Generale del Consiglio d’Europa della legge di ratifica, di approvazione o accettazione; per gli altri Paesi, primi firmatari, è entrata in vigore il 1° dicembre del 199912. Inoltre in buona parte si può ritenere che siano stati realizzati i presupposti contenuti nella riserva di legge ex art. 3, ad esempio, con la legge n. 6 del 2004 che ha introdotto l’istituto dell’amministrazione di sostegno. E va rilevato che l’art. 2 è un esempio di non trasparenza legislativa. Comunque il consenso informato è da considerarsi istituto facente parte del nostro ordinamento non solo come disciplina di settori specifici, ma come normativa di carattere generale13. Tuttavia per poter affermare ciò basta considerare che lo strumento di ratifica esiste con l’approvazione del Parlamento Italiano, con la sottoscrizione del Presidente della Repubblica del 28 marzo 2003, con la pubblicazione sulla G.U. n. 95 del 24 aprile del 2001: i decreti legislativi di cui al comma tre sono funzionalmente correlati a far scattare una entrata in vigore che non è rilevante per l’ordinamento giuridico italiano, ma lo è per una disposizione convenzionale europea, l’art. 33 della Convenzione, in base alla quale l’Italia con il deposito della ratifica s’impegna formalmente e solennemente, e di fronte alla Comunità Europea, a rispettare e ad applicare nel suo ambito i principi della Convenzione, in modo che possano essere fatti valere nei confronti dello Stato italiano e precisamente, come diritti previsti nell’ambito del suo ordinamento giuridico, da parte di ogni cittadino della Comunità Europea stessa14. Ciò significa che nel nostro ordinamento e nei confronti del cittadino italiano la normativa ratificata e pubblicata sulla G.U. è pienamente applicabile ed efficace, nel senso che quei principi costituiscono patrimonio giuridico positivo del nostro ordinamento per ciò stesso, dunque, il consenso informato è istituto che costituisce principio con una disciplina fondamentale e generale nel contesto del nostro ordinamento15. Il deposito, dunque, presso il Segretariato Generale del Consiglio D’Europa costituisce un’anomalia procedurale che nella sostanza funzionale non pertiene al protocollo di formazione della legge italiana valida per ogni cittadino italiano16. Sul piano sostanziale, il consenso informato è un principio nel nostro corpus iuris e non potrà acquisire nessun valore aggiunto o essere negato per l’imposizione di meri adattamenti o meglio di corollari, che possono richiamare la disciplina del consenso17. Come conseguenza questa norma generale ed istituto giuridico è un precetto di legge che attua formalmente i principi di libertà che si sostanziano nella tutela della salute ed i principi che garantiscono il rispetto della dignità della persona affermati nella nostra Costituzione, in base all’enunciazione che i diritti esistono perché esiste la libertà, positivizzati entrambi, anche se i primi preesistono come diritto naturale18.
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Il consenso informato tra lex artis e causa di giustificazione
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La professione medica si caratterizza, oltre che per l’elevato valore etico e sociale19, anche per l’idoneità ad integrare fattispecie illecite, essendo destinata a realizzarsi sulla persona20. Non a caso, infatti, a fronte della tesi secondo cui le prestazioni sanitaria sono in sé lecite, purché eseguite con l’osservanza delle regole tecniche21, da più parti si è sostenuto che la liceità dell’attività medica è subordinata alla presenza di una causa di giustificazione22. Si tratta della vexata quaestio del fondamento di liceità dell’attività medica, specie chirurgica, ed in particolare, ai fini che qui interessano, del problema se il consenso informato – la cui natura, come già è stato sottolineato, risulta anfibia – si identifichi nella causa di giustificazione prevista dall’articolo 50 c.p. oppure rappresenti una delle leges artis cui il professionista deve attenersi nello svolgimento della propria attività23. Il fondamento della liceità della pratica medica ha una propria ed autonoma rilevanza pratica ed euristica. Infatti, sostenere che la prestazione medica sulla persona, specie se chirurgica, costituisce un fatto illecito, e che quindi il professionista, per non incorrere in responsabilità, deve munirsi del consenso del paziente o comunque accertarsi della sussistenza di altra causa di giustificazione, significa affermare che tale attività è in sé illecita, come lo è, usando un’espressione simbolica, la condotta dell’aggressore “armato di coltello”24. Conseguentemente, la responsabilità del medico dovrebbe essere dichiarata in virtù della prova dell’esecuzione dell’intervento, demandando al professionista la prova della sussistenza di una scriminante, proprio come avviene per l’ “accoltellatore”, che può evitare di essere condannato solo se dimostra la sussistenza di una causa di giustificazione, solitamente la legittima difesa25. Diversamente, se si sostiene che ogni trattamento sanitario sia in sé lecito, in quanto attività riconosciuta e disciplinata dall’ordinamento, la mera esecuzione dell’intervento chirurgico non può essere di per sé fonte di responsabilità. Ne deriva che, per addivenire ad una sentenza di condanna, il p.m. o l’attore in sede civile devono dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità26. Secondo un orientamento consolidato, il consenso informato non ha efficacia scriminante, e quindi non può rientrare nell’art. 50 c.p., perché l’attività sanitaria trova il fondamento della propria liceità nell’esimente dell’esercizio del diritto ex art. 51 c.p.27 Nell’ambito di questa categoria, infatti, il concetto di diritto deve essere inteso nella sua massima estensione, in quanto, se la legge ha valutato un determinato comportamento come conforme ad un interesse meritevole di tutela, il “principio di non contraddizione” impone di non sanzionarlo penalmente perché autorizzato dall’ordinamento giuridico: ciò, a prescindere dall’origine strettamente legislativa oppure interpretativa di tale autorizzazione28. Su questa base è agevole inquadrare l’attività sanitaria nell’ambito dell’esercizio di un diritto, in quanto le prestazioni di carattere medico-sanitario sono autorizzate dall’ordinamento giuridico, che, anzi, obbliga il Servizio Sanitario Nazionale ad erogarle29. Tuttavia, in senso contrario, è stato rilevato che, per quanto riguarda i trattamenti sanitari, il problema non è di giustificare il comportamento del professionista in astratto, bensì le attività che egli pone in essere. Di conseguenza, il criterio di legittimazione deve essere rintracciato nel consenso30. Altro orientamento dottrinale sostiene che la volontà del paziente di sottoporsi al trattamento sanitario è una scriminante sui generis, non codificata, diversa dal consenso dell’avente diritto sotto un profilo sostanziale31. Nell’ambito dell’art. 50 c.p., infatti, il soggetto dispone del proprio diritto in modo insindacabile, potendo scegliere di privilegiare il capriccio anche a discapito di interessi pubblici rilevanti mentre esorbita da quest’istituto, anche qualora siano in gioco solo interessi disponibili, ogni volta che l’effetto scriminante è in funzione di valori collettivi, come appunto accade nell’attività medico-chirurgica, alla quale il paziente acconsente per ottenere un miglioramento delle proprie condizioni di salute, la quale, oltre che suo diritto, è interesse della collettività ex art. 32 Cost.32 In altri termini, secondo questa tesi, la scelta del paziente di accettare il trattamento, costituendo atto dispositivo di un interesse pubblico, esula dalla previsione dell’art. 50 c.p. il quale, riferendosi solo a diritti, ammette che il consenso alla loro lesione o messa in pericolo sia prestato arbitrariamente e senza controlli. In senso contrario, è possibile rilevare che l’art. 50 c.p., riferendosi ad ogni lesione o messa in pericolo, ha un ambito di applicazione generale che trova necessaria specificazione nell’art. 5 c.c.33 Da quest’ultima disposizione si evince che la presenza dell’interesse collettivo connesso alla tutela della salute riduce l’area della disponibilità dell’integrità fisica, subordinandola ad una diminuzione non permanente di questo bene, nonché al rispetto della legge ed alla conformità all’ordine pubblico ed al buon costume, ma non compromette l’insindacabilità delle scelte relative al proprio corpo che rientrino nell’area disponibile in quanto rispondenti ai requisiti contenuti nell’art. 5 c.c.34 Ciò è tanto più evidente se si considera il fenomeno dei tatuaggi e dei piercing, mode che si sono dimostrate potenzialmente pericolose per la salute e che quindi, secondo la tesi criticata, richiederebbero, un consenso non insindacabile in quanto prestato in funzione di un interesse pubblico, ma che invece, sicuramente restano consentite finché non oltrepassino i limiti di cui all’art. 5 c.c.35 Altra critica alla tesi che attribuisce al consenso informato natura di scriminante è stata individuata nel rapporto tra l’art. 50 c.p. e l’art. 5 c.c.36 In proposito, poiché l’art. 50 c.p. si riferisce solo ai diritti di cui il consenziente può disporre e l’art. 5 c.c. vieta “gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica”, se si identificasse il consenso del paziente con la causa di giustificazione dell’art. 50 c.p. la sua efficacia scriminante sarebbe limitata solo agli interventi chirurgici che non riducono in modo permanente l’integrità fisica37. Conseguentemente rimarrebbero nell’area dell’illecito proprio quelle operazioni che, per la loro idoneità ad incidere irrimediabilmente sull’integrità fisica, si presentano più delicate sotto il profilo della responsabilità professionale38. Tuttavia, in senso contrario, il divieto contenuto nell’art. 5 c.c. non sembra applicabile agli atti di disposizione del proprio corpo a scopo terapeutico. Infatti, la rilevanza costituzionale del diritto alla salute induce a ritenere valido il consenso a trattamenti terapeutici che comportano un sacrificio per l’integrità fisica; altrimenti per salvaguardare tale bene si pregiudicherebbe il diritto di curarsi, con evidente fraintendimento della ratio dello stesso art. 5 c.c.39 Pertanto, è parso utile dare del concetto di integrità ex art. 5 c.c. una lettura non limitata alla sola integrità anatomica, ma comprensiva anche del profilo funzionale40. Del resto, anche la Corte Costituzionale ha affermato la liceità di tutti gli atti di disposizione del proprio corpo, se finalizzati alla tutela della salute41. Secondo altra autorevole dottrina, anche a voler accogliere la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 5 c.c, in relazione all’art. 32 Cost., secondo la quale l’atto di disposizione della propria integrità fisica è valido anche quando ne cagioni la diminuzione permanente, purché determini nel complesso un beneficio per la salute della persona, questa interpretazione non vale a dimostrare che il consenso informato rappresenti la causa di giustificazione dell’art. 50 c.p. e quindi sia il fondamento di liceità del trattamento medico42. Infatti, l’infondatezza della tesi che attribuisce efficacia scriminante al consenso del paziente si ricava sia dall’esistenza di trattamenti sanitari considerati obbligatori ex lege, sia dalla indiscussa liceità dell’intervento eseguito su paziente incapace di intendere e di volere, e quindi di consentire, anche a prescindere dalla sussistenza di uno stato di necessità43. Il primo di questi argomenti, secondo cui il consenso del paziente non costituisce fondamento di liceità dell’attività medica perché esistono trattamenti che possono lecitamente essere eseguiti senza consenso, in quanto imposti come obbligatori dalla legge, non sembra confutare la tesi che considera leciti i trattamenti sanitari solo in presenza di una causa di giustificazione, quale, appunto, il consenso dell’avente diritto, ma anche lo stato di necessità e l’adempimento del dovere44. Infatti poiché i trattamenti sanitari obbligatori possono rientrare nell’esimente dell’adempimento del dovere ex art. 51 c.p., la loro esistenza non sembra sufficiente ad affermare con certezza che i trattamenti sanitari siano leciti anche in mancanza di cause di giustificazione. Altrettanto controvertibile appare la rilevanza del secondo argomento, relativo alla liceità dell’intervento senza consenso su paziente incapace di intendere e di volere45. Infatti, questa tesi troverebbe una smentita, nella Convenzione d’Oviedo, la quale stabilisce all’art. 6 che il medico deve acquisire il consenso del legale rappresentante del paziente anche quando quest’ultimo sia incapace di intendere e di volere. Conseguentemente, tale articolo appare compatibile con la tesi dell’illiceità in sé del trattamento medico, la quale può essere scriminata attraverso l’acquisizione del consenso informato del paziente o del suo legale rappresentante46. Dunque, per una più solida confutazione della tesi del consenso come causa di giustificazione, è necessario dimostrare che le pratiche diagnostiche e terapeutiche, anche chirurgiche, siano in sé lecite47. A tal fine, un solido referente normativo sembra rintracciabile nell’art. 9 Cost., ai sensi del quale “la Repubblica promuove (…) la ricerca scientifica”. Essendo difficilmente contestabile che nell’ambito della ricerca scientifica rientrino le attività di sperimentazione clinica, il riconoscimento costituzionale dell’art. 9 Cost. sembra coinvolgere anche tali prestazioni mediche48. Conseguentemente, se è intrinsecamente lecita l’attività di sperimentazione clinica, perché riconosciuta e favorita al più alto livello del nostro ordinamento, appare illogico ritenere che siano, all’opposto, intrinsecamente illecite tutte le altre prestazioni mediche che sono la benefica conseguenza delle sperimentazioni. Tale conclusione trova conforto nell’art. 47 del vigente codice deontologico49. Del resto, in tema di rilevanza pratica, se il consenso del paziente fosse una causa di giustificazione, non codificata oppure rientrante nell’art 50 c.p., e quindi discriminasse l’intrinseca illiceità delle prestazioni mediche, ogni trattamento sanitario costituirebbe un fatto illecito, e quindi la prova del consenso informato del malato sarebbe necessaria al medico per evitare una condanna certa, avendo posto in essere una condotta rientrante nell’area dell’antigiuridicità50. Tuttavia, questa necessaria conclusione appare smentita dal nostro ordinamento e dalla pratica giudiziaria, dove né il p.m., né l’attore contestano la mera esecuzione dell’intervento, bensì chiedono la condanna del medico per aver effettuato un intervento senza valido consenso informato. Difatti, almeno in sede penale, non è il medico a dover dimostrare di aver adempiuto all’obbligo di informazione, bensì è l’accusa a dover fornire la prova della mancanza o l’invalidità del consenso del paziente51. In sede civile, invece, pur essendo controversa la questione dell’onere della prova, la tesi che pone in capo al medico l’onere di dimostrare di aver acquisito dal paziente un valido consenso basa questa conclusione solo sul criterio di vicinanza dell’onere della prova, e non certo sull’intrinseca illiceità del trattamento medico. In altri termini, nella responsabilità professionale, il consenso del paziente non è un elemento estraneo all’addebito di responsabilità civile o penale52. Al contrario, la mancanza del consenso è interna e coessenziale alla responsabilità del medico, al punto che sia il p.m., sia l’attore la allegano a fondamento delle rispettive domande e si curano di fornirne la prova53. Dunque non è il consenso del paziente a rendere lecita una condotta intrinsecamente illecita, bensì è la mancanza del consenso a rendere illecito il trattamento sanitario, che, in quanto espressione di un’attività autorizzata e disciplinata dall’ordinamento, non può che essere lecito finché non si risolva nella violazione di una delle leges artis cui l’ordinamento subordina il corretto esercizio della professione, e tra le quali è compreso il consenso informato del paziente54. A sostegno di questa conclusione vi è un altro argomento logico. Se il consenso informato, invero, fosse una causa di giustificazione, disciplinata dall’art. 50 c.p. oppure non codificata, la sua acquisizione da parte del medico sarebbe un onere, e non un obbligo. Infatti, l’onere è la situazione giuridica in cui si trova il soggetto che pone in essere una determinata attività nel proprio interesse, mentre la posizione giuridica dell’obbligo grava sul soggetto che deve tenere un determinato comportamento per realizzare un interesse altrui55. Dunque, quando la persona che commette una lesione acquisisce il consenso della vittima, lo fa nel proprio esclusivo interesse, perché il consenso del danneggiato le consente di beneficiare dell’applicazione della causa di giustificazione ex art. 50 c.p. Diversamente, il medico che informa il paziente in ordine al rapporto costi-benefici del trattamento cui intende sottoporlo e ne riceve il consenso, agisce in adempimento di un preciso obbligo di informazione perché realizza non già il proprio esclusivo interesse, bensì il diritto del paziente di scegliere consapevolmente a quali terapie sottoporsi56. Peraltro, il fatto che l’informazione e l’acquisizione del consenso siano uno obbligo, e non un onere, del medico è coerente con la natura contrattuale del rapporto medico-paziente. Conseguentemente, si parla di consenso inforamto come leges artis cui ogni medico deve attenersi57. In questa prospettiva, la giurisprudenza parla di “autolegittimazione” della professione medica in considerazione del fatto che la prestazione del professionista rappresenta il mezzo per tutelare la salute del paziente, quindi, il mezzo mediante il quale concretizzare il diritto di quest’ultimo58. Quindi il consenso sembra necessario non perché l’attività svolta dal professionista sia di per sé illecita, ma perché è illecita qualsivoglia attività che intervenga a limitare la libertà di autodeterminazione del soggetto riguardo gli atti che incidono sulla propria integrità fisica59.
1 F. Giunta, “Il consenso informato all’atto del medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2001; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
2 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110.
3 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110.
4 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110.
5 AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19.
6 La Carta è inserita integralmente nella Costituzione Europea, ratificata dal Parlamento Italiano con legge n. 57/2005. Si veda AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
7 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
8 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
9 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
10 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
11 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
12 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
13 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
14 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
15 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
16 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
17 AA. VV., op. cit., 110 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
18 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
19 Lo dimostra il fatto che il riconoscimento del diritto alla salute ed il divieto di trattamenti sanitari obbligatori non espressamente previsti dalla legge sono contenuti nel Titolo II della nostra Costituzione, rubricato “Rapporti etico-sociali”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
20 Si veda: R. Cataldi, C. Matricaldi, F. Romanelli, S. Vagnoni, V. Zatti, “Il consenso informato: diritto del paziente e difesa per il medico”, Rimini, 2007; R. De Matteis, “La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile”, Padova, 1995; A. Santosuosso, “Il consenso informato”, Milano, 1996.; G. Cattaneo, “Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico”, in Riv. Trim. Dir. proc. Civ., 1957, pag. 949 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 20 ss.
21 R. Romanese, “Il diritto di sanare”; G. Iadecola, “In tema di rilevanza penale – come delitto doloso contro la vita e l’incolumità individuale – del trattamento medico eseguito senza il consenso del paziente”, in Riv. It. Med. Leg., 2001.
22 F. Mantovani, “I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero”, Padova, 1974; F Mantovani, “Diritto penale. Parte generale, Padova, 2001; A. Baldassarri, “La responsabilità civile del professionista”, Milano, 1993; M. Bilancetti, “La responsabilità penale e civile del medico”, Padova, 2003.Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
23 Si veda: F. Introna, “La responsabilità professionale nell’esercizio delle arti sanitarie, Padova, 1955; G. Vassalli, “Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico”, in Arch. Pen., 1973; A. Manna, “Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico”, Milano, 1984; G. Iadecola, “ Potestà di curare e consenso informato”, in AA.VV, Padova, 1998. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss..
24 L’equiparazione del bisturi al pugnale si può leggere in M. Polvani, “Indicazioni giurisprudenziali e considerazioni critiche sul consenso all’attività medica”, in Foro it., 1996. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
25 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
26 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
27 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
28 F. Mantovani, “Eserc. Dir. (dir. pen)”, in Enc. Dir., Milano, 1996. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20.
29 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
30 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
31 Secondo G. Vassalli, “Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico” esistono “nel sistema vigente principi positivi, aventi valore normativo, ricavabili per analogia dal sistema delle cause di giustificazione, in forza delle quali il trattamento medico-chirurgico si impone di per sé stesso, quando sia condotto in vista di supreme esigenze della salute del paziente e secondo la lex artis, come una fonte di discriminazione del fatto”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
32 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.; C. Pedrazzi, “Consenso dell’avente diritto”, in Enc. Dir., vol. IX, Milano, 1961, 44.
33 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
34 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
35 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
36 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
37 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
38 Si veda in giurisprudenza: Cass. civ., Sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364, Cass. pen., Sez. I, 29 maggio-11 luglio 2002, n. 26446. In dottrina: G. Vassalli, “ Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico”, in Arch. Pen., 1973, 951; A. Manna, “Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico”, Milano, 1984, 30; G. Cattaneo, “Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico”, op. cit., 951; A. De Cupis, “Integrità fisica”, Roma, 1993 e “I diritti della personalità”, Milano, 1982. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
39 In proposito, la Relazione ministeriale sul codice civile fa esplicito riferimento alle “operazioni chirurgiche” solo nella parte al divieto di atti di disposizione in contrasto con la legge, con l’ordine pubblico e con il buon costume. Peraltro, la Relazione richiama interventi chirurgici per affermare la validità; infatti, se il codice stabilisse che tali attività “sono nulle si verrebbe ingiustamente a privare del compenso colui che si sia sottoposto a simili esperimenti od operazioni pattuendolo preventivamente”. Invece, quando la Relazione passa a considerare il divieto di diminuzione permanente dell’integrità fisica, afferma: “La norma, quindi, appare idonea a tutelare una imprenscindibile esigenza di carattere morale e sociale, in perfetta aderenza col sentimento pubblico che, mentre vede con simpatia gli atti di disposizione che senza menomazione dell’integrità personale giovano ad altri, come nel caso della trasfusione del sangue ed in quello del trapianto di pelle, resta invece turbato di fronte ad atti che diminuiscono la capacità fisica del soggetto”. Di conseguenza, sembra che la funzione dell’art. 5 c.c. sia di limitare gli atti di disposizione del proprio corpo che vanno a beneficio esclusivo di terzi, e non anche quelli che sono nell’interesse dello stesso disponente; in tal senso, F. Albeggiani, “Profili problematici del consenso dell’avente diritto”, Milano, 1995, 85 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
40 Si veda: R. Riz, “Il consenso dell’avente diritto”, Padova, 1979, 319 ss.; F. Mantovani, “I trapianti e la sperimentazione umana”, Padova, 1974, 100. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
41 Corte cost., 24 maggio 1985, n. 161, in Foro It. 1985, la quale ha dichiarato la legittimità costituzionale della legge 14 aprile 1982, n. 164, sulla rettificazione della attribuzione di sesso, in quanto “la natura terapeutica che la scienza assegna all’intervento chirurgico e che la legge riconosce (…) ne esclude l’illiceità, mentre le norme che lo consentono, dettate a tutela della persona umana e della sua salute, fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, non offendono per certo i parametri costituzionali invocati”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
42 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
43 G. Iadecola, “Ancora in tema di rilevanza penale del consenso (e del dissenso) del paziente nel trattamento medico chirurgico”, in Cass. Pen., 2003. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
44 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
45 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
46 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
47 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
48 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
49 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
50 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
51 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
52 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
53 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
54 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
55 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
56 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
57 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
58 Si veda Cass. Civ.,Sez. III, n. 7027 del 2001, in cui la Suprema Corte sostiene che “l’attività medica trova fondamento e giustificazione, nell’ordinamento giuridico, non tanto nel consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), come si riteneva in passato, poiché tale opinione di per sé contrasterebbe con l’art. 5 c.c., in tema di atti di disposizione del proprio corpo, ma in quanto essa stessa legittima, volta essendo a tutelare un bene costituzionalmente garantito, quale è quello della salute”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
59 A. Lanotte, “L’obbligo di informazione: adempimento di un dovere burocratico?” in “Danno e responsabilità”, 2006; G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
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