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L’attualità
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Il requisito dell’attualità è funzionale all’esigenza di garantire la genuinità e l’effettività della volontà manifestata dal paziente, in quanto il consenso o il dissenso, pur informati, espressi a distanza di tempo dall’esecuzione del trattamento potrebbero non rispecchiare più la reale volontà del paziente la momento dell’intervento1. Tuttavia, l’esclusione generalizzata di ogni rilevanza della volontà pregressa del paziente rischia di compromettere la libertà di autodeterminazione, e quindi, sostanzialmente, di risolversi in una contraddizione della stessa esigenza di fondo che ha portato all’elaborazione dell’attualità come requisito di validità del consenso2. Le “direttive anticipate”, al pari di altre analoghe, seppur non coincidenti, locuzioni come “testamento biologico”, “testamento di vita”, “manifestazione anticipata di volontà” ed altre, consistono in una dichiarazione scritta con la quale una persona, dotata di capacità piena, naturale e giuridica, esprime la propria volontà circa i trattamenti, anche non urgenti, ai quali desidererebbe o rifiuterebbe di essere sottoposta nel caso in cui, a causa del decorso di una malattia o di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato3. Già da questa definizione, seguita dalla Convenzione di Oviedo, emerge che le direttive anticipate hanno il compito di recuperare, nei limiti del possibile, anche nelle situazioni di incomunicabilità, causata dall’incapacità decisionale del malato, il ruolo che ordinariamente viene svolto dal dialogo informato tra questi ed il medico, con lo scopo di evitare che l’impossibilità per il paziente di esprimersi possa indurre i medici a considerarlo, anche inconsapevolmente, non più come una persona con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto come un corpo4. Così anche la manifestazione anticipata di trattamento5. Di conseguenza, le dichiarazioni anticipate, così come le manifestazioni di volontà assunte dal malato nell’imminenza della terapia da praticare, non possono porsi in contrasto con il diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica o con la deontologia, né imporre al medico prestazioni che egli considera, in scienza ed in coscienza, inaccettabili6. In materia le Regioni non possono legiferare. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Toscana 15 novembre 2004, n. 63, secondo cui “Ciascuno ha diritto di designare la persona a cui gli operatori sanitari devono riferirsi per riceverne il consenso a un determinato trattamento terapeutico, qualora l’interessato versi in condizione di incapacità naturale e il pericolo di un grave pregiudizio alla sua salute o alla sua integrità fisica giustifichi l’urgenza e indifferibilità della decisione”, e dell’art. 8 della medesima legge, il quale disciplina il procedimento per rendere le dichiarazioni di volontà indicate dall’art. 77. Secondo la Corte Costituzionale, infatti, nelle citate disposizioni “il legislatore regionale ha ecceduto dalle proprie competenze, regolando l’istituto della rappresentanza che rientra nella materia dell’ordinamento civile, riservata allo Stato, in via esclusiva, dall’art. 117 Cost., secondo comma, lettera l), della Costituzione”8. Pertanto, nella disciplina delle direttive anticipate le singole Regioni non possono apportare alcun contributo, almeno fino a quando il legislatore non detterà una prima regolamentazione. Un più significativo riconoscimento della rilevanza delle direttive anticipate è stato sancito dall’art. 38, ultimo comma, del vigente codice deontologico, secondo cui “Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”9. Al problema dell’efficacia giuridica delle direttive anticipate è stata una prima risposta sono nel 200110., con la ratifica della Convenzione di Oviedo, la quale all’art. 9 ha stabilito che il medico deve prendere i considerazione “i desideri precedentemente espressi dal paziente”, in ordine a trattamenti sanitari che, nel momento in cui si rendono necessari, egli non è più in grado né di accettare né di rifiutare11.Tuttavia, sia la previsione del codice di deontologia, sia la Convenzione di Oviedo lasciano il dubbio se tali dichiarazioni anticipate di volontà abbiano per il medico efficacia vincolante o meramente orientativa12. Autorevole dottrina rileva come, a prescindere dall’eventuale presenza di testimonianze concordi e di documenti da cui risulti la chiara determinazione del paziente in periodo anteriore alla perdita di coscienza, sia necessario escludere la possibilità di attribuire valore vincolante ad una manifestazione di volontà non attuale e non ricevuta direttamente dal sanitario13. Quest’ultima impostazione evidenzia come l’attualità sia un requisito indispensabile di validità della scelta operata dal paziente in ordine ai trattamenti sanitari: il consenso ed il rifiuto esternati quando la persona è ancora sana possono essere meno ponderati e consapevoli, anche perché fondati su un’informazione approssimativa14. Di conseguenza, quando il paziente non è in grado di esprimere direttamente al medico la propria disapprovazione nei confronti della scelta terapeutica, costui, in virtù della posizione di garanzia che ricopre, ha l’obbligo di esperire tutte le metodiche necessarie a salvaguardare la salute del paziente15. Tuttavia, l’obiezione relativa alla mancanza di attualità delle direttive anticipate è stata efficacemente criticata dal Comitato nazionale di bioetica con tre rilievi. Innanzitutto, è evidente che le dichiarazioni di volontà, redatte in previsione di una malattia e della incapacità naturale, hanno un contenuto contingente, che potrebbe non essere più condiviso in futuro16. Pertanto, se la persona decide di formalizzarle in un documento scritto, si assume il rischio che quelle scelte possano non rappresentare più le sue reali aspirazioni nel momento i cui si rendesse necessario il trattamento anticipatamente accettato o rifiutato17. Appare illogico ritenere che l’esistenza di questo rischio, che la persona decide di correre coscientemente, debba operare nel senso di togliere validità alle sue indicazioni18. In secondo luogo, esigere che la manifestazione del consenso o del rifiuto sia valida solo se attuale rispetto all’atto medico da eseguire, equivale ad affermare che la volontà del paziente debba essere rispettata fin quando costui, pienamente cosciente, sia in grado di ribadirla, con la conseguenza inaccettabile che questa impostazione induce a legittimare una logica di paternalismo medico proprio nei confronti di quei soggetti che, con la firma su un documento, hanno dimostrato di tenere in modo particolare alla loro autonomia19. Dunque, appare inopportuno, sul piano metodologico e su quello delle conseguenze concrete, spingersi al punto di non tenere in considerazione la libertà di autodeterminazione della persona, per evitare il rischio che la scelta espressa nelle direttive anticipate possa divergere da quella che il paziente avrebbe fatto in presenza dello stato morboso20. Infine, le direttive anticipate, come tutte le dichiarazioni di volontà in ordine ai trattamenti sanitari, sono revocabili o modificabili fino all’ultimo momento precedente la perdita della consapevolezza. Pertanto il mancato esercizio del diritto di revoca rende sostanzialmente attuale la scelta anticipata21. Del resto, attribuire rilevanza alle direttive anticipate appare necessario sia per non discriminare il soggetto incapace di intendere e di volere rispetto al paziente capace, sia per ragioni di coerenza del sistema. Infatti, la dottrina considera “intollerabile che, una volta, posto a base della bioetica il principio del consenso informato, continuino a sussistere delle condizioni per cui un soggetto sia all’improvviso non solo privo di diritti, ma addirittura ridotto a mero oggetto delle decisioni altrui22. Tuttavia, i dubbi sul carattere vincolante delle dichiarazioni anticipate riguardano non solo il profilo della loro attualità, ma anche quello della loro idoneità a rappresentare una valida manifestazione della volontà sotto il profilo della consapevolezza23. Un argomento significativo, contrario, alla valenza obbligatoria delle dichiarazioni anticipate sta nella loro inevitabile astrattezza, intesa come incapacità di tenere conto dell’effettiva situazione clinica ed esistenziale nella quale potrebbe in futuro trovarsi il soggetto che le redige24. Infatti, la sua difficoltà di esprimere correttamente le situazioni cliniche, in riferimento alle quali intende formalizzare la propria volontà, può essere fonte di ambiguità nelle indicazioni e, quindi, di dubbi al momento della loro applicazione25. Inoltre occorre considerare il fatto che il medico non può informare il paziente, né quest’ultimo può chiedere chiarimenti sui vantaggi o gli svantaggi della prestazione che egli richiede26. Non a caso l’art. 9 della Convenzione di Oviedo usa il termine “wishes”, che, al contrario di parole più incisive come “choices” o “decisions”, non richiama affatto l’idea di desideri imposti a terzi. Dunque, l’interpretazione che appare più ragionevole è quella secondo cui l’interessato vuole che i suoi desideri siano rispettati, ma a condizione che conservino la loro attualità, ossia solo nel caso che ricorrano le condizioni da lui stesso indicate27. D’altronde il medico ha l’obbligo di verificare che le indicazioni contenute nel documento siano compatibili con la situazione presente e siano ancora valide, sul piano della consapevolezza delle scelte, riservando particolare attenzione al progresso tecnologico realizzatosi dopo la redazione delle direttive28. Di conseguenza, per tutelare l’autonomia di tutti i soggetti coinvolti, appare saggio attribuire alle dichiarazioni anticipate di trattamento un carattere non aprioristicamente vincolante, né meramente orientativo: in concreto, il medico non può eseguire meccanicamente i desideri del paziente, avendo invece “l’obbligo di valutarne l’attualità in relazione alla situazione clinica di questo ed agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica che possano essere avvenuti dopo la redazione delle dichiarazioni anticipate o che possa sembrare palese che fossero ignorati dal paziente29. Difatti, l’efficacia vincolante delle direttive è sconsigliata sia dal pericolo che la concreta situazione clinica differisca, anche solo parzialmente, da quella ipotizzata dall’interessato nel momento della redazione delle direttive, sia dalla probabilità che un progresso tecnologico non pienamente conosciuto dal paziente renda non più attuale e autenticamente consapevole la dichiarazione anticipata30. Non merita, dall’altra parte, di riconosciuto neanche il valore meramente orientativo, poiché in questo modo si lascerebbe al medico un piena libertà decisionale ed operativa che comporterebbe il conferimento di un potere paternalistico e lo svuotamento di senso delle dichiarazioni anticipate, prive di applicazione pratica31. Secondo un autorevole dottrina, la validità delle advanced directives non appare inconciliabile con il nostro modello costituzionale, purché esse non arrivino a soppiantare ogni indagine sugli interessi attuali della persona incapace32. Infatti, lo stato di incapacità naturale non sminuisce il valore del rifiuto anticipato, ma investe il medico del compito di “sincerarsi circa l’effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle cure. Il medico dovrà tener conto della precedente dichiarazione del malato (…) per valutare se in essa sia riconoscibile un dissenso effettivamente riferito al caso concreto”33. Nello svolgimento di questa verifica, egli deve accertare se vi sia corrispondenza tra il contenuto della direttiva e le peculiarità della fattispecie concreta ossia se esista un’identità tra il tipo di trattamento da eseguire e quello rifiutato attraverso la dichiarazione anticipata34. Un punto su cui la dottrina entra in collisione con l’elaborazione del Comitato Nazionale per la Bioetica è rappresentato dalla forma delle direttive anticipate35. Secondo il Comitato, essa deve essere necessariamente scritta, in quanto riconoscere validità anche alle dichiarazioni orali darebbe luogo a riserve sulla loro effettiva ponderazione, ed implicherebbe difficoltà circa la loro prova perché richiederebbe l’audizione delle persone che sono a conoscenza delle preferenze del paziente in campo sanitario, nonché una pur sommaria valutazione delle attendibilità di questi testimoni36. Tuttavia, secondo l’orientamento prevalente giurisprudenziale, le direttive anticipate non possono essere rilevanti per la mancanza di attualità. In conclusione, occorre tenere presente che se non è valido il consenso disinformato, allo stesso modo dovrebbe essere considerata invalida la manifestazione anticipata di trattamento dalla quale non risulti che l’interessato era a conoscenza dei dati che il medico gli avrebbe comunicato per consentirgli di esercitare in piena consapevolezza la libertà di autodeterminazione37. Di conseguenza, affinché la direttiva sia valida e possa quindi influire sulle scelte del medico, dovrebbe essere necessario il dialogo e lo scambio di informazioni tra l’interessato ed il medico, che non può essere il medico generico, se la dichiarazioni anticipata ha ad oggetto prestazioni specialistiche. Tuttavia, in concreto, questa regola può essere disattesa se per la semplicità del caso, per la conoscenza delle sue caratteristiche da parte dell’interessato o per altro motivo, la consapevolezza della scelta non richiede l’ordinaria opera di informazione da parte del professionista38.
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La capacità naturale
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Fino ad ora si è, in parte, sottinteso un dato fondamentale – anticipato nel paragrafo dedicato alle “Eccezioni alla regola del consenso del paziente” – specialmente per addivenire alla trattazione del cuore del tema in oggetto: perché il paziente possa esercitare validamente la libertà di autodeterminazione deve essere capace di intendere e di volere39. Dunque, altra situazione in cui emerge la delicatezza dell’esercizio della professione medica, nel suo aspetto medico-legale, si ha nei casi in cui la persona bisognosa di cure, pur legalmente capace, non sia in grado di condividere le proposte terapeutiche o di rifiutarle40. In tale evenienza, il medico può essere chiamato a rispondere di trattamento arbitrario, che ha rilevanza anche penale, per aver praticato un intervento senza verificare la possibilità per il paziente di recuperare la capacità di intendere e volere e di esprimere un valido consenso41. Di conseguenza, è opportuno stabilire quali sono i comportamenti che il medico deve adottare e quali quelli da cui astenersi. La dottrina medico-legale, in proposito, ha introdotto una criteriologia valutativa fondata su tre parametri: la reversibilità dello stato di incapacità; la gravità e le potenzialità evolutive della malattia; l’utilità e la procrastinabilità dell’intervento42. Dal concorso di questi tre fattori si ricava l’individuazione dei casi in cui l’agire medico è doveroso. Il primo profilo riguarda l’accertamento del carattere non transitorio dello stato di incapacità, ossia il medico deve verificare se quest’ultimo non possa modificarsi in tempo utile affinché il malato sia in grado di esprimere la sua volontà43. Il secondo attiene all’idoneità della condizione clinica del paziente ad evolvere in un danno irreversibile per la sua integrità fisica. La terza variabile, invece, tiene conto dell’eventuale possibilità di posticipare il trattamento. Quando il paziente è esposto ad un pericolo concreto per la vita, o ad un grave pregiudizio per la sua salute, ed il suo stato di incapacità sia irreversibile o comunque persistente, il medico non deve lasciarsi condizionare dalla necessità di ottenere il consenso informato al trattamento44. Infatti, l’obbligo di curare trova il proprio limite nella difforme volontà del malato, la quale non può riscontrarsi in tali ipotesi perché egli non è in grado di formare il proprio convincimento45. Una stabile condizione di incapacità, tale da rendere ragionevolmente inutile il differimento del trattamento, dovrebbe determinare in capo al medico l’obbligo di intervenire anche nei casi in cui il danno al paziente sia solo lieve e temporaneo, purché ovviamente il rapporto tra costi e benefici resti vantaggioso per il malato46. Lo stesso obbligo opera nei casi in cui il rinvio del trattamento, nonostante il carattere transitorio dello stato di incapacità, sia impedito dall’urgenza della situazione clinica. Se, invece, è possibile rinviare la prestazione terapeutica, in quanto non necessaria nell’imminente, e sussiste la possibilità, scientificamente fondata, che il paziente torni compos sui, è obbligo del medico aspettare47. Se il malato recupera la capacità prima che l’evoluzione della patologia renda necessario un trattamento finalizzato ad evitare un pregiudizio alla salute, il medico gli dà l’opportunità di scegliere se essere informato e, conseguentemente, se acconsentire o meno alla proposta terapeutica. Se, invece, l’evoluzione dello stato morboso matura quando il malato non è ancora capace di decidere, l’obbligo di cura non incontra ulteriori limitazioni48.
1 G. M. Vergallo, op. cit., 172 ss.
2 G. M. Vergallo, op. cit., 172 ss.
3 A. Santosuosso, “A proposito del “living will” e di “advance directives”: note per il dibattito”, in Pol. Dir., 1990, 484; S. Amato, “Le dichiarazioni anticipate di trattamento”, in AA. VV., 441 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 172.
4 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
5 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
6 Comitato Nazionale per la Bioetica, “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, in “Bioetica”, 2005, 122 ss., precisa che il diritto di scegliere, in previsione dell’eventuale perdita della capacità naturale, quali trattamenti consentire o rifiutare non può essere interpretato come riconoscimento del diritto all’eutanasia o del diritto soggettivo del paziente a morire, in quanto equivale esclusivamente al “diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente, ove capace, avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
7 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
8 Corte Costituzionale, n. 253/2006. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
9 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
10 Pret. Roma, 3 aprile 1997; A. Vallini, “Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1998, 1432. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
11 La versione inglese dell’art. 9 dispone che “The previously expressed wishes relating to a medical intervention by a patient who is not, at the time of the intervention, in a state to express his or her wishes shall be taken into account”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
12 S. Amato, “Le dichiarazioni anticipate di trattamento”, op. cit., 445. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
13 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
14 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
15 E. Palermo Fabris, “Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale. Profili problematici del diritto all’autodeterminazione”, op. cit. 213- 214; M. Barbos Portigliatti, “Diritto di rifiutare le cure”, op. cit., 33, secondo il quale si può presumere che in genere l’istinto di conservazione prevalga di fronte alla morte incombente, e che quindi il malato avrebbe acconsentito se si fosse trovato in stato di capacità. Inoltre, il Comitato Nazionale per la Bioetica considera che le dichiarazioni anticipate non possono assolutamente essere intese come una pratica da utilizzare per indurre o per facilitare logiche di abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto. Infatti, le indicazioni fornite dal paziente, sebbene espresse in forma generica, non possono mai essere applicate burocraticamente ed acriticamente, essendo richiesta sempre una contestualizzazione nella concreta situazione clinica del singolo paziente. Del resto, anche in presenza di un rifiuto attuale, il medico non è esonerato dall’obbligo di prospettare le eventuali terapie alternative a quella respinta e di tentare, attraverso il dialogo, di convincere il paziente ad accettare il trattamento proposto. Il fondamento di questi due obblighi risiede non solo nell’esigenza di evitare una frettolosa desistenza da parte del medico, ma anche nella necessità di verificare se sia veramente consapevole e radicato il dissenso del paziente. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
16 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
17 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
18 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
19 G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
20 In queste situazioni, essendo comunque necessario decidere se intervenire o desistere dall’iniziativa terapeutica, l’alternativa è tra attenersi alle indicazioni espresse dalla persona quando era ancora nel pieno possesso delle sue facoltà, o disattenderle perché vi è la possibilità che l’interessato abbia mutato opinione nel lasso di tempo tra la dichiarazione e la perdita di coscienza. Nella valutazione di quest’alternativa appare utile tenere presente che il cambiamento della decisione è solo un rischio, in quanto la certezza si può avere solo nel momento in cui il soggetto non provveda alla modifica o alla revoca dell’originaria direttiva. Appare necessario che ogni cambiamento di contenuto della direttiva avvenga nella stessa forma con la quale questa era stata espressa. Infatti, appare arbitrario ritenere di poter dimostrare il mutamento della scelta attraverso le pur numerose ed univoche testimonianze dei parenti, le quali finirebbero in questo modo con il prevalere sul contenuto di un documento redatto direttamente dall’interessato. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
21 F. Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, op. cit., 381, considerando invalida una manifestazione di volontà non contestuale rispetto all’esecuzione del trattamento, si finisce con l’interpretare il requisito dell’attualità “in senso meramente e necessariamente cronologico”, quando invece non vi sono ostacoli per intendere l’attualità “in senso logico”, valorizzando la mancata revoca della precedente dichiarazione di volontà. Questa dottrina rileva, altresì, che una conferma della vincolatività per il medico della direttiva anticipata logicamente, anche se non cronologicamente, attuale deriva dall’art. 4 della legge 91/1999, in materia di trapianti da cadavere, la quale, pur introducendo una “presunzione di consenso”, tramite il meccanismo del silenzio-assenso, consente alla persona di evitare l’espianto post mortem semplicemente con una manifestazione di rifiuto che rimane sempre valida e vincolante pur essendo di molti anni antecedente al decesso. P. Frati, M. Arcangeli, “Facoltà di curare e autodeterminazione del paziente”, Torino, 2002, 40, evidenziano come sia contraddittorio negare la rilevanza giuridica delle dichiarazioni anticipate e riconoscere valore alla volontà testamentaria o alla scelta di donare gli organi dopo la morte. In senso contrario, S. Tommasi, “Consenso informato e disciplina dell’attività medica”, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2003, 561, considera rischioso inferire dalla disciplina dei trapianti da cadavere conseguenze interpretative di carattere generale, poiché l’esigenza cui risponde lo strumento di silenzio-assenso appare talmente peculiare e settoriale da impedire di trarne indicazioni utili per la soluzione del problema dell’attualità delle direttive anticipate. Questo perché, nei trapinati da cadavere, l’eventuale divergenza tra la volontà formale, risultante dal pregresso rifiuto o dal silenzio-assenso, e quella effettiva non incide sulla vita o sulla salute della persona, essendo già deceduta, mentre negli altri trattamenti sanitari l’accertamento della reale intenzione del malato al momento dell’esecuzione della prestazione invasiva costituisce esigenza di ben altra delicatezza perché in gioco è l’integrità fisica e spesso persino la sopravvivenza del paziente. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
22 S. Amato, “Le dichiarazioni anticipate di trattamento”, op. cit. 444; L. Balestra, “Il testamento biologico nell’evoluzione del rapporto medico-paziente”, in Fam. Pers. Succ., 2006, 102. G. M. Vergallo, op. cit., 175 ss.
23 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
24 G. M. Vergallo, op. cit., 176 ss.
25 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
26 S. Amato, ne “Le dichiarazioni anticipate di trattamento”, op. cit., 447, sostiene “il medico, paradossalmente, si trova a curare, più che una persona che soffre, un documento redatto in forma legale ed il paziente si trova ad essere garantito ed assistito, piuttosto che da un medico, da qualche riga di un atto”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
27 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
28 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
29 Comitato Nazionale per la Bioetica, “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, 14. Si veda G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
30 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
31 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
32 F. Businelli, “Bioetica e diritto privato”, Torino 2001, 27. Si veda G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
33 A. Vallini, ne “Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la bioetica”, in Dir. Pubbl., 2003, 13, spiega ulteriormente che la sopravvenuta incoscienza non può determinare la rottura del principio dell’eccezionalità dei trattamenti contra voluntatem, avendo solo l’effetto di rendere più difficile l’accertamento dell’esistenza di un reale dissenso nel caso concreto.
34 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
35 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
36 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
37 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
38 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.
39 G. M. Vergallo, op. cit. 137 ss.
40 G. M. Vergallo, op. cit. 137 ss.
41 Anche la scelta di procrastinare il trattamento nell’attesa che il paziente recuperi le sue capacità cognitive può essere fonte di responsabilità per il sanitario qualora ne derivi un danno o, peggio, la morte del paziente, temporaneamente incapace. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.
42 D. Rodriguez, “Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico. Note sulla sentenza del 10 ottobre 1990 della Corte D’Assise di Firenze”, op. cit. 1143. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.
43 G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.
44 G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.
45 D. Rodriguez, ne “Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico. Note sulla sentenza del 10 ottobre 1990 della Corte D’Assise di Firenze”, op. cit., 1143, evidenzia come il riconoscimento dell’obbligo del medico di intervenire nelle situazioni di incapacità non tempestivamente reversibili, non equivale a legittimare i trattamenti sanitari arbitrari, in quanto il medico in questi casi si assume anche la responsabilità dell’esistenza dei presupposti che lo obbligano ad omettere la procedura di informazione ed acquisizione del consenso, ossia l’irreversibilità in tempo utile dello stato di incapacità e l’impossibilità di rinviare il trattamento in quanto il differimento lo renderebbe inefficace. A sostegno di quest’impostazione si può rilevare che, ferma restando ovviamente la responsabilità in relazione all’indicazione del trattamento ed alle modalità della sua realizzazione, quando si esegue una prestazione terapeutica che sarebbe pericoloso per il paziente procrastinare in attesa che questi recuperi le capacità di autodeterminarsi, è improprio parlare di violazione della regola del consenso informato. Infatti, l’acquisizione del consenso non è possibile nei casi di incapacità persistente ed inutile, se non dannosa, nelle ipotesi di irreversibilità in tempo utile dello stato di incapacità o di rinvio pericoloso del trattamento. Pertanto, in tali circostanze, l’intervento del medico non rappresenta una violazione della regola del consenso, bensì l’adempimento di un obbligo di diligenza professionale che trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare che la regola del consenso si rivolga a danno dello stesso soggetto che invece ne dovrebbe beneficiare, ossia del paziente. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
46 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
47 F. Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, op. cit., 383, secondo il quale è in concreto improbabile che il differimento del trattamento possa avvenire senza pregiudizio per la salute del paziente, in quanto il decorso del tempo aumenta il rischio per il soggetto bisognoso di cure. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
48 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
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