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La posizione di garanzia dello psichiatra: condotta attiva o omissiva?

21 Giu 23

Di FRANCESCO BOLLORINO

13.1.1. La posizione di garanzia dello psichiatra: condotta attiva o omissiva?

Ora, alla luce delle coordinate fornite, di carattere generale, è possibile inquadrare la “posizione” occupata dallo psichiatra, il quale, come già è stato detto, giuridicamente veste il ruolo di “garante”, a carattere terapeutico, nei confronti del suo paziente ed è titolare di un obbligo di intervento finalizzato alla tutela della salute sia individuale che collettiva1, a prescindere dal paziente: sia egli sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio, oppure abbia egli chiesto o accettato di ricoverarsi2. La posizione dello psichiatra è soggetta agli stessi limiti e confini di quella del medico, senza cioè che l’incidenza della patologia sull’organo-mente possa di per sé consentire allo psichiatra prevaricazioni o sconfinamenti di matrice paternalistica3. Va innanzitutto ricordato, preliminarmente, che nell’ambito del diritto penale della medicina, la responsabilità omissiva trova il suo referente normativo nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 30 dicembre del 1992, n. 502, che attribuisce al Servizio Sanitario Nazionale, e conseguentemente a tutto il personale sanitario che presti servizio nel suo ambito, il compito della tutela della salute dei cittadini, ovvero nel contratto terapeutico concluso, al di fuori del S.S.N., tra medico e paziente4. I poteri giuridici effettivi impeditivi che accompagnano il garante vanno ricondotti alle specifiche competenze ed al ruolo da questi rivestito all’interno dell’organizzazione in cui è chiamato ad operare ed in assenza di questi si ravviserà un obbligo di attivarsi ovvero un semplice obbligo di sorveglianza, irrilevanti ai sensi dell’art. 40, comma 2 c.p., della cui violazione si può essere chiamati a rispondere soltanto ove questa sia espressamente prevista da una norma incriminatrice quale reato di pura omissione. Inoltre, basterebbe invocare gli artt. 2 e 32 Cost. per trovare sempre una responsabilità automatica ed immediata in capo ad un operatore sanitario5. È bene ricordare che dalla posizione di garanzia del medico segue un fascio di obblighi, alla cui delimitazione, soprattutto nelle modalità di esecuzione, contribuisce, alla luce del principio consensualistico che informa e legittima, ex art. 32 Cost., l’attività medica, la volontà espressa da un paziente capace: al cospetto di quest’ultimo, la posizione di protezione del medico, da cui scaturisca un obbligo impeditivo dell’evento ex art. 40, comma 2 c.p., sorgerà in forza di una libera scelta del soggetto “garantito”, e nei limiti in cui il soggetto stesso, affidandosi al garante, si sia riconosciuto incapace di provvedere a sé ed alla propria salute6. In concreto, la moderna psichiatria oggi fa prevalentemente ricorso a farmaci, la cui efficacia terapeutica è variabile notoriamente “e non sicuramente prevedibile”, non essendo in grado “di garantire né la guarigione dei pazienti, né, per lo più, l’arresto di progressione della malattia e neppure la prevenzione da gesti auto- o eteroaggressivi”7. Senza dimenticare la “pericolosità, per il paziente, delle dosi elevate e delle associazioni farmacologiche, produttive di sinergismi tossici”, che porta a ritenere “la gestione farmaco-terapeutica di malati per natura disubbidienti non solo a domicilio, ma anche negli ospedali o nelle cliniche private psichiatriche o nelle comunità protette”8. Questo dimostra la difficoltà nel selezionare i mezzi terapeutici a disposizione dello psichiatra per esercitare al meglio la propria posizione, aiutando noi a definirla9. Le difficoltà relative alla ricostruzione del contenuto dell’obbligo di garanzia sono aumentate a seguito della riforma operata con la legge 13 maggio 1978, n. 180, che ha sancito l’abbandono del modello “custodialistico” a vantaggio di un orientamento alla cura ed alla valorizzazione della libera partecipazione del paziente al percorso terapeutico10. Già all’inizio degli anni Settanta, veniva denunciato, tra gli psichiatri, il contrasto della vigente disciplina con i principi costituzionali, in particolare il diritto alla salute ex art. 32 Cost. ed il principio generale dell’ordinamento dell’assoluto rispetto della dignità della persona umana11. Sulla base degli stessi principi venne fissato l’obiettivo di elaborare una nuova legge che si facesse “portatrice delle istanze che la psichiatria moderna ha dimostrato essere espressione irrinunciabile di civiltà, con il superamento della distinzione, quanto meno nei termini in cui è delineata dalle leggi attuali, fra alienati pericolosi e non pericolosi, con l’affermazione, la più decisa possibile, del principio della collaborazione e responsabilizzazione del malato e con il richiamo, per gli eventuali casi di ricovero coattivo, sul piano sostanziale all’art. 32 Cost. e su quello processuale dell’art. 13 Cost”12. La legge 13 maggio 1978, n. 180, infatti, rivoluzionando l’impostazione di fondo del trattamento dei malati di mente nel solco tracciato da Franco Basaglia, ha segnato il superamento del retrogrado modello custodialistico e della correlata concezione del malato di mente come soggetto pericoloso a vantaggio di un approccio che mette l’accento sulla cura e sulla partecipazione del paziente al percorso terapeutico13. Ai significati progressi della riforma infatti va attribuito il merito per aver ricondotto, conformemente allo spirito della Costituzione, il trattamento sanitario obbligatorio ad extrema ratio, ancorandolo ad una esclusiva finalità terapeutica14. Al fine di salvaguardare la dignità e la libertà del malato di mente, l’art. 34 della legge n. 833 del 1978 subordina il ricovero alla presenza, congiunta ed indefettibile, di tre tassativi presupposti: a) alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; b) rifiuto dei trattamenti da parte del paziente; c) impossibilità di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere. Con riferimento ai trattamenti extraospedalieri, anch’essi si applicano sulla base della sussistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici: deve trattarsi, ai sensi dell’art. 34, comma 4, di misure sanitarie, ossia di trattamenti finalizzati alla cura, e non già alla custodia ed all’isolamento, caratterizzati dall’intervento interdisciplinare dei presidi psichiatrici e tendenti alla risocializzazione del malato15. Quanto alle strutture ospedaliere, è sempre l’art. 34 a prevedere che “gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extraospedalieri”, da realizzare a cura delle Regioni16. Ad ulteriore presidio di garanzia, si prevede che tali trattamenti possono essere disposti solo a seguito di una procedura garantita dal controllo del giudice tutelare, e nella quale, sono coinvolti oltre al Sindaco in qualità di autorità sanitaria locale anche due medici, e che devono essere rigorosamente circoscritti all’urgenza e limitati allo stretto necessario17. La procedura, semplificandola, per l’applicazione del trattamento sanitario obbligatorio, di cui agli artt. 34 e 3518 della legge 833 del 1978, prevede che un medico presenti la proposta avente questo come oggetto, che deve essere convalidata da uno psichiatra del servizio pubblico ed accolto dal Sindaco, il quale dispone l’ordinanza di ricovero, comunicando e trasmettendo al giudice tutelare del tribunale competente il provvedimento entro 48 ore; quest’ultimo, nel prenderne atto, è chiamato a vigilare sulla corretta esecuzione del trattamento a garanzia dei diritti della persona a cui viene temporaneamente limitata la libertà personale19. Il trattamento non può durare più di sette giorni, fatto salvo che il medico non rinnovi la richiesta, che deve contenere precise motivazioni, al Sindaco; di fatto, la durata, attraverso successive proroghe si estende a tutto il lasso temporale ritenuto necessario alla cura20. Nonostante gli intenti manifestati dal legislatore del 1978, il dibattito sull’ampiezza della posizione di garanzia del medico psichiatra21 ha continuato ad alimentarsi e ad ospitare diverse posizioni che di seguito vengono esposte. Vi è chi ritiene che il contenuto della posizione di garanzia dello psichiatra continui a ricomprendere obblighi tanto di protezione quanto di controllo22 poiché il paziente nella realtà può continuare ad essere pericoloso, potendosi far rientrare le situazioni che di fatto danno luogo a pericolosità sia per sé che per gli altri in quelle “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”, cui l’art. 34 della legge 833 fa riferimento, collegato con il diritto alla salute quale interesse anche della collettività, ex artt. 2 e 32 Cost.23 In questa prospettiva, la responsabilità scaturirebbe dalla violazione di un obbligo di cura tale da ricomprendere anche un’attività di assistenza-sorveglianza, nell’ambito della quale rientrerebbero tutti quegli interventi finalizzati ad impedire che il malato possa arrecare danno a sé e/o agli altri24. Altra posizione valorizza la portata innovativa della riforma del 1978, sottolineando che lo psichiatra è gravato dall’obbligo esclusivamente di protezione e di cura25. Questa trova la sua matrice nella rinnovata disciplina del trattamento sanitario obbligatorio, cioè nel suo esplicito riconoscimento di una finalità esclusivamente terapeutica e del suo carattere residuale ed estremo, e nella netta cesura operata rispetto alla funzione di neutralizzare la pericolosità del malato di mente propria della precedente figura del ricovero coatto26. Infatti ad oggi vi si può fare ricorso solo al cospetto di una comprovata carenza di misure curative extraospedaliere idonee, in presenza di reali e specifiche indicazioni di cura e dopo che il medico ha infruttuosamente attuato tutte le iniziative volte a raggiungere una partecipazione consapevole, spontanea e, prima ancora, informata al programma27. Il mutamento radicale della normativa extra-penale di riferimento ha comportato “in primo luogo, un parziale svuotamento del contenuto della posizione di garanzia, corrispondente ala cessazione dell’obbligo di custodia; in secondo luogo, e comunque, una sostanziale impossibilità di far fronte (mediante custodia) ad esigenze preventive che pur dovessero in concreto emergere, per l’inidoneità a tale scopo degli strumenti legali attualmente a disposizione del sanitario”28, concepiti per fronteggiare esigenze diverse da quella di impedire che il malato di mente uccida o arrechi lesioni a terzi29. Il punto realmente decisivo è rappresentato dal cambio di paradigma segnato dalla riforma; trasformando la persona affetta da disturbo psichico da soggetto pericoloso, fonte di pericolo da neutralizzare, in paziente bisognoso di cura e di protezione e co-protagonista di un vero e proprio rapporto terapeutico, è stata rimodellata la natura degli obblighi dello psichiatra e delimitato il confine della sua posizione di garanzia, che non può essere dilatato sino a ricomprendere la prevenzione dei reati da parte del proprio paziente, restando inequivocabilmente fuori dallo spettro applicativo dell’art. 32 Cost. compiti di tutela dell’ordine pubblico30. Coerentemente con questa posizione, può prospettarsi una soluzione diversificata, a seconda che il ricorso a misure di contenimento sia diretto a rimuovere il rischio di atti autolesivi o eteroaggressivi, ritenendo giustificato solo nel primo caso il ricorso ad un trattamento sanitario obbligatorio in funzione di neutralizzare il pericolo di gesti suicidari o autolesivi, e previo accertamento caso per caso dell’effettiva sussistenza del relativo rischio, in base al rilievo che “la tutela della salute di un malato di mente incapace di autodeterminazione implichi, a fortiori, la tutela della sua vita e della sua incolumità31. Purché l’intento di salvaguardare la salute, fisica e psichica, del paziente sia reale e da lui condiviso o comunque possa ritenersi in contrasto con la sua piena o parziale libertà di autodeterminazione nelle scelte di cura. Purtroppo, l’effetto complessivo della riforma è stato quello di ampliare i margini dell’incertezza e di rischio collegati a condotte provenienti dallo stesso paziente e collocare lo psichiatra fra “l’incudine ed il martello”32, cioè stretto, da un lato, dalla pressione sociale, che tende “ad imporgli un più o meno sistematico atteggiamento di repressione preventiva nei confronti di iniziative del suo paziente potenzialmente lesive di beni giuridicamente protetti, a scapito di un’azione realmente terapeutica, imponendogli così un tipico compito di controllo disciplinare”33; dall’altro, da una speculare controspinta, di matrice normativa e deontologica, che gli impone di rivendicare la finalità esclusivamente terapeutica del suo agire, richiamandolo a doveri tipici di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi psichici34. In questo contesto, si fondono, così, istanze di difesa sociale, dell’incolumità di eventuali terzi potenzialmente esposti a gesti lesivi, e di difesa personale, dal rischio giudiziario, che segna il passaggio da una medicina delle scelte tecniche, a base consensualistica, ad una “medicina dell’obbedienza giurisprudenziale”35, con tutte le ripercussioni negative su quello che dovrebbe essere il reale obiettivo terapeutico, e cioè la salvaguardia e la cura della salute del paziente psichiatrico36. In conclusione si può ritenere escluso dagli obblighi gravanti sullo psichiatra quello di tutela verso terzi, per l’inequivoca finalizzazione della stessa posizione di garanzia alla tutela del bene salute del soggetto affetto da disturbi psichici; conseguentemente, si può anche escludere una responsabilità omissiva in quanto garante, non rientrando la prevenzione di condotte eteroaggressive del paziente tra i suoi obblighi tipici37. Tuttavia, per una migliore chiarificazione della posizione di garanzia dello psichiatra, occorre riportare, a titolo esemplificativo, il caso “Pozzi”38: in questa circostanza venne modificata, riducendola, la terapia farmacologica ad un soggetto in cura, senza che, secondo l’imputazione, si conoscesse l’anamnesi personale e patologica remota e prossima del paziente, senza un’adeguata valutazione delle sue condizioni al momento del cambio di terapia e senza la predisposizione di tutte quelle misure di supporto che avrebbero potuto contenere la riacutizzazione della patologia39. La condotta del medico fu qualificata come commissiva, ritenendosi che egli abbia introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi, introducendo così la “responsabilità commissiva a titolo di concorso colposo nel delitto doloso” del paziente40. Le obiezioni all’ammissibilità di questa figura41 sono superate assumendo alla base dell’esame l’analisi congiunta degli artt. 42, comma 2, e 113 c.p., dai quali risulta che “la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un ulteriore elemento rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l’aver previsto e voluto l’evento, sia pure con la sola accettazione del suo verificarsi, nel caso di dolo eventuale)”; il dolo, in questa prospettiva, rappresenta “qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa”, cosicché non sarebbe “necessario prevedere espressamente l’applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso, perché se è prevista la compartecipazione nell’ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell’ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili42. Infine, l’attenzione viene spostata dalla Cassazione sul profilo causale e sulla “verifica dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell’evento”; si osserva che “ nel caso in cui l’evento dannoso si verifichi all’esito di una sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del terzo è necessario verificare innanzitutto, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, se la regola cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo”, evocando l’esempio di “chi, preposto alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo all’assalitore di ledere l’integrità fisica della persona protetta”43. In questo caso emerge che la posizione dello psichiatra viene valutata sia sotto il profilo commissivo, ovvero relativamente all’ “aver cagionato la morte del terzo mediante la riduzione e poi sospensione del trattamento farmacologico ed aver concorso colposamente nella realizzazione dell’omicidio doloso” , che omissivo, relativamente al “non aver impedito il reato commesso dal paziente omettendo la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio allorquando, in seguito alla modifica del trattamento farmacologico, si erano manifestati i primi segnali di scompenso44. I giudici di legittimità, in tal modo, hanno meglio definito, richiamandola, la posizione di garanzia come fonte dell’obbligo “di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione integra la colpa”, offrendo spunti sulla interrelazione tra la regola cautelare, l’obiettivo terapeutico e la posizione di garanzia del medico, escludendo l’obbligo di tutela dei terzi che trascende la portata dei veri compiti dello psichiatra45. Avendo discusso e riconosciuto ampiamente la problematicità connessa ai confini della posizione di garanzia dello psichiatra, è necessario concludere con la ricostruzione dei suoi obblighi in termini esclusivamente terapeutici, abbandonando ormai il modello custodialistico e focalizzandoci sui soli atti autoaggressivi, in particolare il tentativo di suicidio del paziente psichiatrico e le intersezioni tra posizione di garanzia, regole cautelari e volontà del paziente46. In base a ciò, di conseguenza, si circoscrivono i poteri impeditivi del medico, che giocano un ruolo fondamentale nella conformazione del fatto tipico omissivo improprio, definendo perché riconducibili all’ “obbligo giuridico da impedire” del garante47. Il potere di agire del garante per l’assolvimento dei suoi obblighi impeditivi, è influenzato e delimitato dal rispetto delle regole cautelari, che informano l’attività, in questo caso medica, determinandone la condotta pretendibile, dato che il “limite del suo intervento è segnato specificamente dalla disponibilità di mezzi strumentali all’attuazione del dovere impostogli”48. Oggetto del giudizio è, allora, valutare il corretto esercizio di tale potere e cioè quanto è tenuto a fare il soggetto agente nel caso concreto per impedire la verificazione di determinati eventi, osservando le regole di diligenza dettate dalla situazione particolare49. La regola cautelare diventa così la guida nel vaglio della liceità/correttezza metodologica dell’espletamento della funzione di garanzia e del comportamento concreto, tale da questo risultare riconducibile ad un parametro modale predefinito e determinabile ex ante50. L’esempio, già riportato, è rappresentato dal caso di suicidio del paziente affetto da turbe mentali: qualora si arrivi a dimostrare che il medico abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica valutazione clinica, la terapia più aderente alla condizione del malato ed alle regole dell’ars psichiatrica, può dirsi che non avrebbe potuto comportarsi diversamente da come ha fatto51. Ecco il punto: non tutto ciò che è nei poteri rientra anche nei doveri del medico agente, segnati dalle regole di diligenza medica52. Fondamentale e decisiva è, come abbiamo su esposto, la volontà del malato, che ingerendosi determina la posizione del garante e con questo il percorso terapeutico, l’obiettivo da perseguire e le cautele da adottare. Come è stato sottolineato in precedenza, la lettura congiunta degli articoli 13 e 32 della Costituzione ed una moderna accezione in chiave soggettiva del concetto di salute rendono determinante l’adesione consapevole del paziente al trattamento, presupponendo, quindi, e limitando la posizione di garanzia, affinché non sia arbitrario ed il rapporto affetto da un vizio, patologia, per sopraffazione della volontà del medico53. Ciò nel tempo a condotto ad esiti non positivi, per l’adozione di atteggiamenti ipercautelativi della classe medica, che hanno ugualmente obliterato la volontà del paziente54. Allora è bene meglio definire i profili della responsabilità colposa del medico in base alla interrelazione tra colpa ed omissione. Il consenso informato del paziente, qui significativo, fornisce un supporto nell’indicare non solo la volontà di “farsi curare”, ma anche il “quomodo” della terapia, il “come essere curati”, le linee di massima delle modalità curative ed in definitiva sulle regole cautelari55. Il contributo del paziente appare decisivo nell’esatta delimitazione dell’obiettivo della terapia e nella determinazione della terapia più appropriata dal punto di vista della buona pratica clinica, in valutazione comparativa dei costi e dei benefici per la sua salute56. Qui emerge come il “consenso”, precedentemente discusso, si spoglia della sua natura “anfibia” per rivelarsi altro dalla scriminante ex art. 50 c.p. Dunque, la volontaria assunzione di un determinato rischio da parte di un paziente capace e compiutamente informato possa influire sulla valutazione di appropriatezza clinica dell’intervento: nel senso cioè che il paziente possa lecitamente essere sottoposto ad un rischio, al quale non potrebbe essere invece lecitamente sottoposto un paziente ignaro, o comunque incapace di assumersi volontariamente il rischio in questione, che resterebbe non consentito e quindi illecito57. È l’esito cui si perviene anche attraverso una corretta applicazione dell’objektive Zurechnung, sensibile al rilievo della volontà della vittima nello stabilire la natura lecita o illecita del rischio cui questa si espone, sotto il duplice profilo della “volontaria autoesposizione a pericolo” e della “esposizione a pericolo di persona consenziente”58. Nel ricostruire la regola cautelare deve essere considerata l’area del “rischio consentito”, la cui, cioè, concretizzazione in un evento dannoso non può essere ascritta a colpa del medico, rispetto al quale la volontà del paziente ha rilievo, dato che lui lo assume su di sé. In difetto di un valido consenso informato, il medico deve astenersi dal praticare un trattamento che comporti un rischio apprezzabile per la salute del paziente: è il paziente che deve decidere se rischiare e quanto, nella valutazione complessiva dei rischi e dei benefici del trattamento, resa possibile da un corretto e puntuale adempimento dei doveri informativi da parte del medico59. Il contributo del malato, come ho affermato, è rilevante anche per la definizione dell’obiettivo da conseguire. In conclusione, la volontà del paziente, quale portato della sua libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, incide sul concetto o margine di rischio che il paziente, e di conseguenza anche il medico, decide di accettare e condividere, visto che il primo, arbitro della propria salute, nel bilanciamento tra costi e benefici del trattamento, in virtù della percezione diretta di quello che è il proprio benessere fisiopsichico, ben potrebbe rifiutare un trattamento eccessivamente invasivo o invalidante; privilegiare un rischio alto rispetto ad uno medio-basso, a fronte di un diverso risultato, percepito come conforme alle proprie aspettative; ovvero preferire il procrastinare una condizione di mera sopravvivenza, cioè allungare la propria permanenza in vita, anche a costo di un intervento non risolutivo, particolarmente invasivo ed altamente rischioso, perché si vuole sfruttare ogni chance pur minima di prolungamento dell’esistenza60. Così se, sulla base delle acquisizioni della scienza medica, la tecnica scelta dallo psichiatra appare la migliore scelta terapeutica, poiché coincidente con la regola cautelare applicabile al caso concreto, ed il paziente, correttamente informato e capace, non la accetta, al medico, che non può né sindacare né superare il rifiuto, non potrà essere imputata l’adozione della terapia meno idonea rispetto all’obiettivo astratto ovvero più rischiosa, nella misura in cui sia stata l’unica consentita dal paziente61. Avendo in precedenza trattato in modo esauriente il ruolo del consenso del paziente, qui è necessario richiamarlo per definire il rapporto tra questo ed i poteri o doveri di cui risulta titolare il protagonista della nostra trattazione62. Anche per lo psichiatra vale la barriera del dissenso del paziente capace, se quest’ultimo, adeguatamente informato e realmente in grado di comprenderne le conseguenze, rifiuta un dato trattamento prospettato su base volontaristica dal terapeuta e se non ricorrono gli estremi per il ricorso al t.s.o., così che il medico non potrà imporre nulla contro la volontà dell’interessato, anche se lo abbia colto, ad esempio, nell’attuazione di un suo intento suicidario: conforme è del resto al fondamento liberale dell’ordinamento ed al valore riconosciuto alla dignità ed all’autonomia dell’individuo interpretare un gesto suicida come atto libero ed incoercibile, a fronte del quale non può esistere alcun dovere giuridico impeditivo da parte di terzi63. Lo psichiatra non può, eventualmente, invocare, disattendendo una richiesta esplicita del paziente o un suo espresso rifiuto di sottoporsi ad un trattamento psichiatrico volontario, l’articolo 54 c.p. per intraprendere o proseguire una terapia “non voluta”, contro il consenso del suo assistito poiché si violerebbe comunque una scelta di vita per evitarsi l’infelicità connessa alla malattia ed alla cura, contro la libertà e la dignità della persona64. Patente è che il potere di agire del medico è circoscritto dal consenso della controparte del rapporto, il paziente, che ha ad oggetto il “farsi curare”65 o meno e il “come essere curati”. Per terminare, la posizione di garanzia dello psichiatra è riconducibile ad un obbligo di protezione, che trova la sua fonte nel rapporto di cura e la sua legittimazione nell’alleanza terapeutica, in base alla quale il malato, capace di autodeterminarsi e adeguatamente informato, affida al sanitario la salvaguardia del proprio bene salute66. Il consenso, dunque, libero e consapevole della persona affetta da disturbo mentale rappresenta un elemento strutturale decisivo per delineare i contorni dei poteri e doveri dello psichiatra, plasmandone contenuti e limiti, emergendo ciò anche costituzionalmente dagli artt. 13 e 32 Cost., come già sottolineato67. La nuova alleanza terapeutica, pertanto, si sostanzia di sostegno morale, di assistenza psicologica e di cura, costruita attorno ad un obiettivo terapeutico condiviso, la salute, relativamente al quale l’atto medico si pone come strumento, che si muove sul terreno della volontà informata correttamente e pienamente del paziente68. Per concludere sulla “particolare” posizione di garanzia del medico-psichiatra, è necessario dare atto della recente apertura della giurisprudenza relativa ad essa, considerando le problematiche ed oscillazioni del diritto emerse ed esposte nel corso della trattazione, così che a questo punto meglio si possano comprendere le ricadute sul piano della responsabilità e, dunque, i contorni ancora sfocati della figura del protagonista della tematica: allora è “l’esigenza di contrastare e frenare un determinato rischio, per il paziente in primis, ma anche per i terzi che individua e circoscrive, sul versante della responsabilità colposa, le regole cautelari che il medico è tenuto ad osservare69. Insomma “lo psichiatra, in balia tanto della pressione sociale, che pretende approcci repressivi e preventivi, quanto della speculare controspinta, di matrice normativa e deontologica, a rivendicare finalità esclusivamente terapeutiche del suo agire, si ritrova esposto, nel vortice di una valutazione giudiziaria ex post, a contestazioni, alternativamente e a seconda di ciò che poi si è concretamente verificato, di non aver fatto abbastanza o di aver fatto troppo70. Questo è lo scenario nel quale si inserisce una presa di posizione incoraggiante della Quarta Sezione penale della Cassazione71, la quale intervenne con la pronuncia n. 14766 dell’anno 2016, relativamente al caso di una psicologa e di una psichiatra, entrambe in servizio presso una casa circondariale, imputate, per colpa generica e con specifica violazione delle regole dell’arte medica e dei doveri inerenti alla loro qualifica, per avere erroneamente valutato il rischio suicidario – individuato nelle pagine precedenti come “tipico fenomeno autolesivo” in cui esso sfocia – sussistente in capo a un detenuto, affetto da disturbi psichici, omettendo di adottare le doverose misure medico sanitarie e di controllo carcerario necessarie e sufficienti a tutelarne la salute psicofisica e a prevenirne gesti autolesionistici, avendone così cagionato la morte per asfissia meccanica72. Nell’esaminare la vicenda, la Corte coglie i punti centrali della tematica: a) i confini esatti della posizione di garanzia e i correlati margini di doverosità degli obblighi degli imputati; b) come valutare il margine di doverosità, in termini più ampi, della condotta del medico e quali fattori che vi incidono; c) nel caso di specie, se i disturbi clinici e i gesti autolesionistici reiterati dal detenuto potevano rappresentare indici tali da giustificare doverose misure medico-sanitarie e di controllo carcerario sufficienti a tutelarne la salute psico-fisica e a prevenirne gesti auto lesivi73. Partendo dal margine di “doverosità” dei comportamenti asseritamente omessi, è necessario preliminarmente individuare e circoscrivere i poteri impeditivi di cui, nelle specifiche situazioni concrete, il medico può disporre, perché si possa configurare il fatto tipico omissivo improprio, visto che la loro esistenza ed estensione condizionano portata ed efficacia dell’azione impeditiva giuridicamente imposta al garante74. Sebbene la giurisprudenza definisca “fattuale” il potere del titolare della posizione di garanzia, rischiando di inglobarvi al suo interno tutto ciò che può esplicare un’efficacia ostativa all’offesa del bene tutelato, l’attenzione deve essere posta sulla regola cautelare o regole invocabili nel caso concreto, dato che queste incidono e circoscrivono il potere di agire, ed il giudizio ha ad oggetto l’ an dell’evento non impedito, ovvero se il corretto esercizio del potere, così come normativamente delineato dal consenso e dalla regola – che si ergono a parametri di guida per il giudice –, sarebbe valso ad evitare il rischio concretizzatosi nell’accadimento pregiudizievole verificatosi75. Pertanto, il garante è tenuto a fare, per impedire la verificazione di determinati eventi, quanto gli è imposto dall’osservanza delle regole di diligenza dettate dalla situazione particolare, poiché è la regola cautelare a dettare il “percorso” e gli strumenti per il miglior perseguimento del risultato, delineando il comportamento che, non tenuto, rappresenta la “condotta omissiva tipica”, a lui rimproverabile76. Così, “nel caso di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, qualora si arrivi a dimostrare che il terapeuta abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica valutazione clinica, la terapia più aderente alla condizione del malato e alle regole dell’arte psichiatrica, potrà dirsi che il medico non avrebbe dovuto comportarsi diversamente da come ha fatto, disponendo una differente iniziativa, pur fattualemente dotata di efficacia impeditiva dell’evento, e concludersi che, non avendo errato nel non averla disposta, non abbia omesso una condotta doversa77. Dunque, non tutto ciò che è nei “poteri” del medico rientra nei suoi “doveri”, segnati dalla leges artis. Proseguendo, l’area entro cui può muoversi lo psichiatra è delineata dalla volontà78 del malato, nelle vesti della “partecipazione terapeutica” nella determinazione del trattamento praticato, per individuare lo “specifico obiettivo terapeutico” concertato79: come già ribadito, il consenso ha ad oggetto non solo l’an del “farsi curare”, ma anche il quomodo, e cioè le linee di massima delle modalità curative, della terapia più appropriata, nella valutazione comparativa dei costi e dei benefici, secondo la buona pratica clinica, incindendo sul “concetto/margine di rischio”, e quindi sui “doveri” del medico80. Sulla base di quanto illustrato, la Cassazione ha confermato l’assoluzione del medico psichiatra e della psicologa, sul rilievo che, alla luce dei dati clinici in loro possesso e dei parametri di valutazione individuabili nella letteratura scientifica, non poteva ravvisarsi un rischio suicidario concreto ed imminente, dovendo per altro verso escludersi ogni loro responsabilità per le riscontrate carenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria81. Nel valutare il trattamento riservato al paziente, si è tenuto conto dell’esigenza di operare un corretto ed effettivo bilanciamento tra protezione dell’integrità, anche da sé stesso, salute, come estrinsecazione di dignità ed autonomia, volontà e libertà di autodeterminazione82. Dunque la conclusione è che “nel caso del suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, qualora si arrivi a dimostare che il terapeuta abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica valutazione clinica, la terapia più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell’arte psichiatrica (ad esempio, con somministrazione di farmaci antidepressivi appropriati), può dirsi che il medico non avrebbe dovuto comportarsi diversamente da come ha fatto, disponendo una differente iniziativa (pur fattualmente dotata di efficacia impeditiva dell’evento), e in conclusione che non ha errato nel non averla disposta e non ha omesso una doverosa condotta83.

1 A. Gargani, ne “La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione”, in Dir. Pen. Proc., 2004, 2854 ss, evidenzia come “la circostanza che il paziente sia stato previamente e concretamente affidato alle cure dello psichiatra (“rapporto di dipendenza a scopo tutelare”) conferma la sussistenza di una posizione di garanzia avente ad oggetto la tutela della salute del malato di mente, che si sostanzia nella doverosa realizzazione di interventi terapeutici necessari per migliorare la salute ed evitare eventi dannosi capaci di arrecare ulteriori pregiudizi al paziente”; G. Fiandaca, “Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra”, op. cit., 109. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

2 G. Dodaro, “Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente”, Milano, 2011, 51 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31.

3 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

4 L. Fornari, “La posizione di garanzia del medico”, in “La responsabilità in medicina”, a cura di A. Belvedere-S. Riondato, in Trattato di biodiritto, 842 ss.; E. Sborra, “La posizione di garanzia del medico”, Pisa, 2009, 117 ss.. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

5 In dottrina vedi A. Fiori-D. Marchetti, “Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi profili”, Milano, 2009, 231 ss.; A. Roiati, “Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale”, Milano, 2012, 102 ss.. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

6 G. Fiandaca, “Il reato commissivo mediante omissione”, Milano, 1979, 186 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

7 A. Fiori-F. Buzzi, “Problemi vecchi e nuovi della professione psichiatrica”, in Riv. It. Med. Leg., 2008, 1446 ss. Si veda, inoltre, in calce al paragrafo le tabelle 1 e 2 rappresentative dei fattori di rischio di entrambi gli eventi, etero ed auto-aggressivi. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

8 A. Fiori-F. Buzzi, “Problemi vecchi e nuovi della professione psichiatrica”, op. cit., i quali conseguentemente auspicano cautele interpretative, volte “ad evitare che l’approccio valutativo ex post, che è proprio dell’attività peritale, cada in scientificamente inaccettabili semplificazioni dei nessi causali”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

9 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

10 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

11 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

12 M. Romano-F. Stella, “Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente; aspetti penalistici e costituzionali”, in Riv. It. Med. Leg., 1973, 406 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

13 M. Zanchetti, “Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente”, in Cass. pen., 2004, 2860. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

14 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

15 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

16 A. Venchiarutti, “Obbligo e consenso nel trattamento della sofferenza psichica”, in “I diritti in medicina”, 822 ss. Vedi C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

17 U. Fornari, “Trattato di psichiatria forense”, op. cit., 955 ss. nonché in “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori sotto il profilo del rapporto medico-paziente: il problema dell’informazione e della scelta”, in “La responsabilità professionale dello psichiatra”, Milano, 2006, 61 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

18 Si veda l’approfondimento oggetto del paragrafo 7 del terzo capitolo, a proposito del trattamento sanitatio obbligatorio illegittimo.

19 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

20 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

21 In dottrina, si è segnalato come, a ben vedere al di là delle diverse opzioni ermeneutiche, proprio l’ampio dibattito sulla posizione di garanzia dello psichiatra “mette in evidenza in modo paradigmatico i limiti dell’attuale modello di tipizzazione del reato omissivo improprio, in cui non solo il grado di determinatezza della fattispecie ma anche i criteri di selezione delle posizioni di garanzia finiscono per rispondere ad esigenze extrapenalistiche”. Si veda F. Cingari, “Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente”, in Riv. It. Proc. Pen., 2009, 440 ss. e C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

22 F. Introna, “Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente”, op. cit. 13 ss.; A. Fiori, “La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra”, op. cit., 542 ss. U. Fornari, “Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali”, in Riv. It. Med. Leg., 1984, 961 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

23 M. Bilancetti, “La responsabilità penale e civile del medico”, Padova, 2010, 138 ss., secondo il quale “se è indubbia la funzione terapeutica dello psichiatra, non bisogna però dimenticare che la salute tutelabile è quella di tutti indistintamente i consociati, malato compreso, e che tale riconoscimento è dato dall’art. 32 della Costituzione non solo come “fondamentale diritto dell’individuo”, ma anche come “interesse della collettività” con tutte le conseguenze che ne possono derivare. In questo senso è anche l’art. 2 che riconosce e garantisce i dirtti inviolabili dell’uomo, tra i quali vi è in primo luogo il diritto al rispetto della propria vita e della integrità psico-fisica nonché della libertà personale”; la conclusione è dunque che “si deve ritenere che tale funzione preventiva non venga esclusa, quantomeno in un’ottica di valori non necessariamente e completamente contenuti nella richiamata nuova normativa la quale, come tutte le leggi dello Stato, è operante in quanto non sia in contrasto con la Carta Costituzionale”; si aggiunge che “pur ritenendo che l’obbligo istituzionale del dipartimento di salute mentale sia quello di tutelare la salute dell’assistito, c’è però da domandarsi a chi altro è demandato di adottare le cautele anche minimali, soprattutto di natura terapeutica, comprese quella farmacologica e quella psicologica, rivolte ad impedire che costui arrivi a comportamenti auto- o eteroagressivi che, per le conseguenze che ne deriverebbero per lui, sarebbero di sicuro regresso per qualsivoglia programma terapeutico”, tenendo conto altresì che “l’art. 2 lett. g della legge 23 dicembre 1978 n. 833, nel porre come obiettivo del servizio sanitario nazionale la tutela della salute mentale, indica come scopo anche quell di “favorire il recupero ed il reinserimeno sociale dei disturbati psichici”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

24 Esemplificando, tali trattamenti, i quali “dovrebbero soccorrere in situazioni concrete di emergenza correlate a gravi esigenze psicopatologiche del paziente, in cui è ragionevole attendersi il compimento di gesti auto o etero-aggressivi”, sarebbero legittimamente disposti “nei confronti del paziente capace o incapace, quando vi siano valide ragioni per ritenere che la persona intenda togliersi la vita con modalità che possano danneggiare anche terzi; o nei confronti del paziente aggressivo, quando vi siano valide ragioni per ritenere che stia per commettere un delitto contro la persona”; al contrario, sarebbero illegittimi “quando il grave stato di alterazione psichica del paziente, indipendentemente dall’incidenza sulla sua capacità, non lasci presagire o consenta di escludere rischi per terze persone, ad esempio per il tipo di disturbo mentale, perché il paziente è semplicemente agitato e non si ritiene che il comportamento possa rapidamente evolvere in un’aggressività, oppure per le modalità del suicidio, venendo in rilievo in tali situazioni per il malato il “diritto di rifiutare le cure e di rimanere malato nei limiti in cui la scelta riverbera conseguenze negative solamente sulla propria salute”. G. Dodaro, “Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione dei comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente”, op.cit., 110 ss. Tra la giurisprudenza e recenti interventi normativi, figura un’ulteriore ricostruzione secondo la quale gli obblighi impeditivi di gesti etero-aggressivi vengono sganciati dal riferimento al dovere di cura e ricondotti ai doveri di sicurezza nei luoghi di degenza gravanti su tutti gli operatori della struttura che hanno compiti di organizzazione, gestione o esecuzione; per tale via, dunque, “il comportamento illecito del paziente diviene possibile fonte di responsabilità penale dell’operatore psichiatrico, in quanto si realizza all’interno di una struttura organizzata quale conseguenza della violazione di regole di comportamento specificamente volte a prevenire e impedire il concretizzarsi di rischi connessi alle manifestazioni della malattia mentale”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

25 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

26 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

27 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

28 P. Veneziani, “I delitti contro la vita e l’incolumità individuale”, Padova, 2003, 345 ss.. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

29 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

30 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

31 G. Fiandaca, “Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra”, op. cit., 112 e A. Gargani, “La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione”, op. cit., 1401. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

32 M. Zanchetti, “Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in una recente pronuncia della Cassazione”, op. cit., 2859 ss. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

33 A. Manacorda, “Responsabilità dello psichiatra per il fatto commesso da infermo di mente”, in Foro.it, 1988, 122. C. Cupelli, 31 ss.

34 C. Cupelli, 31 ss.

35 A. Fiori, “La medicina delle evidenze e delle scelte sta declinando verso la medicina dell’obbedienza giurisprudenziale?”, in Riv. it. med. leg., 2007, 925 ss. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

36 P. Piras, “Rischio suicidario del paziente e rischio penale dello psichiatra”, in www.penalecontemporaneo.it, 3 ; G. Dodaro, “Posizione di garanzia degli operatori dei servizio psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente”, op. cit., 69 ss; A. Roiati, “Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale”, op. cit., 206. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

37 In dottrina, si delinea una terza categoria di posizione di garanzia, ulteriore rispetto a quelle di protezione e di controllo e connotata proprio da obblighi di impedimento di reati commessi da terzi, G. Grasso, “Il reato omissivo improprio”; L. Bisori, “L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 1365, per il quale questa terza figura attinge “le proprie caratteristiche funzionali dalle altre due, poiché la previsione di un obbligo, penalmente sanzionato, di attivarsi per impedire fatti illeciti altrui può trovare fondamento sostanziale in due distinti ordini di esigenze: o in quella di vigilare e contenere la potenziale pericolosità di determinati soggetti (motivo sostanziale prossimo a quello che sottende alle posizioni di controllo), ovvero nella necessità di far fronte alla particolare vulnerabilità di determinati beni (motivo prossimo alle posizioni di protezione)”. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

38 Cass., Sez. IV, sent. 11 marzo 2008, n. 10795. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

39 C. Cupelli, 31 ss.

40 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

41 L’art. 42, comma 2 c.p., richiede che ogni forma di responsabilità colposa sia espressamente prevista, mentre l’art. 113 c.p. ammette la sola “cooperazione nel delitto colposo”, con ciò escludendo implicitamente la differente cooperazione colposa nel delito doloso. Nondimento, l’inammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso troverebbe ulteriori conferme, sul piano formale, da un lato nel rilievo che, allorquando il legislatore ha voluto riconoscere la possibilità che più partecipi rispondano del medesimo reato a titoli diversi, lo ha fatto esplicitamente, come nel caso dell’art. 116 c.p., cosicché si può ricavare, argomentando a contrario, che l’ipotesi di concorso a titoli soggettivi diversi, che contraddice peraltro la concezione unitaria di partecipazione criminosa accolta dall’art. 110 c.p., rappresenti un’eccezione, e non la regola; dall’altro lato, dalla presenza nell’ordinamento di ipotesi espresse e limitate di agevolazione colposa del fatto doloso altrui, G. Fiandaca- E. Musco, “Diritto penale. Parte generale.”, Bologna, 2009, 514 ss.. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

42 Cass., Sez. IV, sent. 11 marzo 2008, n. 10795. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

43 C. Cupelli, 31 ss.

44 C. Cupelli, 31 ss.

45 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

46 C. Cupelli, 31 ss.

47 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

48 C. Paonessa, “Obbligo di impedire l’evento e fisiognomica del potere impeditivo”, in Criminalia, 2013, 641 ss., per il quale “nei reati omissivi impropri il potere impeditivo, in quanto attributo indefettibile della posizione di garanzia, opererebbe alla stregua di una regola modale, delineando il quomodo dell’intervento del soggetto obbligato, ossia fungendo da parametro indicatore del “come intervenire” per impedire efficacemente l’evento lesivo”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

49 G. Fiandaca-E. Musco, “Diritto penale. Parte generale”, op. cit., 515 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

50 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

51 A. Vallini, “La ricostruzione del nesso di causalità nell’attività medica”, in Medicina e diritto penale, 515, per il quale “è assolutamente possibile selezionare condotte materialmente impeditive, eppure non prescritte da regole cautelari buone ai fini del giudizio di colpa. Tanto avviene, in primo luogo, quando un certo soggetto, pur avendo la materiale possibilità di evitare il verificarsi di un pregiudizio, non sia personalmente destinatario della regola cautelare che prescrive quell’azione. In secondo luogo – e più in generale – deve ricordarsi che le norme cautelari, nel selezionare i comportamenti conformi a perizia, diligenza o prudenza, non considerano soltanto l’idoneità degli stessi a neutralizzare certi dannosi fattori eziologici, ma valutano eventuali rischi collaterali, che rendano quei comportamenti per altri motivi sconsigliabili. Per tale ragione un comportamento, pur idoneo materialmente ad impedire l’evento, può comunque porsi in contraddizione con le leges artis”. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

52 C. Cupelli, 31 ss.

53 P. Veneziani, “Regole cautelari “proprie” ed “improprie” ” Padova, 2003, 138, con riferimento a tutte le ipotesi di esito infausto che rappresenti la concretizzazione del rischio, che non è stato accettato, insito in un determinato tipo di trattamento praticato senza il consenso del paziente; ma “non direttamente in virtù della negligenza, o addirittura della intenzionalità che connotino il difetto di informazione, o la mancata acquisizione del consenso”, visto che quest’ultimo, in realtà, “finisce, in subiecta materia, per determinare la soglia del rischio consentito, ossia il limite fino al quale il medico può spingersi nell’esercizio della propria attività pericolosa”, cosicché “il consenso non opera quindi quale scriminante del “consenso dell’avente diritto”, ex art. 50 c.p., bensì contribuisce in negativo alla ricostruzione della stessa tipicità della condotta colposa: è infatti atipica la condotta consentita, ancorché rischiosa, a condizione che venga realizzata nel rispetto delle regole cautelari, ancorché improprie. Si precisa che il concetto di “esito infausto” va inteso in “senso relativo”, ricomprendendo “sia i casi in cui il trattamento medico abbia in effetti raggiunto il risultato avuto di mire, ma producendo esiti lesivi collaterali riconducibili alla nozione di “malattia”, sia i casi in cui il trattamento abbia avuto esito avverso proprio con riguardo al suo scopo, pur essendo stato eseguito leges artis, cagionando lesioni in un paziente sano, ovvero peggiorando un pregresso quadro patologico, o anticipando significativamente l’evento-morte, che sarebbe verosimilmente derivato comunque dalla malattia già in atto. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

54 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

55 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

56 F. Palazzo, “Causalità e colpa nella responsabilità medica”, in Cass, pen., 2010, 1236. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

57 F. Viganò, “Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice”, in Corr. Merito, 2006, 967 ss.. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

58 Interpretando la causalità, come tutti gli altri elementi costitutivi del reato, in chiave teleologicamente orientata alle funzioni general o special preventive positive della pena; invero, per attribuire oggettivamente un evento ad un autore non ci si può assolutamente accontentare di un mero giudizio di tipo naturalistico volto ad accertare la sussistenza del nesso causale materialmente inteso tra i due poli della relazione, ma si deve effettuare anche un ulteriore e più penetrante scrutinio sulla base di criteri valutativi di natura politico-criminale. In tal modo, coerentemente con quanto imposto dal principio di legalità in materia penale e dalle correlate esigenze di sussidiarietà, si riesce a restringere ragionevolmente i limiti dell’area di applicazione del Tatbestand, dal momento che, per ritenerlo configurato oggettivamente, non è sufficiente verificare la causazione naturalistica di un evento tramite una condotta dell’agente, ma si deve accertare anche che quell’evento risponda anche a dei criteri giuridici, primi tra tutti quello di realizzazione di un pericolo oltre il rischio consentito dalla fattispecie incriminatrice e quello della contrarietà allo scopo di tutela della norma. Diversamente, se non si accetta anche tale ulteriore aspetto di carattere politico-criminale, l’evento non può essere ascritto al Tatbestand oggettivo. Si veda C. Cupelli, 31 ss.. ed inoltre C. Roxin, “Gedanken zur Problematik der objektiven Zurechnung im Strafrecht”, Berlin-New York, 1973; A. Castaldo, “L’imputazione oggettiva del delitto colposo d’evento”, Napoli, 1989; G. Fiandaca, “Riflessioni problematiche tra causalità e imputazione obiettiva”, in Ind. Pen., 2006, 961 ss.

59 P. Veneziani, “Regole cautelari “proprie” ed “improprie” ”, op. cit., 138. Si veda C. Cupelli, 31 ss.

60 C. Cupelli, 31 ss.

61 C. Cupelli, 31 ss.

62 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

63 S. Seminara, “La dimensione del corpo nel diritto penale”, in “Il governo del corpo”, in “Trattato di biodiritto”, Milano, 2011; Si veda C. Cupelli, 31 ss.

64 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

65 Peculiare è il fatto che il medico si faccia garante della libertà morale, cioè di cura, del malato, che comprende il diritto a non essere più curato in itinere. Dunque, è il contenuto dell’obbligo ad essere mutato: grava su di lui il dovere di sindacare la genuinità e l’attendibilità della volontà del paziente, assecondandola nel modo tecnicamente migliore e tutelandola. Nell’art. 123 dell’ “Alternativ-Entwurf” del 1966, durante la Repubblica Federale tedesca, il trattamento medico arbitrario era inserito nei delitti contro la libertà morale; Si veda C. Cupelli, 31 ss.

66 G. Grasso, “Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della fattispecie”, in Riv. It. Med. Leg., 1979, 90 ss; G. Fiandaca, “Il reato commissivo mediante omissione”, op. cit.; F. Sgubbi, “Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento”, Padova, 1975; Si veda C. Cupelli, 31 ss.

67 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

68 C. Cupelli, op. cit., 31 ss.

69 C. Cupelli, “La responsabilità penale dello psichiatra: nuovi spunti, diverse prospettive, timide aperture”, in Diritto penale e processo n. 3/2017, p. 372 ss.

70 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

71 Cass. pen., Sez. IV, 04/02/2016, n. 41766, in CED Cass. pen., 2016.

72 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

73 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

74 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

75 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

76 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

77 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

78 I cui fondamenti sono, come già sottolineato, gli artt. 13 e 32 Cost, fondamenti e limitazioni della responsabilità penale dello psichiatra. Si veda C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

79 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

80 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

81 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

82 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

83 C. Cupelli, op. cit., 372 ss.

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