Ci fu un periodo in cui anch’io decisi di abbandonare la neurologia, per seguire Bruno Callieri. Esattamente come fece lui, in Clinica Neuro, dando un grande dispiacere a Vittorio Challiol, quando decise di dedicarsi alla psichiatria e di trasferirsi definitivamente al piano rialzato, salendo la scala sulla sinistra, da Viale dell’Università n. 30. Era la “Psichiatria uomini”, capo reparto, Sebastiano Fiume. Per la visita mattutina si davano appuntamento una sequela di personaggi incredibili delle “malattie mentali”. Tra i “vecchi di Cerletti” e i “nuovi di Gozzano”, c’erano Lucio Bini, Clemente Catalano Nobili, Giannetto Cerquetelli, Ferdinando Accornero, Mario Felici, Romolo Priori, Tullio Bazzi, Aldo Semerari, Isidoro Tolentino, Luigi Frighi, che si disputavano la diagnosi a colpi di Zentralblatt tra i letti dei pazienti intimoriti da tanto interesse. Le cose erano più tranquille scendendo le scale nel seminterrato a destra, la “Psichiatria donne”, regno incontrastato di Giancarlo Reda, psichiatra ufficiale di Gozzano e della scuola di specializzazione. Qui però le cose peggiorarono presto quando un gruppetto turbolento di esagitati della psicoanalisi, al seguito di Massimo Fagioli, gettarono lo scompiglio, manomettendo la psicoanalisi freudiana, la psicologia, la politica, e anche la regia cinematografica, con una teoria bizzarra e anche sessista. Riuscirono a spostarsi in “Via di Villa Massimo”, col trucco di guadagnarsi l’indipendenza accademica di una sedicente “analisi collettiva”, finché furono cacciati d’autorità. Purtroppo passarono forti dispiaceri anche due miei carissimi amici e Colleghi, Paolo Perrotti e Massimo Marà, che li avevano presi sul serio. Ma questa è roba vecchissima. Anni Cinquanta e Sessanta del secolo passato.
Conosco molto bene quel passato per averlo vissuto direttamente, e Gilberto Di Petta me lo ha restituito alla memoria ricordandomi Bruno Callieri e Lorenzo Calvi, di cui è stato allievo. Dal primo ha ereditato la biblioteca personale, dal secondo la direzione di “Comprendre”, la prestigiosa Rivista di psicopatologia fenomenologica, entrambi un premio per meriti personali. Mi ha invitato anche ad andarmi a rileggere una magistrale ricostruzione di quel clima osservato da Calvi con la giusta prospettiva di chi l’osserva da lontano; immagino come quello che viene da fuori e vi passa solo i giorni necessari per espletare gli esami della Libera Docenza, che si facevano alla “Clinica Neuro” dell’Università di Roma. «Il Pronto Soccorso della “Neuro” al Policlinico Umberto I è un campo dei miracoli, una piscina di Lourdes, e Callieri vi scopre la sua vocazione all’incontro faccia a faccia col malato, alla scoperta della sofferenza autentica al di là del clamore estemporaneo, alla messa a nudo dell’essenziale in mezzo a questa fiumana di materiale grezzo, spurio, incontrollabile» [01]. Sarà utile rammentare che il primo piano – quello dei venti metri di corridoio per osservare la marcia del paziente neurologico, quello delle quattro “Neurologie” (Challiol-Floris, Alemà-Vizioli-Severini, Spaccarelli-D’Orio, Laterza-Tagliacozzo, sebbene psicoanalista) – non l’ho mai abbandonato. Nei dieci anni trascorsi come “Assistente Volontario” alla “Neuro”, conoscevo l’Istituto come la mie tasche. Ci ho fatto più guardie lì che in qualsiasi altro ospedale, ed ero chiamato a intervenire in ogni reparto, tranne che in neuro-chirurgia, dove quelli di Beniamino Guidetti se la facevano da soli. Il fatto di seguire Bruno Callieri, non fu un trasferimento di reparto, ma una scelta di persona, di metodo, di disciplina. Lo seguivo dappertutto, ascoltavo i suoi suggerimenti, prendevo appunti sulla bibliografia e gli davo da leggere i miei lavori, anche quelli di neurologia. Ecco la ragione per la quale “mi feci psichiatra”, proprio come lui. Ricordo ancora queste tre parole pronunciate col tono illuminato di una “chiamata” religiosa. Per la verità, ai tempi della mia specializzazione, alla scuola di Mario Gozzano, c’era un altro guru della neurologia fenomenologica, il Prof Lamberto Longhi [02], un medico genovese, venuto di proposito a Roma per compiere studi di neurofisiologia da Gozzano. Lo persi di vista anche perché scelsi la psicopatologia fenomenologica di Bruno Callieri. Fu così che sentii parlare per la prima volta di Gilberto Di Petta, un giovane bravissimo, coltissimo, che scriveva anche molto bene, ma che, dal punto di vista della formazione, fra Napoli e Roma, gli davano del filo da torcere. «È tenace, coraggioso, affronta le situazioni estreme, pensa che si prende cura delle dipendenze» Questo in sintesi il suo giudizio, e Bruno mi diceva spesso chi dovevo conoscere o andare ad ascoltare.
Fino a circa 10 anni fa, cioè, prima che fosse applicata l’intramoenia, le visite specialistiche ambulatoriali in Clinica Neuro, erano gratuite e spettavano agli Assistenti Volontari. Anch’io avevo i miei turni e, se avessi ascoltato i suggerimenti di Gilberto Di Petta, ne sarei stato avvantaggiato. Santina veniva dall’Agro Pontino e finalmente riuscimmo a stabilire che aveva delle crisi di depersonalizzazione, soprattutto quando, stancata dal pascolo, si sedeva sotto un leccio e pensava «me sento sdilinquì perché me va via la vita» («mi sento svanire perché mi va via la vita») L’errore fu il primo contatto ambulatoriale e Gilberto me lo rammenta con precisione, perché lo sbaglio era nella domanda iniziale: «Come stai, che ti senti Santina ?» – perentoria la risposta – «Tu me l’è a di’, si’ tu lu dottore! Che ne sacc’io» («Sei tu che me lo devi dire, perché sei il dottore »). Poiché gli antichi romani, in Senato, solevano usare la locuzione “Verba volant, scripta manent”, pensiamo far cosa gradita ai lettori trascrivendo il testo della conversazione numero 97 “La prima visita in Psichiatria”, tra Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta. È chiaro che all’interno del dialogo ci sono riferimenti psicologici, psicopatologici e letterari della più varia provenienza, e nella più diversa direzione, come è giusto che sia per tutte le cose che riguardano la mente. Naturalmente nel linguaggio comune e superficiale, diviene una proposta imbarazzante e scivolosa, stabilire chi, quando e dove debba recarsi chi ha problemi mentali. Se sullo “Psicologo” e sulla psicoterapia, sono tutti d’accordo perché sembra giusto e ragionevole, sullo “Psicoanalista” non tutti ci credono ed è costoso, mentre per lo “Psichiatra” il rifiuto è immediato perché si pensa subito alla pazzia, dunque meglio optare per il “Neurologo” e la visita neurologica, meno pericolosa, perché accenna all’”essere nervosi” [03].
Pol.it Dialoghi mattutini sulla salute mentale n. 97 CAFFE’ & PSICHIATRIA Gilberto Di Petta “La prima visita in Psichiatria”. Per una migliore comprensione del testo, l’intervista è in neretto le risposte sono in corsivo i commenti sono in tondo che s’intendono sempre seguiti dalla sigla n.d.r.
B. Ciao Gilberto, benvenuto ai nostri caffè del mattino. Volevo proporti un tema che so fare parte degli argomenti ai quali tieni molto: l’incontro col paziente. Vorrei che tu ci parlassi di come si deve fare bene una prima visita in ambulatorio psichiatrico, aiutare al meglio la persona che non conosciamo e ci si presenta per chiedere aiuto, a volte di sua volontà a volte spinto dai parenti.
DP (con la voce raffreddata). Intanto mi piace dire che noi dovremmo considerare ogni nostro incontro, il primo e l’ultimo. Noi Dovremmo vivere ogni nostro incontro con l’intensità con cui si vive il nostro primo e il nostro ultimo incontro. (non “sedute”). Perchè dico questo? Perchè anche un paziente che conosciamo da tempo, può rivelarci qualcosa come se non l’avessimo mai visto. Dobbiamo metterci in questa condizione e al tempo stesso se ogni volta sentiamo come se dovesse essere l’ultima. Questo lo dico come psichiatra che ha avuto i suoi suicidi, per esempio. Che mi hanno sempre lacerato e strappato. Sono riandato all’ultimo incontro e mi sono detto se avessi saputo che era l’ultimo incontro gli avrei detto questo, avrei fatto questo, dunque partirei da questo. Secondo punto è che – secondo me – differentemente dal medico che s’incentra sul sintomo, noi dovremmo amplificare quella che Antonio Alberto Semi, un testo che io ho adorato che si chiamava “Tecnica del Colloquio”, due volumi di anni fa, che si chiamava “fase libera del colloquio”. Ecco, secondo me, i primi minuti del colloquio dovrebbero non riguardare assolutamente il fatto che uno è uno psichiatra e l’altro un paziente. Dovrebbero essere volti a mettere a proprio agio la persona e a consentirgli di esprimersi liberamente su cose che la concernono, il suo lavoro, l’attività il tempo, proprio come se ci si incontrasse su un treno una volta ci si incontrava sui treni (come non pensare a “Sonata a Kreutzer”, per esempio, sentendo questo dettaglio) o ci si incontrasse per strada (ed ecco che ascoltando Gilberto viene in mente “La passeggiata” di Valser), questo può aiutare molto. L’altro aspetto quando il paziente entra dalla porta e fa quei pochi metri per venirsi a sedere accanto a noi più o meno accompagnato da chi eccetera (qui il racconto di Gilberto suggerisce una inquadratura del commissario Montalbano), di fatto dentro di noi abbiamo già colto una serie di parametri, dal modo in cui cammina, dall’odore, da come guarda, da come sorride, da come è vestito, da come si muove, da come è agitato, da come è tranquillo .. parametri che rientrano in quella cosiddetta “prima impressione” che se è vero che va messa da parte perchè può essere errata, è anche vero che non va buttata (il suo Dasein, praticamente) … perchè a volte è proprio questa impressione epidermica, atmosferica, a sostanziare la nostra diagnosi. Altro punto, è quello che dicevi tu. Questo primo incontro non deve necessariamente finire, come dicevi tu, con una prescrizione o con una diagnosi. Un primo incontro può anche rimanere interlocutorio andare ad un secondo incontro o a rimandare ad un terzo incontro. È come se il vero obiettivo del primo incontro non dovesse essere il paziente o la diagnosi o la terapia. Leggevo su un vecchio testo di psichiatria di “Reda” se non sbaglio, l’avvertenza che dava: «Eh, mi raccomando, quando vedete il paziente non vi domandate ossessivamente “cosa ha e cosa gli dò?”». Sono due domande che finiscono per polarizzare l’attenzione dello psichiatra. È come se l’obbiettivo del primo incontro fosse le relazione. È come se noi dovessimo puntare ad ancorare ad una relazione, ad un aggancio, ad un ingaggio: noi e il paziente. Poi, dopo, tutto viene di conseguenza, però adesso è un momento particolare, poi il paziente accetta, dopo, tra virgolette, qualunque terapia, qualunque indicazione. Ma se si è formata una relazione – che sembra un ossimoro – perchè, com’è possibile che un’incontro diventi già una relazione. L’incontro è un elemento di una relazione che si forma nel tempo, e invece, se l’incontro è autentico, in un primo incontro che ha anche il sapore dell’ultimo incontro, già si getta un’ancora relazionale. Se lo psichiatra riesce a fare questo, io credo che abbia fatto un buon lavoro.
B. Io credo che il vero problema sia quello di riconoscere che esiste uno strato roccioso in ognuno di noi e che, soltanto superato il quale, probabilmente entriamo in contatto – parlo di me stesso anche – con la nostra natura più vera che probabilmente è quella che occorre per poter fare una corretta diagnosi e probabilmente anche una corretta prescrizione. Però è anche vero che esistono delle aspettative, come tante volte si dice per due, cioè il terapeuta, ossia lo psichiatra e il paziente con le sue attese. Come si fa a non deludere le aspettative del paziente e della cura, rimandandola. Non pensi che il vero tema sia l’accoglienza? Se il paziente si sente accolto accetta anche il rimando terapeutico, se non viene accolto, pensa invece “questo qua non mi ha dato la pastiglia che volevo”
DP. Sono totalmente d’accordo con te. Tu la chiami accoglienza, io l’avevo chiamata scampolo di relazione, ma è quello che volevo dire. È esattamente quello. Io ti dico che col passare degli anni, ti parlo ormai da psichiatra maturo, se non anziano, ho imparato ad essere sempre più libero nell’incontro e ad avere meno aspettative. A sentirmi anche meno sconfermato nel mio ruolo dagli atteggiamenti del paziente (evidentemente cita la sua antica relazione coi tossici che volevano e vedevano solo “la roba”) e paradossalmente scopro che questo mi dà più chance con il paziente. Cioè meno mi costituisco io come “soggetto-supposto-sapere”, più considero il paziente, diciamo così, titolare della sua esperienza, dunque più mi metto nella condizione di che deve ascoltare, deve capire, deve imparare da chi ti è di fronte, più ho delle chance al momento opportuno quando devo proporre una diagnosi, una terapia, una indicazione. Ma va anche detto che in parte sono favorito dal fatto che in genere i pazienti che incontro, sono pazienti che mi vengono inviati, perché come dire un primo, un secondo livello è fallito, quindi mi vengono inviati in funzione di superconsulenza, allora già mi accorgo che il paziente entra con un atteggiamento di reverenza nei confronti del professore, dell’esperto, lui ha la sensazione di essere stato inviato da un clinico esperto, credo che questo favorisca in linea di massima noi psichiatri anziani, rispetto ai più giovani. Però va anche detto che i più giovani sono anche favoriti dal fatto di essere semplicemente coetanei del paziente o a volte anche più giovani del paziente. Io son partito che tutti i miei pazienti erano miei fratelli, oggi mi ritrovo ad essere il padre della maggior parte dei miei pazienti. Questo cambia le cose. E però questo mi ha fatto capire quanto lasciarsi andare, come dici tu, cioè non aggrapparsi al proprio stato roccioso, uscire un attimo fuori dalla maschera, dal sistema, dall’autorità (dal ruolo), far sentire al paziente che lo si sta incontrando da uomo a uomo, ecco, questo paga molto, quando poi, si ritorna nelle vesti di medico e di paziente.
B. Credo ci sia un punto molto doloroso della psichiatria italiana, una considerazione che mi è venuta in mente ascoltandoti. Spesso capita di vedere un paziente che non ha bisogno di terapia farmacologica (tanto per esagerare), perché ha un po’ d’insonnia, per cui basterebbe un ipnotico, giusto per aiutarlo un po’, ma invece necessiterebbe di intervento psicoterapeutico. Mi rendo conto che per uno psichiatra del Servizio, pensare o dire una cosa del genere può essere molto difficile. Non tanto e non solo perché il paziente preferisca a volte la pillola miracolosa, ma soprattutto perché non sa dove mandarlo. Ecco, vorrei porti questa domanda, a te che ti occupi in maniera seria della formazione psicoterapica degli operatori della salute mentale in Italia. Penso sia un tema mica da poco, perché come abbiamo già accennato, se non è detto che il colloquio psichiatrico debba condurre ad una terapia farmacologica, non è altrettanto vero che non possa avere bisogno di una indicazione ben precisa di tipo psicoterapeutico. Allora, come facciamo, se le terapie psicoterapeutiche non è che non ci siano, ma sono sempre e solo, tutte a pagamento?
DP. Questo è un grosso problema perché noi abbiamo una grossa carenza di psicoterapeuti nei nostri servizi, abbiamo una carenza di psichiatri, quindi immaginiamoci di psicoterapeuti. Però va anche detto che le psicoterapie, tutte, presentano delle rigidità che spesso rendono ostativo l’accesso del paziente al percorso di psicoterapia e frenano anche lo psichiatra. Voglio dire cioè, di non essere sicuro che il problema si risolverebbe infittendo di psicoterapeuti i servizi. Perchè anche lì, funzionerebbe un sistema selettivo. In definitiva, il paziente che va in psicoterapia finisce col non essere il paziente che più ha bisogno di psicoterapia. Questo è un paradosso che ho notato molto in questi anni. Allora, cosa voglio dire con questo? Che il servizio dovrebbe recuperare proprio una funzione psicoterapeutica che pertiene non solo allo psicoterapeuta formato, ma pertiene allo psichiatra, ma ti dico che pertiene anche all’operatore della riabilitazione, che pertiene anche all’infermiere, (l’équipe di una volta). Cioè l’atteggiamento psicoterapeutico è un atteggiamento che supera il setting. Secondo me questo è un punto che è stato poco discusso perché tutta una serie di pratiche vengono considerate selvagge, non propriamente psicoterapeutiche, e invece sono proprio quelle a innescare dei cambiamenti all’interno del paziente. È come se il terapeuta, la terapeuticità dovesse sprigionare proprio dalla persona, dall’incontro, dal servizio, dai vari passaggi e poi naturalmente è chiaro che ci sono anche le psicoterapie che hanno il loro setting i loro passaggi, i loro obbiettivi, ma quelle, io in salute mentale, le considererei secondarie, riservate ad una quota con pazienti diversamente strutturati. La maggior parte dei pazienti di cui si occupa la salute mentale forse non è di quello che hanno bisogno. Come non hanno bisogno di modelli riabilitativi, come dire, implementati di alto livello, di cui si è sentito parlare in tutti questi anni nei Convegni, perchè quello è un altro aspetto che noi dovremmo riaprire. Che senso ha una riabilitazione non contaminata di psicoterapia e di psicopatologia? Questo è un grosso punto interrogativo. Per me, per quella riabilitazione li, va applicato lo stesso discorso che potremmo fare per la psicofarmacologia. Che senso ha la psicofarmacologia senza una dimensione psicoterapeutica. Che senso ha una riabilitazione senza una psicoterapeutica, senza una dimensione clinica e psicopatologica?
B. Sono d’accordo. Io credo che quello che tu hai detto si potrebbe riassumere nel concetto di “ambiente terapeutico”. All’interno di questo clima molti nostri pazienti avrebbero un posto dove stare e trarre un beneficio. Per “ambiente psicoterapeutico”, credo s’intenda, un luogo dove ci sia un’attenzione e una preparazione alle dinamiche psicopatologiche, ma non necessariamente, come dicevi tu, e per forza, una psicoterapia istituzionalizzata. semplicemente un ambiente che diventi terapeutico perché coglie la complessità dell’essere umano che ricorre al Servizio.
DP. Anche semplificato in misura ridotta certamente il ricovero in SPDC, l’SPDC scarno, muto, senza diversivi, dove però si alternano gruppi e squadre d’infermieri diversi, medici diversi, dove i pasti sono regolari, dove c’è una somministrazione di farmaci, dove c’è un minimo d’interesse per i pazienti non è detto che sia ininfluente. Un paziente paranoico, per esempio, che viveva chiuso in casa o fuggendo da una parte e dall’altra, non dobbiamo pensare che in quei 15 – 10 giorni, una settimana, quello che sia di ricovero coi farmaci che ora prende regolarmente, “la terapia”, si sia ricompensato per questo. È quell’ambiente, come dici tu, che per quanto contenitivo, come dici tu, dove si alternano, mescolandosi come dici tu, urla, cura del corpo, doccia, pulitura, cambio del letto, insomma, tutto questo ruotare intorno al paziente, di atti concreti e quotidiani, ha una valenza terapeutica, psicoterapeutica che non va sottovalutata, perché non c’è un setting strutturato non considerata tale. Ecco, io credo che questa sia la psicoterapia che pertiene alla psichiatria, che è lo specifico dello psichiatra, non ridotto alla sua funzione di neurologo comportamentista. Questo è il concetto. Concludendo, mi viene in mente che la prima volta che da giovanissimo psichiatra andai a provare all’SPDC di Novara, dove il primario era Eugenio Borgna, le porte erano aperte. Io che non ero abituato, alle porte aperte, dissi: “Professore, come si fa?” E lui mi guardò coi suoi grandi occhi azzurri dicendomi – e chiudiamo l’incontro con queste parole – “semplice, si fa”. Credo sia profondamente vero.
Note
01. Così, Lorenzo Calvi descrive la Neuro di Roma nel suo articolo “Callieri e l’esperienza di fine del mondo” Comprendre 23, 2013-I, p. 62.
02. Si veda Lamberto Longhi. Introduzione ad una neurologia fenomenologica. Società Editrice Universo, Roma, 1969.
03. Il primo saggio antropofenomenologico, che lessi in vita mia era intitolato “Essere Nervosi” di Cargnello. Trattava argomenti che riguardavano il sistema nervoso in senso lato. Comparve in una raffinata rivista monografica – “Ulisse” – proposta da Maria Luisa Astaldi fin dal 1947 per i tipi della Sansoni, Firenze. Cfr. Pol.it L’orientamento fenomenologico esistenziale. di Danilo Cargnello. introduzione di Sergio Mellina 17 aprile 2019 http://www.psychiatryonline.it/node/7982
Bibliografia di opere citate nel testo.
Gian Carlo Reda. Trattato di psichiatria. Firenze : USES Edizioni Scientifiche, ©1982.
Antonio Alberto Semi. Tecnica del colloquio. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1985.
Lev Tolstoj. La sonata a Kreutzer. Curatore Gianlorenzo Pacini. Feltrinelli, Torino, 2014.
Robert Valser. La passeggiata. Traduttore, Emilio Castellani. Adelphi, Milano, 1976.
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