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CARLO MAGGINI : L’ULTIMO JASPERSIANO

29 Mag 23

A cura di Gilberto Dipetta

Recensione a PSICOPATOLOGIA E PSICHIATRIA CLINICA, VOLL 1-2. Mimesis, 2023

La miniera di scritti psicopatologico-clinici messi insieme in forma organica di testo, organizzato in due volumi e coerente per argomenti trattati, ad opera di Carlo Maggini, offre l’occasione per una serie di considerazioni, sia relative al prezioso materiale edito, che, più in generale, all’orizzonte culturale di riferimento in cui si iscrive il pensiero dell’Autore. Come si evince dal titolo di questa recensione, il Maggini può a pieno titolo essere considerato l’erede italiano dello Jaspers della “Psicopatologia Generale”. Non perché non ci siano stati altri estimatori di Jaspers. Nessuno psichiatra europeo, dopo Jaspers, non può non dirsi jaspersiano. Ma la posizione di Maggini è diversa. Egli ha fatto suo il punto di vista metodologico di Jaspers con rigore e radicalizzazione, senza lasciarsi incantare dalle sirene. Quali sono le sirene? La prima sirena è lo stesso Jaspers dalla “Psicologia delle visioni del mondo” in avanti, ovvero lo Jaspers psicologo e filosofo. Egli si è permesso, infatti, smettendo il camice di psichiatra, una libertà di escussione, per così dire da “esistenzialista”, che lo ha portato ben oltre le “colonne d’Ercole”, ovvero ben oltre i limiti epistemologici che egli stesso si era dato nella “Psicopatologia Generale”. Gli stessi psichiatri fenomenologi successivi, di qualunque Scuola, hanno considerato Jaspers un necessario punto di partenza, piuttosto che un “vero” fenomenologo. Lo stesso Jaspers, del resto, nella Psicopatologia Generale, non lesina critiche a Binswanger ed ai metodi antropologici che, a suo dire, apportano confusione allo schema binario comprendere/spiegare, su cui corre il treno della Psicopatologia Generale.

Uno dei critici nostrani più acuti della posizione jaspersiana è stato ed è Luciano Del Pistoia. Ballerini di Jaspers ha fatto una sua personalizzazione creativa, come del resto ha fatto nei confronti di Schneider. Callieri è quello che più di tutti lo ha liberamente frequentato, in feconde incursioni che hanno risparmiato pochi campi dello scibile. La linea di Maggini, invece, è pura, ed è quella della Scuola di Heidelberg senza deviazioni : Jaspers, Schneider, Glatzel, Kranz, Pauleikoff, Huber, Weitbrecht, Gross, Klosterkoetter, Janzarik, Grulhe, Mayer-Gross Wetzel, Conrad, Matussek, Kisker, separandosi come in una biforcazione da quella antropologica di Straus, Von Gebsattel, Zutt, Kulenkampf, Von Bayer, Blankenburg, invece molto frequentata da Bruno Callieri ed Arnaldo Ballerini. La linea jaspersiana radicale, quella del primo Jaspers, prevede una netta differenza tra comprensione e spiegazione. La comprensione viene avanzata lungo il crinale della derivabilità di un evento dall’altro, in termini di connessioni e rimandi significativi di esperienza vissuta, e si arresta di fronte all’incomprensibile, laddove comincia la spiegazione causale, che è fondamentalmente di tipo naturalistico. Dunque estrema chiarezza e distinzione metodologica. Eventi comprensibili ed eventi incomprensibili. Un modo per giustapporre uno dei metodi, quello comprensivo, di derivazione umanistica, accanto ed al servizio del metodo classico di spiegazione causale delle scienze della natura. In questo tipo di assetto la psicopatologia fenomenologica delle esperienze soggettive non si contrappone alla medicina, né pretende di oltrepassarla, ma diventa una semeiotica fine di reperimento di esperienze significative volte a dare congruità diagnostica ad un costrutto sindromico. Secondo Maggini la decadenza della psichiatria contemporanea sta nell’aver abbandonato questa lanterna psicopatologica, e quindi di procedere nel buio, in quanto i dati esplicativi che vengono dai metodi sperimentali non sono utili a conferire significatività clinica alle esperienze abnormi e tanto meno a legarle tra di loro in un rapporto di congruità diagnostica. Il colpo inferto alla capacità clinica e diagnostica dello psichiatra, in questo Maggini e gli psichiatri fenomenologi concordano, è stato dato dal sistema DSM che, dietro l’illusione di diagnosi operazionalizzate, ha cancellato di fatto la possibilità di dotarsi di strumenti psicopatologico-clinici utili alla diagnosi personalizzata. In effetti il sistema DSM è incompatibile con una diagnostica personalizzata. Sia nella sua accezione categoriale, che va per grandi insiemi, sia in quella dimensionale. Basta riflettere sul fatto che negli elenchi di sintomi del DSM non ci sono gerarchie di valore, ovvero uno vale uno, e sul fatto che i sintomi non hanno radici strutturali, ma sono presi nella loro fenomenica esterna, spesso comportamentale. Dunque il “genocidio psicopatologico”, come lo ha definito Stanghellini, ad opera di tale dispositivo, era inevitabile. Secondo Maggini a tale genocidio ha contribuito anche l’atteggiamento degli psichiatri fenomenologi, i quali, a suo dire, accentuando l’importanza di elementi metodologici eidetici, quindi più squisitamente filosofici, hanno fatto della fenomenologia, che Jaspers era riuscito a sdoganare, un corpo estraneo, come tale rigettato decisamente dall’ establishment medico. L’esito, qualunque sia stato il percorso per arrivarci, è stato catastrofico. La psichiatria attuale non è più in condizioni di porre diagnosi che afferrino la “core gestalt” del disturbo, e che dettaglino le esperienze abnormi in elementi significativi che guidano ad una diagnosi. Dunque è una psichiatria acefala. Il recente tragico caso di Seung, il presunto omicida della povera collega Barbara, ben si presta a rappresentare l’emblema della irrisolta psichiatria attuale. Disturbo di personalità (di qualunque tipo) o piuttosto psicotico grave affetto da paranoia (categoria decaduta dalle classificazioni DSM) o, addirittura, da schizofrenia paranoide? Il caso ora è cogente perché rimane alla disfida dei periti. Ma immaginiamo quante migliaia di pazienti vagano quotidianamente nella notte diagnostica di una psichiatria e di psichiatri incapaci di utilizzare il “rasoio psicopatologico”, come suggestivamente lo definivano in anni e scritti lontani (Rossi Monti-Stanghellini). Un’altra ecatombe in atto è quella dell’overdiagnosi di patologie psichiatriche ai tossicomani, nei quali grazie al monstrum della “comorbilità”, vengono applicate le categorie nosografiche psichiatriche, con il risultato di uno stravolgimento dell’incidenza e della prevalenza dei disturbi mentali classici. Tornando a Maggini, la sua opera è pregevole e massimamente raccomandata soprattutto per i colleghi neospecialisti, ai quali difficilmente qualcuno ha parlato di psicopatologia clinica. Miniera poiché Maggini ha classificato, puntellato, indicato le gallerie che si intersecano in questa incredibile miniera di costrutti, nei quali viene problematizzato il tema fondamentale di ogni principale ambito della psichiatria clinica, per inciso, l’unica che valga la pena di coltivare. Maggini, come Virgilio, è disposto a guidare il novello psichiatra dentro questa miniera, rendendolo edotto del succo di decenni di osservazioni e di fini deduzioni. Certo, tornando a galla, se si guarda la nosografia, allora si sorride, come chi torna da un lungo viaggio e guarda il depliant informativo; se si guarda la persona che si ha di fronte, ovvero il caso clinico, allora ci si rimbocca le maniche, perché gli strumenti per un lavoro di rilievo, messa in forma e sagomatura delle esperienze psicopatologiche può finalmente incominciare. Largo spazio, nel testo di Maggini, è dato alla schizofrenia, una patologia ormai dimenticata o banalizzata. La più parte delle schizofrenie, soprattutto quelle negative, o paucisintomatiche, sfuggono oggi alla diagnosi, e quindi alla terapia, perché gli psichiatri sono disavvezzi a misurarsi con la complessità di una malattia concettuale, quale è la schizofrenia, che si incarna in tanti rivoli quanti sono i pazienti: ognuno ha la sua schizofrenia. La lettura è agevole: Maggini è un superbo oratore ed un grande scrittore ma, soprattutto, un clinico fine, di quelli che nulla hanno di meno dei nostri colleghi strumentisti, i quali si avvalgono di dati inoppugnabili. Le “datità” che un clinico alla Maggini riesce a cogliere nell’incontro con un paziente, sono fedeli alle ippocratiche observatio et ratio, e allo jaspersiano “rivivere” le esperienze, per comprenderle. Concludo dicendo che un testo simile colma una lacuna nella psichiatria italiana, anche nella migliore psichiatria italiana, la cui letteratura vanta testi pregevoli ma fedeli ai variegati “punti di vista” che organizzano il materiale clinico. Nelle righe di Maggini si ha invece l’impressione che sia la clinica l’unica teoria che sta in piedi, ovvero la clinica è l’unico terreno su cui una teoria si tiene in piedi, e fuori dal cui baricentro ogni teoria cade. Ma non mi si fraintenda: questo non è un testo che raccoglie saggi di storia della psichiatria. E’ una raccolta di “esercizi”, come li avrebbe definiti Lorenzo Calvi, nel quali un clinico si interroga con spietata e radicale metodologia di fronte a fenomeni che si presentano confusi, nascosti, acuti, misti e cronici. In una parola, di fronte al dolore di esistenze segnate dalla follia. Una nota finale malinconica: era questa, cioè la prassi clinica radicale e pensante, ciò che avrebbe dovuto costituire la spina dorsale della psichiatria distaccatasi dalla neurologia. Così non è stato. E la nostra disciplina è attualmente un’ameba prossima al risucchio. Nonostante questo, l’incontro tra lo psichiatra e il paziente sopravviverà anche alla morte della stessa psichiatria, e sarà così finchè un clinico sarà capace di orientarsi sulle orme che altri, prima di lui, faticosamente hanno lasciato. Grazie professor Maggini di questa miniera di orme.

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