Cos’è la rappresentazione pittorica chiamata “natura morta”? Rappresenta la vita o la morte? Un piatto vuoto sul tavolo, un vaso di fiori, una mela, dipinti sulla tela, sono fuori dal corso della vita quotidiana, astratti dalla loro esistenza naturale, o di questa vita sono, invece, testimonianza persistente che la sottrae dalla caducità? Sono incline a pensare che la “natura morta” rappresenti cose che sono vive perché hanno fatto esperienza di morte: essendo morte sul piano concreto (del loro uso, della loro funzione, della loro sensorialità immediata) possono rivivere senza limiti spazio-temporali, persistere oltre la loro effimera esistenza. Sospese nella loro concreta, temporanea esistenza alloggiano nello spazio e nel tempo di una trasformazione perpetua del nostro modo di investirli eroticamente, affettivamente e mentalmente. Al tempo stesso acquisiscono un loro idioma che evolve come quello di un oggetto vivo nel mondo delle impressioni sensoriali, dei sentimenti e dei pensieri. La “natura morta” rappresenta l’“anima” del mondo inanimato, cioè la sua persistenza significante e significativa nel nostro mondo psichico. Quest’“anima” abita dentro di noi, ma “scava” la sua abitazione nella nostra psiche imprimendole la sua esistenza reale, che è indipendente dalla nostra soggettività. La nostra anima, la nostra vita, contiene l’inanimato come parte di sé.
La “natura morta”, l’anima del mondo inanimato, rappresenta la vita nella morte e, al tempo stesso, il fatto che ciò che vive deve, per poter vivere, morire. Si può aggiungere che la “natura morta” è presente in ogni opera d’arte vera (come sua componente costitutiva) ed è espressione del lutto (cioè del lavoro di trasformazione, dello sviluppo delle differenze) che permette al desiderio di vivere e di svilupparsi. “Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”(Eraclito) La distanza tra noi e la “natura morta” dipinta sulla tela non è estraniazione, ma affermazione poetica di questo principio.
La vita è abitata dalla morte e ciò la rende immortale, le cose vivono attraverso la perdita, il lutto che le rende vive perché le trasforma, le fa persistere; l’opposto del restare immobili e inerti.
Siamo mortali materialmente, immortali psichicamente. La nostra immortalità psichica non è un fatto individuale, ma una persistenza indiretta di ogni singola esperienza personale nel campo dell’avventura umana universale. Viviamo prima di essere nati e viviamo dopo che siamo morti, perché immersi in un mondo di ritmi, esperienze e significati che è, al tempo stesso, continuo e attraversato dalla discontinuità. Questo è il motivo per cui non temiamo la morte fisica, non viviamo per sopravvivere materialmente (una credenza difficile da scardinare). Temiamo invece la morte psichica, l’impossibilità di dare senso alla nostra esistenza al punto che messi alle strette la significhiamo in modo irragionevole, salvando la coesione psichica costi quel che costi, al rischio di morire fisicamente. La nostra morte materiale ci terrorizza per la sua insensatezza, mentre la morte delle persone care ci addolora: l’elaborazione del dolore ricrea costantemente la vita dentro e fuori di noi. Ciò che è perduto in modo permanente o temporaneo (dalla persona amata a uno sguardo su un panorama), lo ritroviamo in forme nuove nel nostro mondo interno e nel mondo esterno. E quando rischiamo di morire pensiamo a ciò che amiamo e a ciò che ci ama, a ciò che perdiamo e a ciò che ci perderà. A ciò che viveva prima di noi, a ciò che vivrà dopo. Possiamo vivere il momento della nostra morte, in termini di presentimento, solo come lutto. Il che significa che siamo vivi, mentre stiamo per morire.
L’incrocio tra la vita e la morte (la tessitura della nostra esistenza che determina il nostro destino) è manifesto nell’attrazione nei confronti della morte. L’attrazione ha due origini molto diverse. La prima è nell’estrema vicinanza della vita e della morte del desiderio che può prendere forma nel mondo interno del soggetto. Nel momento in cui il soggetto si sente più vivo, sente anche che possa morire, dissolversi. Questo ha a che fare con l’idea dominante la psiche (avente la sua fonte nella storia personale o in condizioni di vita collettiva molto precarie) che l’oggetto di desiderio e del godimento mancherà sul più bello e senza appello, che non c’è lavoro di lutto e di trasformazione che possa permettere di ritrovarlo, di raggiungerlo di nuovo. Lasciarsi andare è sentito come vertigine, precipitare nell’abisso. Piuttosto che essere interrotto nella sua materia viva, il soggetto la interrompe di sua iniziativa, si interrompe da sé. Inibisce il suo desiderio di vivere, facendo della sua vita un compromesso tra ciò che può e ciò che non può permettersi, e percepisce l’inerzia psicocorporea che in misura variabile lo abita, come solidità che lo fa sentire al sicuro. Quando il compromesso diventa molto rigido il soggetto può ricorrere (unico modo per sentirsi vivo, mantenere accesa la fiamma del desiderio) alla spericolatezza, all’azzardo: l’emozione intensa dell’incertezza tra la vita e la morte, che è tutta un brivido, in cui tutto è possibile è tutto può morire. Va alla ricerca perpetua di una vertigine controllata, nella quale la caduta trova il suo appiglio in una morte simbolica non definitiva, dalla quale si può sempre rinascere. Ciò implica un danno di sé calcolato che evita la vera catastrofe, un autolesionismo protetto che consente che la sfida alla morte continui. In circostanze estreme la sfida diventa identificazione con la morte.
La seconda origine dell’attrazione della morte su di noi ha a che fare con l’orgasmo: il lasciarsi andare senza riserve, “morire” come soggetto centrato su di sé, per rinascere come soggetto desiderante nel rapporto erotico con l’altro. La mancanza di sé come condizione della presenza in sé. Nell’esperienza dell’abbandono è la presenza dell’altro a far sì che il perdersi erotico non diventi un vortice che crea vertigine. Lega in silenzio lo sviluppo dell’esperienza orgasmica ad altre esperienze, altre significazioni, altre implicazioni emotive e sensoriali. L’abbandono si inserisce in una concatenazione di vissuti e rappresentazioni co-costruite con l’altro (e attraverso vari rimandi a tutti gli altri) che lo rende contenibile e insaturo, mai chiuso in se stesso e realizzato una volta per tutte.
Nel mondo attuale soffre la cultura del lutto, il riconoscimento della perdita e del dolore come parte ineliminabile del piacere del vivere. Si vive per non soffrite psichicamente e per non morire materialmente, per far apparire vivo ciò che è morto sul piano psichico. La morte fisica è il limite invalicabile della nostra esistenza che ci consente di vivere psichicamente. Non è il nostro destino. Il nostro destino è vivere nella mancanza, nella perdita che espande la nostra vita oltre i suoi confini spazio temporali definiti, che fa vivere in noi, in mille modi, ciò che è stato prima e ci fa vivere in ciò che sarà dopo. Il nostro destino è l’immortale avventura umana che noi abbiamo creato e noi possiamo distruggere.
0 commenti