Il disastro climatico vanamente annunciato da almeno cinquant’anni, si è finalmente accomodato stabilmente nella nostra vita. L’innalzamento previsto della temperatura è diventato irreversibile e a quanto pare progredirà senza grandi intoppi finché non arriverà al grado ottimale della nostra cottura. Da più parti è stato detto che l’umanità sta adattandosi al surriscaldamento del pianeta allo stesso modo in cui le rane restano nell’acqua che piano piano aumenta di temperatura, finché stordite non finiscono per bollire. Questa descrizione suggestiva del suicidio collettivo ci fornisce, in realtà, una buona metafora della nostra concezione adattativa della vita. La distruzione della natura, dei legami solidali e conviviali, dei posti di lavoro e delle relazioni erotiche e in generale lo sradicamento di massa degli esseri umani da un posto dignitoso nel mondo, sono diventati oggetto di assuefazione progressiva. Tutte le nostre risorse vengono investite in una ricerca folle: come andare avanti, nonostante tutto, abituandoci all’incombere della morte. Non siamo più preoccupati del ben vivere, ma del come vivere restando in condizioni che, procedendo con questo passo, ci faranno morire. Questo è, in parole povere, il nostro culto del “pensiero positivo”.
Il pensare positivo è la pretesa di uscire dai vicoli ciechi in cui ci troviamo, senza chiederci come mai li abbiamo imboccati. La domanda che lo anima, “Cosa fare?” cancella l’essenziale: l’interrogarci su ciò che di sbagliato abbiano fatto, e continuiamo a fare, nonché sulla coazione a ripetere gli stessi errori. Ciò che sfugge ai fautori del pensiero positivo è un fatto semplice, tenacemente misconosciuto: se non facciamo quello che dovremmo fare (prendere cura della natura e delle nostre relazioni), è perché siamo fortemente impegnati a fare l’opposto. E se non impariamo a conoscere (con una certa fiducia nelle nostre emozioni e nei nostri sentimenti) i motivi per cui (e i modi con cui) agiamo in modo contrario al nostro interesse comune di una vita decente (cioè in modo contrario a buon senso), ogni nostro fare nuovo non farà che ripetere, in modo sempre più anestetico per il nostro senso del vivere, il vecchio fare. Nello stesso fiume per sempre saremo e, alla fine, annegheremo.
Le cause del disastro in cui viviamo e la loro interconnessione si possono studiare dalle persone capaci di pensiero critico, di uno sguardo globale. Una cosa si impone su tutte, indipendentemente dalla sua collocazione nella genesi complessa del disagio psichico collettivo che intorpidisce il nostro sentire e il nostro pensiero: il trionfo della società dei bisogni, il culto della distrazione e della liberazione dalle tensioni. Nella cultura dei bisogni sguazzano i ricchi, stordendosi con il loro appagamento. Nella stessa cultura restano impigliati i poveri che inseguono la loro sopravvivenza fisica, senza disporre di un altro orizzonte.
Il pensiero positivo ha raggiunto l’apice della sua presunzione con l’identificazione dell’intelligenza con l’abilità calcolatrice. L’intelligenza è una qualità del pensiero umano. Dipende strettamente dalla nostra libertà di desiderare, sentire e immaginare/sognare la realtà in modo profondamente coinvolto e coinvolgente. Dalla nostra capacità di amare l’inatteso e l’improbabile (le condizioni di ogni forma di innamoramento per gli altri e per la vita) e di non assuefarsi alla sorpresa e alla scoperta. L’intelligenza la trovi in Omero, Eraclito, Platone, Aristotele, Dante, Shakespeare, Tiziano, Bach, Freud, Mahler, Kandinsky, Einstein, Proust. La trovi nell’ artigiano che respira con le sensazioni dell’oggetto da lui fabbricato, nel contadino che ascolta le parole della terra. Non la trovi negli algoritmi.
Il vero scontro politico oggi è quello tra il pensiero critico e il pensiero positivo, tra la vita e l’anestesia.
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